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Un disegno milanese. Le muffe dell’«Adalgisa»Walter Pedullà |
Il disegno milanese che si intitola, come il libro, L’Adalgisa comincia con un acuto. L’Adalgisa è una cantante lirica, ma non c’entra con la professione – che d’altronde ha smesso dai tempi lontani del matrimonio col sior Carlo – il volume della sua voce all’inizio del tratto narrativo di Gadda. Alza la voce, quasi isterica, – la nevrastenia di certi personaggi gaddiani che somigliano molto all’autore – contro i pettegoli che le attribuiscono tante colpe: figurarsi, innumerevoli amanti; e questo a lei che invece ha avuto in tutta la vita solo un uomo, il marito.
Ne aveva avuti, eccome, di corteggiatori all’epoca in cui era una applauditissima artista ma non era tipo da far certe cose fuori del matrimonio. Ora è vedova, ha due figli da crescere, tanti problemi pratici da risolvere ogni giorno e ben altri pensieri che non l’amore. Non ha più tempo per pensare nemmeno all’arte l’Adalgisa. Al punto che quando le tocca di accennare alla poesia, ne pronuncia il nome – dice il narratore, che notoriamente è sempre presente quando parla un suo personaggio – come se parlasse di feci. «“Voglio dire sta’ allegra, non essere così triste. È tutta poesia, nient’altro che poesia, credi a me…” Disse “poesia” come avrebbe detto le feci o altri materiali putrescenti». Chi ha tempo, cioè l’età giusta, e bellezza, meglio farebbe a prendersela più allegra, meno triste prosa della propria vita. Quasi la vita «merdosa» di Gaddus.
Abbondano e hanno quasi parte di protagonisti gli escrementi in questo disegno milanese. Gadda qui li usa per chiosare una parola dell’Adalgisa, ma più in là lungamente e altamente narra dello scarafaggio che trascina una palla di sterco sotto gli occhi del marito di lei nel periodo in cui egli si diletta a fare l’entomologo. Il disegno gaddiano, come è nella natura di uno scrittore che la fa lunga su ogni parola, non corre ma va avanti e indietro, o gira intorno finché un traslato non vola per avvicinare cose lontane. Qui ad esempio fa ponte, come dire?, tra le feci e la poesia, cioè tra il punto più basso e il punto più alto di un vocabolario e di una vicenda in cui si mescolano gli opposti.
Gadda, supremo alchimista, mostrerà di saper fare l’oro con ogni materiale, non escluse le suddette sostanze, per quanto immonde possano essere. Qui lo vedrete impegnato a comporre poesia di immenso valore con ciò che gli altri scrittori, nonché tutti gli altri uomini e donne, trascurano o buttano. Si dica che è un componimento in prosa, ma non si parli di poemetto in prosa come qualche critico finisce sempre per fare quando vede Gadda in gran forma. Dall’Adalgisa viene invece la conferma che è un narratore, come dire?, di grande respiro. Gadda pretende molto fiuto dal lettore che cerca il senso della sua arte.
Contrappuntandolo con qualche scapaccione ai figli irrequieti o con digressioni più o meno peregrine da cui prima o poi rientra nel suo discorso centrale, l’Adalgisa, che una fa e cento ne pensa, mentre le consiglia di non sprecare la giovinezza in poetiche fedeltà, disegna alla malmaritata cognata – che in effetti è già in cerca d’altro – il ritratto dello straordinario personaggio che era il marito.
Quanto calore ci mette l’Adalgisa nel raffigurare un uomo che passa tranquillamente, o almeno così pare alla moglie, dai conti dei condomini di cui è l’amministratore a scarabei che trafficano per tutta la giornata con escrementi. Come se dovesse difenderlo da un invisibile nemico. Lei non ne ha coscienza, e del proprio inconscio non sa cosa sia e non ne fa conto e così Carlo giganteggia nel racconto che l’Adalgisa fa delle sue imprese scientifiche.
Nel ricordo dell’Adalgisa il Carlo ha il momento di massimo splendore quando trova il nesso tra la pecunia, che notoriamente non olet, e le feci, che quasi per antonomasia sono sostanza puzzolente. Grand’uomo davvero quel ragioniere capace di trovare le tracce sotterranee che conducono a scoprire somiglianze tra individui di sesso, epoca e cultura tra loro apparentemente inconciliabili. Gli animali non erano mai parsi così simili agli uomini e a nessun uomo parve di essere tanto diverso dagli altri esseri umani che lo stavano ad ascoltare in ammirazione. In Gadda rimanda all’uomo ogni più piccolo e trascurabile particolare. Se hanno un così alto valore simbolico le feci, state attenti a ogni parola di Gadda: potrebbe esserci dentro una grande verità, universale o quasi. E puoi commuoverti più sulla morte di uno scarafaggio che non sulla vita di un piccolo borghese.
Gadda non dimentica di avere scritto un giorno che all’inizio l’uomo è «onnipotenziale»: ad esempio è insieme maschio e femmina, e così via. Qui il suo personaggio va anche oltre, anche più a fondo: nella struttura più elementare l’uomo non è poi tanto diverso dall’animale di più degradata condizione. Ad esempio uno scarafaggio che porta a casa pallottole di merda ha un movente non meno nobile del ricco borghese che porta i risparmi in banca. Mettono a frutto entrambi sostanze con cui garantire il futuro alla prole. Ad essere imparziali, fatica di più lo scarafaggio; e ad esso di conseguenza vanno la simpatia e l’apprezzamento del narratore. Il quale magari smorza la commozione provocando una risata. Non si ride mai invano con questo narratore che trasforma in oro anche le feci.
L’Adalgisa non lo dice ma si sente che dal marito si sarebbe attesa un po’ d’oro in più in banca e qualche scarafaggio morto in meno a casa. Essendo una buona borghese, le farebbe comodo un bel conto corrente cui attingere nelle attuali necessità ma dalla sua bocca non esce alcun appunto al marito. Ovviamente il suo pragmatismo lombardo non può non avvertire che c’è differenza concreta laddove il Carlo trova identità strutturale tra il danaro del borghese e le feci dello scarafaggio. Intanto però praticando la differenza strutturale tra l’uomo in quanto borghese e l’uomo che vive di scienza, Gadda non nasconde la preferenza per il secondo: anche se si guarda bene dal lanciare cacca sul primo, presente con parecchi esemplari da salotto.
Una vicenda intellettuale così sottile e annodata la racconti dal versante opposto una donna concreta che sappia tenere terra terra una questione con la quale un filosofo cervellotico rischierebbe di rompersi l’osso del collo. Naturalmente è un problema anche lei stessa. Sono sempre un problema per Gadda le donne, specialmente quelle che hanno figli. È una madre pure l’Adalgisa, ed è molto materna anche nei riguardi del suo adorato Carlo. Uscirà pure lui con le ossa rotte dal confronto con un forte personaggio femminile cui lo scrittore ha affidato la narrazione degli eventi? Inutile domandarsi perché Gadda ha scelto una donna per parlare di un personaggio maschile che gli sta tanto a cuore.
Gadda fa qui il suo gioco preferito, anzi i suoi due giochi vincenti: quello ab exteriore, con cui mette bocca – talvolta ridente e spesso irridente – su tutto, e quello ab interiore, con cui dà la parola ai suoi personaggi perché dicano la loro dal loro personale e privato punto di vista. Coi due giochi fa intrecci, trame, nodi e gnommeri, tentando di non perdere il filo della matassa aggrovigliata che è una vicenda degna di racconto. Naturalmente chi l’ha aggrovigliata è lui stesso, narratore che aggiunge materiale sperando che il nuovo particolare lo conduca all’essenziale. Quante differenze per trovare la ripetizione che fa legge!
Monologhi, dialoghi, discorso indiretto libero, l’Adalgisa prende la mano al suo narratore, fa quello che vuole, la sua oralità occupa il territorio e sconfina, assecondata da un acquiescente io narrante. La parola straripa, la mente divaga, gli occhi non perdono di vista nulla di ciò che appare nei paraggi ma lei tiene tutto sotto controllo. La tempesta non investe solo la sua lingua. Gadda le dà spago sapendo di non poterla legare a un’idea. Finge di arrendersi, ma le fa dire quanto le passa per la bocca nella certezza che verrà fuori quanto le passa per la testa. Prima o poi una parola farà la spia. Adalgisa, un nemico ti ascolta.
Sotto un personaggio vulcanico in fase di massima eruzione si sente che c’è qualcosa che intenzionalmente non verrebbe mai fuori. Come il suo autore, l’Adalgisa si tappa la bocca, si dà l’interdetto: solo un lapsus potrebbe farla scivolare e farle confessare ciò che profondamente la assilla. Troppo roventi i suoi discorsi, perché non ci sia un incendio. L’Adalgisa prende fuoco ma è anche un eccellente pompiere, un personaggio che non vuole bruciarsi. Si tocca con mano che la donna ha carattere. Abbraccia la causa del marito ma non direbbe mai d’essersi scottata. Bisognerà aspettare qualche gesto innocente per trovarla in colpa.
Come in una scatola cinese tre personaggi stanno uno dentro l’altro: un io narrante contiene l’Adalgisa, la quale a sua volta porta in grembo il sior Carlo. D’altronde l’entomologo dilettante è davvero una creatura dell’Adalgisa, sposa materna e comprensiva, ammiratrice fervente ma anche indulgente di un uomo che ha grande scienza ma poca esperienza di vita pratica: quella vita che una milanese empirica e positiva sa essere distante e ben diversa dalla poesia, forma e sostanza da buttar fuori. Potrebbe gettar via un uomo anzitutto interessato a quella specie di poesia che è la conoscenza perseguita senza fini di lucro? è una vittima o una colpevole questa madre presa fra due fuochi? L’io narrante è ambiguo, ha simpatia per entrambi ma il colpo finale lo assesta alla donna, al suo paradossale empirismo cimiteriale.
Del marito non c’è che dire: è un uomo concreto, è uno scienziato, non si dedica a fanfaluche poetiche o ad altre fantasie. Di professione è un ragioniere, uno che conosce il valore del danaro. La casa della coppia però è tutt’altro che piena di soldi: impegnato com’è lui a zavorrarla con quintali di minerali rari sui quali sa tutto il dilettante. Fa lo scienziato per piacere ma conosce tutti i minerali a dovere, non c’è che dire. Ci sarebbe però da dire e da ridire sul fatto che di tanto in tanto il sior Carlo cambia disciplina: la geologia dopo la filatelia, da mineralogista che era, diventa entomologo e si mette a caccia di farfalle vere e proprie, tangibile vita che vola. Con i suoi irraggiungibili pensieri lo scienziato è sempre altrove come un poeta: sia pure dopo essere stato saldamente in un posto preciso, come si addice a chi fa esperimenti sulla realtà.
Da narratrice orale naturalista come è sempre una lombarda del suo tempo si limita a riprodurre fedelmente dialoghi e ambienti, e in essi mette l’anima. Non è verista l’Adalgisa, mentre il visionario è il marito. Detto così, per metter zizzania fra due personaggi profondamente diversi. Gadda però parteggia per l’entomologo: con un rispetto che ricorda quello riservato allo scarafaggio catturato sulla sabbia.
Cosa hanno in comune e cosa fa la differenza? Ebbene, mentre lo scarafaggio trascina a casa una pallottola di escrementi per nutrire la famiglia, l’entomologo si carica di fossili da portare a casa per alimentare la propria fame di conoscenza. Due gesti uguali ma di significato differente: quello che pare il più egoista potrebbe essere il più altruista, l’uomo di scienza che pensa per tutti. Decolla a volo alto sopra gli altri un personaggio come il sior Carlo.
Una come l’Adalgisa, che sta coi piedi per terra, segue i fatti e i detti di Carlo fin dove può. Ne ricorda con precisione i discorsi, è quasi un registratore, non ha dimenticato una parola o un atto del ragioniere posato e saggio che cerca in scienze diverse. Testimone fedele, la cantante tuttavia è inconsapevole del significato dello spettacolo che racconta. E una portatrice sana ma non è salute nemmeno il suo realismo.
«Lo studio, la scienza, erano il suo pane. Non era certo uno che viveva per il ventre. Nelle poche ore libere, studiava sui libri. Continuava a leggere fino all’una, in letto, che io ero già bell’e addormentata. Si occupava di tante di quelle cose! Faceva delle raccolte. Le raccolte, oltre ai ritratti dei paesaggi della Libia, erano il suo grande ideale.» Un filatelico prima ancora d’essere un mineralogista. Poi sarebbe stato un entomologo il ragioniere che l’Adalgisa aveva preferito a corteggiatori più ricchi e potenti. Eccolo qui l’uomo ideale di una piccola borghese cui non s’addice l’avventura. In quanto al sior Carlo la sua avventura l’aveva avuta in guerra: non la Caporetto di Carlo Emilio, ma la Libia del vincitore. Era un uomo vincente quello sposato dalla cantante: almeno finché lei si poteva permettere il lusso di avere ideali, avendo messo a frutto la propria arte, non ancora ridotta a maleodorante poesia.
Carlo era un uomo normale quanto lo era l’agricoltore che nel saggio gaddiano intitolato Come lavoro era felice quasi solo quando poteva esaudire il proprio massimo desiderio: tagliare di netto, più in fondo possibile, il gambo, quasi un tronco, di un asparago selvaggio. Ebbene, i francobolli, i minerali e gli scarabei sono gli asparagi di profondissima, irraggiungibile radice del sior Carlo. Arriverà mai alla radice del suo astratto problema l’entomologo che non si posa mai a lungo su una professione praticata da dilettante?
Chi era questo infaticabile ricercatore l’Adalgisa non sa ancora dirlo. Il narratore le corre in aiuto, ma attenti alla coda del discorso: «Seppe capire il Carlo. Lo apprezzò, lo intuì, lo studiò così a fondo, che certe volte, se glielo avessero domandato là per là, sui due piedi, fra il ferro caldo e la salsa d’amido, non avrebbe saputo dire nemmeno lei cos’era: se un ragioniere o un mineralogista o piuttosto un filatelico, un entomologo (ma questo fu assai più tardi) o un valoroso, un reduce dalla Libia. O un minchione. “On bel mincionon d’om, con du oeucc, cont on par de barbìs…”». L’amore non manca, anche se non straripa, ma in quanto alla stima sempre così le donne di Gadda che trafficano coi loro uomini, sposi o figli che siano. Minchioni, deliziosi acchiappanuvole, quando va bene.
Sarà una coincidenza ma è proprio quello che, meno affettuosamente dell’Adalgisa, pensavano che fosse pure il sottotenente Gadda i suoi colleghi al fronte. Un minchione. Anche la «mamma adorata», che «non lo capisce» (Giornale di prigionia), giudicava Carlo Emilio suppergiù un imbecille. L’adorata Adalgisa non è la mamma di Carlo ma in sostanza non lo capisce più di quanto facesse la madre di Carlo Emilio. Nemmeno lei dubitava d’essere una persona normale; anormale era invece solo Carlo Emilio, il figlio perdente, colui che si perderà per la sua astrattezza. Astrattamente parlando, potremmo fare l’ipotesi che Carlo sia una delle tante metamorfosi di Carlo Emilio Gadda e che l’Adalgisa abbia preso il posto di ogni madre che ha parte di protagonista nei suoi romanzi dalla Meccanica al Pasticciaccio. Sono dei minchioni anche gli ingegneri nei romanzi di Gadda: poeti, cioè manipolatori di sostanze putrescenti con le quali non si mangia. Mai un figlio normale.
Se cercate un padre o una madre o un fratello al Carlo dell’Adalgisa, non è certo né lo studente d’ingegneria della Meccanica né il Gigi di San Giorgio in casa Brocchi: due fannulloni che odiano lo studio. Sorpresa: il padre o fratello è il Luigi Pessina della Meccanica, l’ebanista che passa la notte a leggere, anche se accanto, nel letto, giace e aspetta la magnifica Zoraide. Carlo ama l’Adalgisa più di quanto ami Zoraide Luigi, che, se pensa a una donna, questa è la madre. In quanto alle madri, che non mancano in un racconto di Gadda, l’Adalgisa la più normale, naturalmente con quel che significa una parola sulla quale il narratore fa evidentemente dell’ironia. Li abbraccerebbe tutti come figli da educare e guidare nella vita pratica i vari Luigi (il Pessina e quello di San Giorgio in casa Brocchi), Gonzalo, il Carlo entomologo e ogni Carlo che non si sa cosa cerchi nella vita. Sono dei valorosi, come hanno dimostrato d’essere in guerra Gonzalo, il Carlo dell’Adalgisa e l’altro Carlo, il creatore di questi nevrotici tifosi di metafisica conoscenza. Minchioni: detto con amore, anche se pensano di non averne ricevuto abbastanza dalla loro donna, sposa o madre che sia.
Luigi Pessina sulla tradotta che lo porta verso la morte si accusa di non avere letto abbastanza; il Carlo dell’Adalgisa muore studiando i comportamenti di quegli umili esseri viventi che sono gli scarabei, animali che si guadagnano la vita rotolando sterco. Ha il male invisibile anche un ragioniere, che un giorno diventerà ingegnere nella Cognizione del dolore. Passa da una scienza all’altra, dallo studio di fossili millenari a quello dei comportamenti animali, per scovare costanti e individuare differenze. Non soffrono di quel male invisibile gli scarabei. Ne soffrono i borghesi, anche quelli che credono di essere normali. Per non soffrire di male invisibile, l’uomo dovrà tornare all’animale che fu? Sull’ordine culturale è bene che trionfi l’ordine naturale delle cose? O sarebbe meglio instaurare un ordine culturale che rispetti l’ordine naturale? Era tornato felice Luigino Brocchi, quando aveva trasgredito agli imperativi della madre che gli tiene lontana la Jole. Ha un più nobile senso della famiglia, della paternità, lo scarafaggio che naturalmente muore portando il merdoso cibo ai suoi. Consiglio dell’eroico scarafaggio: date libero corso alla natura e fondateci una bella cultura, nella quale credere fino alla morte.
Un minchione, secondo la moglie innamorata; come Carlo Emilio era un imbecille per la madre adorata. (Sempre assente il padre di questi cacciatori di farfalle.) Un imbecille di famiglia, come Flaubert era stato l’idiota della sua? Ecco allora di chi forse è figlio questo personaggio di vita borghese così irriducibilmente inquieto; ecco quale coppia ha generato il sior Carlo e persino chi è il padre letterario di Gadda. Ebbene, il padre potrebbe essere Flaubert; e la coppia genitrice potrebbe essere quella formata da Bouvard e Pécuchet, i due imbecilli che consumano le scienze più disparate cercando di sapere tutto su tutto.
Faguet fece un’ipotesi suggestiva e tremenda che piacque a Borges: «Bouvard e Pécuchet studiano purché non capiscano». Il Carlo dell’Adalgisa studiava forse per non capire? Non è così imbecille, eppoi non si può dire che non capisca l’entomologo che ha scoperto la costante strutturale per cui si apparentano uno scarafaggio che non spreca una polpetta di merda e un buon borghese che risparmia e raccoglie i propri guadagni. Una rivelazione che non offende i borghesi e che non dà alla testa allo scarafaggio. È una verità scientifica per la quale può giustamente darsi delle arie l’entomologo, ma la scoperta lo riconduce alla condizione di animale che realisticamente o simbolicamente manovra pur sempre escrementi.
O il Carlo è per l’Adalgisa un minchione proprio perché si esalta per un risultato scientifico. Sarà poesia ma non ci mangi. Questo caro imbecille di famiglia perde il sonno e trascura la donna che gli giace accanto per cercare simili verità o addirittura la Verità. Un’ammirevole impresa da perdigiorno, ma l’Adalgisa non si spingerebbe mai fino a tanto. Troppo ama la memoria del marito, anche se il dubbio è affiorato con quella parola adorabile («mincionon») che è come lanciare pallottole di escrementi sull’entomologo.
Come Bouvard e Pécuchet, che ci fanno il Carlo dell’Adalgisa e tutti gli altri Carli con quello che imparano? è tangibile: ne hanno una necessità inderogabile. Ecco: rassomiglia a quella per cui lo scarabeo perde la vita mentre scala immense dune che ritardano il ritorno a casa, dove la moglie aspetta il rotondo e inebriante cibo. Non ci arriverà, la morte lo coglie sulla strada di casa. Si può morire in ossequio all’ordine naturale delle cose come fa lo scarabeo. Si può morire anche per una necessità culturale ignota allo scarabeo che spinge la pallottola di sterco e dimenticata dal borghese che ammassa soldi in banca. È una vita di merda quella dello scrittore, ma per lui potrebbe essere concime per la grandezza, se non per l’eroismo.
è mortale quest’ansia di conoscere che distingue strutturalmente l’uomo dallo scarafaggio. Perseguendo tale meta, si muore sempre per la strada, che è in salita anche quando si precipita insieme allo sterco, inebriante «come per il pugile la borsa». Forse ha ragione l’Adalgisa, forse ce l’aveva anche la madre di Carlo Emilio, potrebbero avere ragione tutte le madri che amano il loro Carlo o Luigi ma non lo stimano per la loro astrattezza, poetica o scientifica che sia: sono dei minchioni. Forse capiscono più di Bouvard e Pécuchet, ma è pur sempre una vita da imbecilli questa, di nevrotici che ossessivamente inseguono una verità irraggiungibile. Quando ne raggiungono una, ridono, felici. Nell’Adalgisa si ride anche da infelici.
Non è stato mai scritto un elogio funebre come questo dell’Adalgisa, che costruisce un monumento al marito visionario, al piccolo borghese che sa vivere con grandezza una innocua mania. Bouvard e Pécuchet non erano così imbecilli come questo minchione di Carlo, cui la moglie indirizza un commosso omaggio. All’entomologo non era sfuggito che specie di bestia è l’uomo, soprattutto quello che è disposto a sprofondare pur di scoprire le cause prime. Non ci sia risparmio in tale ricerca, non si sprechino energia e tempo per acquisire e conservare il danaro che servirà alla prole, si può rinunciare alla prole finché non si è appreso a quale fine lavora la specie umana. Naturalmente l’Adalgisa non rinuncerebbe alla prole, da cui le viene costante assillo, ma è affascinata dalla sia pure sterile passione intellettuale del marito. Almeno finché i problemi pratici non la costringono a un’azione che demolisce l’edificio messo su dal sior Carlo. Da quando ha capito che quell’uomo geniale potrebbe essere un minchione, l’Adalgisa non è più quella di prima.
Non era mai stata scritta una pagina d’epica come quella di Gadda quando racconta l’eroica impresa dello scarabeo che si trascina un’enorme palla di sterco in cui mettere al caldo e nutrire una nidiata di nascituri. Più eloquente e solenne il livello della prosa che esalta la lotta per la vita dello scarafaggio. Semmai, mentre celebra l’impresa conoscitiva dello scienziato si consente un po’ di umorismo, nella vicenda dello scarafaggio si ride solo quando lui esce di scena e arriva il ragazzo che, madonnabbona mondohane, stringe la polpetta di sterco e si riempie le mani di cacca. Nello scambio di parti e di linguaggi praticato dal disegno milanese l’epica tocca allo scarafaggio e la farsa ai borghesi. Si può essere eroi spingendo merda ed essere uomini vili accatastando metalli di gran valore. Lo si vede da come affrontano la morte, la propria e quella delle proprie cose mortali.
C’era la canicola a Viareggio quella volta che il sior Carlo avvistò trionfante un magnifico esemplare di Ateucus sacer. «Vele erano nel mare, lontane», un endecasillabo per creare l’atmosfera adatta alla gigantesca impresa dello scarabeo che spinge una palla di sterco assai più grande di lui. Il metro, l’endecasillabo, è lo stesso di Monti per il Pelide Achille, anche se l’eroe greco era assai più veloce dello scarabeo gaddiano.
«Puntava sulle zampe anteriori e retrocedeva in una sicurezza perfetta, come sol ci vedesse dal pigidio. Ogni volta bisognava afferrare le pallottole con le posteriori ed ecco, lo sospingeva all’insù, terribilmente, valicando con la tenacia di Sisifo le piccole dune, le increscature dell’arena, a noi nulla, bastioni enormi a lui. La pallottola, perfettamente sferica e infarinata come una polpetta, era venti volte più grossa dell’Ateucus, ma doveva averlo inebriato col suo profumo, come l’odor solo della “borsa” inebria il pugile alla lotta.
«E la sfera ascendeva, lenta, si sublimava sopra la repulsione di quella pazienza color pece, superava i tenebrosi divieti della gravità. Tragredito il vertice, ripiombava rotolando nella gravità. L’Ateucus, infaticato, la sospingeva per monti e per valli fino alla dimora di sua donna, che attendeva, ansiosa, per la piccola, per la imminente larva, quella balia provvidenziale.»
Agli amici borghesi in salotto il Carlo dell’Adalgisa spiega il comportamento dell’Ateucus sacer Linnaei, così umano: «Una volta che si sono assicurati la preda, ne traggono delle grosse pallottole,… confezionate a regola, in ciascuna delle quali la femmina depone un uovo. Così appena nato, il principino trova il mangiare bell’e pronto. Tale e quale come fosse un figlio di papà… è il sogno di poter allevare i nostri figli nel benessere, nella sicurezza del domani… di vederli crescere forti, generosi, con l’orgoglio di sapersi nostri figli… E questo lo cerchiamo, lo otteniamo a prezzo di qualunque sacrificio… valendoci della fatica, dei risparmi sacrosanti di tutta una vita!»
Proprio come i ricchi borghesi; che a loro modo conservano le feci per il futuro proprio e della propria specie. Solo che prima le trasformano in oro e poi le depositano in banca. «Propi inscì! Ben detto!», rincalzarono tutti. Scopersero poi, felicitandosi reciprocamente della scoperta con dei nuovi «ben detto! vorevi propi dill anka mì», che i risparmi, per l’appunto, possono essere paragonati «al… alla… sì, insomma, a quella polpetta». C’è differenza e c’è progresso nell’identità strutturale di scarafaggio e uomo: anche perché l’uomo, se non ha saputo rendere inodori le proprie feci, trasformandole in soldi le ha, se non profumate, rese brillanti e sonanti.
Non si illuda però di avere creato lui la cultura di migliore odore e sapore. Hanno una cultura complessa e raffinata anche i necrofori, gli insetti che vanno a far nido dentro l’intestino del topo morto. «Questi necrofori, una volta seppellita la sua brava carogna, ci banchettano dentro, felici…» (Era felice anche lui.) “Denter in del venter, in di busekk del ratt…” Si stirò i baffi. “Poi si accoppiano”, e questa brutta parola fu pronunziata da un Carlo straordinariamente serio; “indi vi depongono i uovi…”
«Un’agape sacrificale, un banchetto totemico. Poi l’orgia a pancia piena, nella pancia del topo morto. E futuro assicurato: una prole felice.
«Così tutto è fecondo, nella infinita fecondità di natura.»
Gadda devia il più eloquente vocabolario e la più suggestiva musica degli uomini verso questi insetti capaci di una così solenne cerimonia per celebrare le nozze di amore e morte. L’infinita fecondità di natura chiude un periodo ma garantisce l’avvento di un altro, necessariamente non migliore: cosa di cui i necrofori non si danno pensiero. Non è importante nemmeno appurare se pensano. Basta il loro comportamento: vivono che più allegramente non si potrebbe e assicurano il futuro ai figli. I migliori uomini potrebbero essere peggiori dei peggiori animali.
Invece dello stile di ventre che, secondo Max Jacob, è tipico del Novecento, l’autore dell’Adalgisa impiega il più classico stile di testa, lessico nobile, impreziosito da suture che fanno svettare i sostantivi di più brillante astrazione. Una metafora ebbra sta celebrando un rito che nessun umorismo riesce a ridicolizzare. Non sono altrettanto religiosi i borghesi nei loro banchetti, ubriacature per dimenticare il futuro. Un modello di vita quello dei necrofori per la cui consacrazione è legittimo resuscitare sintassi e vocaboli arcaici che non moriranno mai.
Carlo passa in modo fulmineo dalla felicità e allegria al tono straordinariameme serio. Ci può scherzare sui suoi scarabei ma sa bene che, quando la festa è finita, la questione si fa seria. «Poi si accoppiano.»
Non si accoppiano solo i necrofori. Si possono unire delle cose molto distanti se hanno qualcosa di profondo in comune. La poesia e le feci, scarafaggi e borghesi, necrofori e membri di una setta religiosa, linguaggi alti e bassi, lingua e dialetto, comicità e tragedia. I necrofori si comportano come gli uomini ma non ridono. La struttura è la stessa, i significati sono differenti. Si può ridere e si può piangere dinanzi al medesímo evento. Ci puoi fare la commedia e puoi farci una tragedia. Il comico che è tragico, il grottesco con cui procede la vicenda di Carlo e Adalgisa.
Sarebbe diventato straordinariamente serio il Carlo, se avesse visto l’Adalgisa buttar via come si fa con gli escrementi tutto il materiale da lui raccolto in anni di ricerche? Avrebbe trovato un animale capace di comportarsi così in ossequio a una legge naturale? Il Carlo se lo poteva aspettare dall’Adalgisa, conoscendone il culto per ciò che è concreto e il fastidio per ciò che è astratto: quanto ora più di prima risulta essere stato il lavoro del marito. Non può essere risparmiata la poesia del povero Carlo.
L’Adalgisa fa una tragedia sulla polverizzazione di minerali e di scarabei ma in effetti fa la commedia: le importa poco del nulla cui lei destina tutto il lavoro del marito quando c’è bisogno di rendere più comoda la casa. L’atto conferma il giudizio espresso a parole: un mincionon, un’anima candida, un essere inutile, un adorabile idiota che non ha capito niente defia vita. Di sicuro avevano un inestimabile valore scientifico tutti quei minerali che riempivano ogni angolo della minuscola casa, ma che fare, si domanda l’Adalgisa, se essi intralciano i movimenti di chi spazza e lava? Bisogna essere realisti, passare all’azione decisiva, sia pure dolorosa, un crepacuore. Non resta che disfarsene, riempire una bella fossa, restituirli a quella natura cui erano stati sottratti dall’amore di scienza del buon uomo: pietre che abbondano dappertutto, dice la portinaia per consolarla.
Ma l’Adalgisa ha già altro cui pensare. Semmai la consola il pensiero di aver liberato la casa dei minerali e degli insetti e, perché no?, forse anche del marito e della sua poesia o ansia di conoscenza e di scienze con cui si mettono da parte non soldi ma merdosi insetti. Le azioni dell’Adalgisa sono non di rado dei lapsus. L’agricoltore amico di Gadda ignorava, quando era felice di tagliare l’asparago, che stava compiendo una simbolica evirazione. Fioriscono le interpretazioni simboliche sugli innocenti gesti della donna.
La partita dell’Adalgisa con Carlo sembra essersi conclusa quando lui muore e ancor più radicalmerite quando la donna è costretta dalle necessità familiari a buttar via tutto ciò che del marito è la più illustre eredità, cioè fossili e insetti rari. La vita scorre priva della poesia con cui l’arricchiva il marito e piena di problemi pratici che occupano la giornata della vedova. Si direbbe un’esistenza normale, se non conoscessimo al riguardo l’opinione di Gadda. Forse non è lui direttamente a giocare il brutto scherzo all’Adalgisa, ma l’io narrante glielo fa vedere cosa comporta la normalità. Lei non lo sa ma si è rotto l’equilibrio che reggeva il forte carattere della donna assennata e realista come è sempre ogni buona madre lombarda.
L’Adalgisa va spesso a portar fiori sulla tomba del marito sepolto nel cimitero di Milano. Non può stare con le mani m mano, non tollera il disordine e lo sporco l’Adalgisa, pratica, fattiva e produttiva signora meneghina cui dà fastidio ogni cosa fuori posto. Immaginate la sua sorpresa, quando, visitando la tomba di famiglia di tre sue amiche, si accorge che in mezzo alle gambe di uno dei Saturni che la adornano, è cresciuta abbondante la muffa: sì, proprio vicino al sesso del marmoreo dio greco. L’Adalgisa non ci sta a pensarci più d’un attimo e passa all’azione. Si mette a grattare la muffa che rinverdisce il sesso del Saturno.
La muffa è solo la muffa per una donna semplice che ne è disturbata mentre guarda la scultura. Non si tratta di un’opera d’arte né l’Adalgisa sembra impegnata in un lavoro di restauro. I guardiani del cimitero sono scandalizzati ma la donna è un essere più candido del marmo. Il suo gesto è deciso dalla ragione, muffa dell’inconscio.
La questione è delicata, ma ogni interprete vorrebbe fare pulizia di vecchie incrostazioni critiche. Una nuova? L’Adalgisa inconsciamente fa teoria della letteratura. Ed è critica non solo verso quel minchione del marito ma anche verso quell’imbecille del suo autore. Dio li fa e poi li accoppia. Uno traffica con tenere feci, l’altro con fragili fossili: che l’Adalgisa ridurrà in polvere come il ragazzo della Versilia schiaccerà con la mano la polpetta di escrementi. C’è da ridere ma ora siamo al cimitero. Dovremmo fare silenzio ma come l’Adalgisa abbiamo folli ragioni per parlare ancora a lungo.
Possiamo approfittare del ridicolo in cui annega la protagonista del disegno milanese per buttarci a salvare o almeno tenere a galla alcune questioni sollevate dalla scena in cui l’Adalgisa gratta la muffa per liberare il sesso del dio Saturno? Il gesto semplice della donna attira le ipotesi più eccitanti e più complesse. L’Adalgisa, sposa che è anche madre, ci guida verso il nucleo da cui è nata l’arte di Carlo Emilio. Se nessun uomo è normale, come pensa il narratore, non dovrebbe essere normale neppure il critico.
Sull’argomento ha fatto la muffa ogni interpretazione psicoanalitica e tuttavia l’Adalgisa sembra dire: dovete insistere, dovete fare chiarezza nella questione sessuale di Gadda. Gratta gratta, non è poi così determinante la distinzione fra maschio e femmina, anche se al riguardo le ipotesi di qualche critico non sono ancora ammuffite. Più che la guerra dei sessi conta quella fra una donna che è madre e un uomo che è figlio. Anche dove essi non ci sono? Togliete un po’ di muffa e scoprirete che nell’opera di Gadda ci sono sempre. Sono di marmo l’autore non riesce a scalzarli, semmai li traveste.
In quanto scrittore quel figlio è troppo coinvolto nel vizio barocco di far muffa con le parole: un modo per nascondere la propria natura piuttosto che una strategia della rivelazione del più intimo se stesso. Sotto sotto ci sarà pure un marmoreo autore neoclassico, ma Gadda non risulterebbe quel dio che è come narratore, se ci si limitasse a guardare la parte solida della sua prosa (i fatti, che sono quasi gli stessi della sua vita; la psicologia su cui sono stati compiuti tutti i giochi di luci e d’ombra; la filosofia, per quanto salda e lucida sia). Il figlio del proprio tempo, cioè del Novecento, non rinuncia a cercare una verità che possa essere perenne quanto un’epigrafe, ma in effetti quello che gli resta in mano sono le muffe. Esse sono tanto più fitte quanto più si allontanano da ciò che sta sotto: la realtà naturale e sociale che è anche cultura, come lo è il marmo trasformato in dio nella complicata prosa di questo disegno milanese.
Se fosse stato un naturalista, come lo vorrebbero lettori quali l’Adalgisa, che ha bisogno di toccar con mano le cose perché esistano, Gadda sarebbe già polvere quanto i fossili del sior Carlo: che invece aveva la fantasia per vedere le cerimonie nuziali dei necrofori. Lievita la prosa, anche se in qualche modo ha pur sempre le sue radici nella roccia dura a morire che è la verità assurta a mito. Sono le muffe della parola a rinverdire temi e vicende che ai loro tempi saranno anche stati divini ma che ora lascerebbero indifferenti i fedeli di Gadda.
L’alto tasso metaforico nasconde davvero un complesso di castrazione? è così pallido il marmo del dio, gela ogni neoclassicismo, non fa più sangue il linguaggio dei veristi e dei neorealisti. Le muffe deformano il dio? Così si arriva alla conoscenza della verità, che non è di marmo e si suda a trovarla: sempre diversa da come è apparsa a Carlo, prima filatelico, poi mineralogista, infine entomologo. È una muffa anche la verità, e ci vuol tempo perché si manifesti. Ci perdi a toglierla: sotto ci trovi divinità che potrebbero essere di cartapesta, se non ti rompessero la testa i detentori dei valori perenni.
Finiscono tutti al cimitero, magari riuscendo anche a farsi innalzare un monumento. Durano di più gli autori che raccontano indimenticabili storie di morte e, perché no?, d’amore o d’odio. Bisogna togliere le incrostazioni che i critici depongono sulle opere? Secondo l’Adalgisa, che è donna oculata, intraprendente e pragmatica, sì, urge fare pulizia, occorre riportarle all’originario splendore. Secondo il Carlo, invece, bisogna lasciar fare alla natura: alla grande arte giova che sopra ci cresca la muffa; gli uccelli defechino pure sopra, malgrado l’azione corrosiva. Per l’Adalgisa gli escrementi sono come la poesia? Ebbene, Carlo è morto facendo poesia con gli escrementi di uno scarafaggio. Gli venga eretto un monumento. Se lo merita anche Gadda, per questo disegno milanese che attira tuttora la muffa della critica. Gadda è il sior Carlo ed è lo scarafaggio.
L’ultima parola all’Adalgisa; e la donna, da empirica qual è, disse: non dimenticate che siamo in un cimitero, hanno fatto la muffa le divinità pagane, muoiono eroicamente solo gli insetti, gli uomini non sanno morire come si deve: cioè come lo scarafaggio che si immola per la causa della sua famiglia. Gli esseri viventi migliori manipolano le feci e fanno poesia.
Non c’è quasi distanza maggiore nel corpo umano di quella che c’è tra l’organo che fa le feci e la testa che fa poesia. La poesia ci sguazza in questa e in altre grandi distanze. Ad esempio fra la trasgressione e l’ordine, fra la malattia e la salute, fra il fatto e l’interpretazione, fra il centro e la periferia, fra la lingua e il dialetto ecc. Solo con la fantasia si possono coprire efficacemente simili distanze. Si voli con le metafore, viaggi fantastici fra due poli remoti. Corti circuiti. Gadda riesce a far luce anche con lo sterco umano. Nulla di ciò che è umano è estraneo a questo pover’uomo che cerca la verità attraverso ogni lingua e dialetto, compresi quelli di odore più ammorbante. Il letame è materiale fertile per la conoscenza. Si concimi l’uomo e potrebbe evitare la fine dello scarafaggio. Vivrà in eterno il narratore che sacrifica la propria vita lottando in salita a favore della collettività, figli e altro.
Il letame va messo alle radici, cioè in basso. In basso arrivi la lingua che voglia sollevarsi a gustare i frutti. Fra le lingue inferiori che concimano la lingua nazionale ci sono i dialetti. Ebbene, il narratore dosi bene i dialetti e si vedranno magnifici frutti. Una buona dose è quella che forma una miscela in cui il dialetto va a sostituire le parole logore di una lingua divenuta sterile per l’abuso. Il dialetto serve a ridare energia alla lingua nazionale, la cui efficacia espressiva è l’inevitabile scopo di ogni scrittore.
Avrà divine rivelazioni chi sa trafficare con il dialetto, muffa che frequenta in superficie le zone basse ma che guida a verità profonde. Il dialetto, non quello realistico, ma la sua espressionistica miscela, nelle mani dell’Adalgisa e nella testa di Gadda vola verso significati altrimenti inafferrabili. Non scacciatelo come uno scarafaggio: se mettete bene a fuoco la visione, vedrete cose mai viste. E inaudite: conta infatti molto il suono. Che non è mai da buttar via in una prosa che valorizza tanto le feci. Tintinnano come monete le parole lombarde in bocca all’Adalgisa.
Si parla spesso di urto di registri linguistici nell’uso di narratori inclini a plurilinguismo. Con Gadda invece non c’è urto: lo scrittore usa un impasto morbido, un’espressione dialettale entri in una frase di lingua nazionale come nel suo letto naturale. Non che non si noti, anzi per un po’ svetta, ma poi si adegua o magari costringe l’interlocutore ad arrendersi alla sua forza, che spesso è preponderante. Non conta solo la valenza semantica della parola. E non si dimentichi che il dialetto ha un suo odore, colore e sapore. Gadda sa mettere a frutto anche le sostanze acide.
Savinio usava parole dialettali o straniere con un sapore così acuto da vincere sui sapori circostanti. E come lui si è usato il lessico dialettale presso tanti neorealisti o neoespressionisti che si compiacevano della sorpresa prodotta da un vocabolo quasi incompatibile. Gadda, invece, cura molto l’innesto: sa che la sorpresa dura poco, e lui ambisce a scrittura che non finisce mai di sorprendere per effetto della miscela. Lui sconfina dal centro e dall’Italia per rientrarvi più ricco e più valoroso. Gadda sa che ogni parola, nazionale o dialettale, uscita dalla testa su spinta di ogni organo umano, può diventare poesia. Era già successo al vocabolo scientifico di umanizzarsi nella Meccanica, ora tocca farlo con il dialetto milanese. Puntano sulle consonanti le parole lombarde per arrivare dall’orecchio al cervello e al cuore. La lingua è ferita dallo sforzo per pronunciarle, ma viene premiata con significati che si sciolgono con la saliva. La prosa di Gadda non è mai acqua. E tuttavia c’è chi ancora non la considera potabile.
Forse che con lo sterco uno scarafaggio non ha compiuto un’impresa epica, narrata con il linguaggio dell’epica? Gadda ci ha messo il sentimento, suscitando commozione intorno a quella bestia che tanto amore ha per i suoi figli. E si commuovono i borghesi milanesi che ascoltano il racconto del sior Carlo, pensando ai propri figli, per i quali mettono in banca i quattrini come lo scarafaggio conserva la palla di sterco e risparmiano perché i figli mangino e studino e vadano al teatro come il giovane ingegnere che accompagna allo spettacolo la zia in altri disegni milanesi dell’Adalgisa. Il corpo umano è uno dalla testa alla lingua, dalla gola allo stomaco, dall’ano ai piedi. Gadda riconduce a unità culturale ogni corpo vivo in natura, compreso lo scarafaggio che banchetta sontuosamente nella palla di sterco. Chi oserebbe dire che puzza questa poesia che ribadisce la perennità della struttura e la molteplicità dei destini individuali?
Non bisogna grattare via nemmeno le note che diventano una foresta nell’Adalgisa. Sono le muffe dei disegni milanesi. Non verranno scomodate audaci metafore. Queste volano e invece le note stanno coi piedi per terra. Sono annotazioni erudite, storia lingua geografia ecc. locali, vita e parole di quartiere o quasi, un proliferare di dettagli che nel rispetto della forza si depositano sotto la narrazione. È eccezionalmente fitto il sottobosco che vegeta rigogliosamente sotto i disegni milanesi. Succede sempre così nella narrativa più matura di Gadda: sotto le muffe barocche c’è sempre un realismo di marmo, la realtà dei rapporti sociali e delle ideologie. Sono di marmo le note ma non ci fai scultura né altra tangibile arte, se le stacchi da ciò che sta sopra. In scrittura espressiva si racconta quanto non può esser detto con stile candido e secco. Non si dimentichi però cosa c’è sotto. È possibile far risalire le note e farle confluire nel testo più alto? Possiamo dire all’Adalgisa di non separare più la muffa dal marmo? Il tempo ha celebrato il loro matrimonio col consenso di un dio. Col tempo Gadda si convincerà della necessità di innestare le note e le digressioni nella narrativa. Lo farà col Pasticciaccio, e sarà un capolavoro, romanzo nato con le note e cresciuto con le digressioni.
La Sapienza, Università di RomaPublished by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
© 2002-2023 by Walter Pedullà & EJGS. Previously published in Carlo Emilio Gadda. Il narratore come delinquente (Milan: Mondadori, 1997), 201-20.
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framed image: detail from Caravaggio, Conversion of St Paul, 1600, Odescalchi Balbi Collection, Rome.
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