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L’Argentina di Gadda
fra biografia e straniamento

Maria Antonietta Grignani

Delle cinque «maniere» che Gadda ha riconosciuto come proprie nel Cahier d’études del 1924 la prima e la quarta, cioè la «logico-razionalistica» e la «meravigliosa 600» (SVP 396) sembrano tradurre nei modelli dello stile due motivi o ossessioni di ascendenza familiare, quasi che una congiura di opposte generazioni passate avesse formulato un suo oroscopo circa il presente composito dell’individuo scrittore. Sul versante razionalistico, del Gadda ingegneresco, uomo d’ordine infastidito dalle mandolinate e dai pressapochismi italici, proiettano dure frecce verticali le origini austroungariche della famiglia della madre Adele Lehr, il cui genitore ungherese aveva servito l’imperatore Francesco Giuseppe; su quello meraviglioso, del Gadda ammiratore di Cervantes e del Caravaggio, degustatore saturnino del barocchissimo intrico o gomitolo in cui si attorce il mondo, sembrano influire le presunte radici spagnole del cognome paterno, che nella fantasia gaddiana verrebbe da Cadice; ascendenze entrambe proiettate nella figura del protagonista Gonzalo della Cognizione del dolore, ora distanziato come puro soggetto nevrotico e negativamente donchisciottesco, ora giustificato quale vittima del contesto sociale: «La ossessione di Gonzalo sembra avere per limite, per punto di deflagrazione, un “delirio interpretativo della realtà” o un sogno gratuito alla don Quijote: nasce e discende invece “dagli altri”, procede dagli altrui errori e dalle altrui, singole o collettive, carenze di contegno sociale. Ha per origine, ed elegge quindi a sua cible polemica, la follia e la cretineria “degli altri”. Ciò non toglie che egli stesso abbia potuto errare: e a’ propri errori non chiede lagrimando clemenza». (1)

All’idea alquanto positivistica dell’ereditarietà è venuta in aiuto la vita, nelle peregrinazioni del neo-ingegnere all’insegna del nomadismo e della massima secondo la quale «per conoscere bisogna indagare, per indagare viaggiare»: da Cagliari alla Germania, da Buenos Aires alla Francia, i percorsi di una smania di evasione e di puntuali ritorni lo vedono diviso tra la fedeltà a una operosa lombarditudine e il suo rifiuto, tra la coazione al ritorno nella Milano del Politecnico e l’impulso al viaggio per diverse genti (Roscioni 1997: 183). La proverbialità di una scrittura votata all’interferenza tra lingue e registri tonali dissonanti postula una vocazione formale autonoma, ma non è superfluo inseguirvi la convivenza di almeno due modelli o stereotipi antropologici in lotta fra loro. Quello del rigore epistemologico e filologico, orientato più sul mondo tedesco, quale emerge dall’architettura sintattica di molte pagine nonché dall’intera Meditazione milanese e quell’altro, di una hispanidad in parte fraintesa e comunque corteggiata (ma forse meglio paventata) più con la fantasia che non con una preoccupazione storicistica.

Il mito attraente e repulsivo che punteggia vari scritti creativi e saggistici prima della Cognizione, è documentato dal lavoro recente di Giuseppe Mazzocchi sulla biblioteca ispanica di Gadda passata al Burcardo: in tutto una quarantina di volumi su più di duemilacinquecento presenze, con poche grammatiche e lessici del castigliano, abborracciato in un anno di soggiorno nell’Argentina, con libri segnati da scarse note e tracce d’uso. Di fronte alla ben nota attività traduttoria da Francisco Quevedo, Salas Barbadillo e Juan Ruiz de Alarcón e alla vistosa presenza di un doppio registro linguistico italo-spagnolo nel libro più famoso, il parziale silenzio della biblioteca parrebbe strano, se non fosse fin troppo eloquente per spiegare, proprio con la sua inopia e approssimazione, la licenza creativa e il libertinaggio simbolico che soggiacciono alla Brianza-Argentina della Cognizione e alla ispanicità come categoria dello spirito del protagonista Don Gonzalo: «A ben guardare […] l’interesse di Gadda per la cultura spagnola fu più affettivo che intellettuale, e caratterizzato da un atteggiamento di attrazione-repulsione curioso, che trova nel Seicento lombardo il suo grumo irrisolto. […] Il gusto caricaturale, la lettura della Spagna come grottesco che Gadda condivide con tutta la cultura italiana del suo tempo, e può portarlo a un fraintendimento radicale della hispanidad, diventa così in lui segno di un malessere profondo che non si può liquidare con un sorriso […]». (2) Con il Seicento manzoniano di Gadda viene alla mente la terza maniera che il gran lombardo si attribuiva nel cahier, quella più intrisa di etica e di pena, l’«umoristico seria manzoniana» dei diari e delle parti più risentite della narrativa, lasciata all’efficacia dei fatti narrati e non ai frastagli verbali del narratore, ma pur sempre segnata da una alonatura ispanica.

Prima di passare al Manzoni gaddiano e all’ibridazione tra italiano e spagnolo del romanzo maggiore, proviamo intanto a ripercorre la biografia, intrecciandola con la scrittura. Gadda ha lavorato in Argentina a Buenos Aires, a Resistencia nel Chaco, con qualche puntata in missione a Montevideo, presso la Compañia General de Fósforos per poco più di un anno, dalla fine del 1922 al febbraio del 1924, quando, laureato in ingegneria elettrotecnica, doveva soccorrere la famiglia, sostenuta solo dalla madre insegnante. Di quest’esperienza residueranno tracce vistose nell’ambientazione geografica e nella lingua piena di ispanismi de La cognizione del dolore, cominciato dopo la morte della madre (4 aprile 1936) e la vendita della villa di campagna di Longone al Segrino in Brianza, dunque a distanza di più di dieci anni dal soggiorno argentino. Il libro è però preceduto da altri tentativi di romanzo e da alcuni racconti, che dimostrano una risonanza immediata della suggestione di quel mondo.

A meno di un mese dal rimpatrio, ancora sotto l’influsso del primo Fascismo espansionista cui aveva aderito e tutto dedito al tema del lavoro italiano all’estero, Gadda progetta una storia da svolgersi tra Italia e Sudamerica, da giocarsi nella contemporaneità e soprattutto entro il tema delle «due patrie» e cioè sull’insufficienza dell’ambiente italiano allo sviluppo delle anime nobili, sull’interazione del protagonista con un ambiente internazionale e soprattutto sul «Materiale suo personale, materiale vissuto o quasi vissuto» e forse in parte già fissato su certi quaderni di Buenos Aires. Il protagonista, Grifonetto Lampugnani, in seguito a vicende solo in parte coincidenti con quelle della biografia di Carlo Emilio, sarebbe stato l’elemento portante di un affresco sulle difficoltà della generazione di italiani reduci dalla grande guerra e sul lavoro italiano all’estero, le due patrie appunto. Gadda pensava probabilmente a un impianto generale ancora ottocentesco, come si legge nella prima nota compositiva del romanzo, rimasto allo stato progettuale:

Topograficamente, da svolgersi in Italia e Sud America, eventualmente e parzialmente Francia. Il caos del romanzo deve essere una emanazione della società italiana del dopoguerra (non immediato) con richiami lirico-drammatici alla guerra (nostra generazione) e forse al preguerra (infanzia, adolescenza). […] Questa emanazione italiana subisce il contatto con altri popoli, altro ambiente. Qui interviene il Sudamerica, la lontananza, terra straniera, nostalgia, mescolanza, difficoltà, disperdimento etnico per insufficienza, nuova vita […]. Nell’eventuale ripresa italiana e ritorno in Italia ci potrò mettere, forse, raccoglimento e sublimazione, ritorno all’interiorità: (se non stonerà con la visione ariosa, argentina, libera, della vita). […] Uno dei miei vecchi concetti (le due patrie) è l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano. (SVP 395-96)

Tuttavia per entro il modello balzacchiano e manzoniano si insinua una inquietudine diversa, perché Gadda immagina il protagonista come attore di un «folle sogno», astratto vagheggiatore lirico e drammatico sconfitto dall’utilitarismo del contesto; donde la postilla che già chiama in causa la figura dell’immaginario dedotta dall’eroe eponimo di Cervantes, oggetto di identificazione repulsiva nella successiva proiezione gaddiana nell’hidalgo Gonzalo: «Maggior ferita all’orgoglio, maggior ira, maggior follìa: quasi Don Chisciottismo, ma non caricaturale, sì reale» (SVP 469-70). In questo precoce cervantismo, aggiornato sui temi novecenteschi dell’adolescenza penosa, della guerra delusiva e del disagio del soggetto, si intravede la controfigura che sarà messa in opera nel libro maggiore a sommuovere qualsiasi visione statica o rassicurante della realtà e dello psichismo.

Non è il caso di addentrarsi nelle ragioni che impediscono nel 1925 e impediranno a Gadda di scrivere un romanzo a tutto tondo, di ambizioni sociali robuste. Basti ricordare con Gianfranco Contini, Gian Carlo Roscioni e Dante Isella che Gadda è temperamento troppo lirico e fortemente autobiografico per accedere al passo lungo del romanziere classico; è scrittore troppo sterniano, umoristico e digressivo per seguire fino in fondo un’architettura narrativa ferrea e a suo modo epica. Ma è gravido di futuro il fatto che quanto resta di questo progetto, come di altri derivati, si verifica interamente in Italia e l’Argentina vi compare in sovrimpressione come un altrove mentale e linguistico vivo nei ricordi di qualche figura che ha viaggiato o abitato il Sudamerica e testimoniato dall’autore.

Così è per il tenente Arrigo Davila in un successivo lacerto di romanzo sull’emigrazione, l’episodio L’allegrezza di Novella seconda. Arrigo, cui curiosamente viene attribuito un cognome dedotto da toponimo spagnolo, ha viaggiato nell’America latina per poi rivenire in Italia «my patria, my sueño» (RR II 1100). Nel suo diario ha annotato tra l’altro l’epigrafe graficamente scorretta «A Cristoforo Colombo / religioso dottato…» (1101) sul piedestallo della statua eretta da alcuni emigranti italiani a Cristoforo Colombo nella piazza di Bernal, vicino a Buenos Aires, mentre una nota precisa che l’epigrafe del monumento, così come riportata, è stata letta personalmente dall’autore: «Storico. La statua esisteva nella piazza di Bernal nel 1923 e l’autore ne lesse con i propri occhi l’epigrafe» (1106). Di rammemorazione in rammemorazione, Davila pensa all’omologo monumento di Buenos Aires e pure a questo passo corrisponde una nota descrittiva precisissima del testimone oculare :

Ricordò, per associazione di idee, quell’altro monumento, grandioso, eretto dagli italiani alla memoria del medesimo Colombo, in Buenos Aires davanti la Casa de Gobierno, prospiciente il Rio. Arrigo aveva annotato:… Il Grande ha polpacci robusti, un cappello a tricorno da cui gli scendono fin sulle spalle abbondanti riccioloni e, nella mano, una carta arrotolata, certo la carta nautica delle coste americane. (Novella, RR II 1102)

A riprova dell’impossibilità di realizzare progetti narrativi organici in cui l’emisfero australe facesse da ambiente effettivo e costante dell’azione, ricorderò che sono invece portati a termine e pubblicati per la prima volta nel 1934 sulla Gazzetta del popolo i due racconti di viaggio Da Buenos Aires a Resistencia e Un cantiere nelle solitudini, testi autobiografici scritti a distanza di anni, ma con precisi riscontri, tematici rispetto alle lettere inviate alla sorella Clara, tematici e anche stilistici rispetto a quelle indirizzate all’amico Ugo Betti dalla nave e poi dall’Argentina. Gli uni e le altre non solo informano sulla vita materiale e culturale del paese ospitante, definito molto gaddianamente in una lettera a Betti «gran baraonda» e in una alla sorella «baraonda argentina», ma denotano l’inevitabile percezione italocentrica con cui l’esule vede e fa vedere a chi è in Italia singoli tagli di paesaggio, prospettive di città e tipi umani, accusati di arretratezza, provincialismo e di incosciente gioia di vivere:

Lo scalo di Resistencia è costituito da alcuni edifici, di cui il più sontuoso può gareggiare col nostro pollaio di Longone. […] In tutto il Chaco (è questa una notizia importante) non esiste il più piccolo sassolino. I ragazzi di qui ignorano che cosa siano i ciottoli. (Lettera alla sorella, 14 febbraio 1923)

In confronto di Firenze tutte le città argentine non sono nulla. La sola B. Aires può rivaleggiare con Milano, non artisticamente, ma per tram, vapori, ecc. (Lettera alla sorella, 22 aprile 1923)

Montevideo è una città morta, per ciò che è commercio e industria. Ma le vie sono sfolgoranti di luce, ampie e lunghissime. L’aria serena, fresca, la gente piena di da fare a far passare il giorno dalle 10 della mattina alle cinque di sera. Nessuno guadagna, ma tutti spendono. (Lettera alla sorella, 24 giugno 1923; Gadda 1987b: 55, 68, 77).

C’è anche un commento sul carattere orgoglioso, ma tutt’altro che pragmaticamente operoso degli spagnoli emigrati, nonché dei napoletani, sentiti dall’ambrosiano Carlo Emilio come lontani cugini poveri di quegli altri:

Il paese è interessante, ma terribilmente «boviso» – «provinciale». – Di economia, politica, intellettualità, ecc. – sono ignoranti come capre, (salvo qualche rarissima eccezione che ha frequentato Roma o Parigi). – Altezzosi e inetti, gli spagnoli e derivati. Lustrascarpe e camerieri i napol.ni e derivati […]. (Lettera a Ugo Betti, 18 marzo 1923; Gadda 1984a: 82)

Pur nell’abbondanza delle note negative, lettere e prose di viaggio provano però l’ammirazione che Gadda aveva per lo spagnolo, lingua nobilissima anche in bocca a semplici operai: «Parlàvano armoniosamente lo spagnolo, o mi parve; lo stupendo idioma di Castiglia risuonava, dalle loro facce lontane e verdi, come chiara, come perenne orazione: la favola illustre della spiritualità centrale, il raggio dorato dell’Astro che non ha tramonto, riversatosi di là dell’Oceano per tutte le interminate province del Re. Una compiuta persuasione si sprigionava da quella loro lingua regale, che mi pareva financo sprecata musica e logica in riva della savana color caffè, presso il margine oscuro della foresta dove il serpe si intrica nel groviglio delle liane, orridamente maculato e pendulo dal ramo del quebracho» (Un cantiere nelle solitudini, SGF I115); «Quella gente parlava ancora la nobile lingua dello hidalgo, la lingua che dovunque ed oltre ogni solitudine della nuova terra, verso la nuova speranza, “se habla a Dios”» (Da Buenos Aires a Resistencia, SGF I 110). (3)

Il pasticcio linguistico che Gadda sperimenterà non nelle due prose di ricordi diretti, ma nel doppio mondo della Cognizione, è stato anche esperienza vissuta nell’incrocio di lingue che popolavano i cantieri argentini. Di un direttore della algodonera nel Chaco si legge per esempio che «usciva in un italiano bizzarro, mezzo platense, mezzo spagnolesco: era anzi un pasticcio di sua propria invenzione, talora felicissima. L’orditura sintattica nostra fioriva continuamente nel lessico di Castiglia, deformato anche quello: “Como el perro me vino incontro – così diceva – entonce ho montado sopra la vereda” (Quando quel cane mi venne incontro, allora salii sul marciapiede)» (Un cantiere, SGF I113).

Un riflesso tardo ma significativo dell’affezione per la lingua spagnola e per l’ibridazione con l’italiano, dopo che Gadda aveva scritto e almeno in parte pubblicato la Cognizione e fatto alcune traduzioni da spagnoli del siglo de oro, si trova nel racconto Domingo del señorito en escasez (1963), riproposta tarda della prosa molto più antica intitolata Cinema (1928). Il rifacimento riorienta la narrazione di una domenica nella città di Pastrufazio, cioè Milano, da parte di un giovanotto in scarsità di quattrini tramite la finzione di una gara tra certo Alì Ojo ovvero Oco de Madrigal (anagramma pseudonimo di Gadda stesso) e l’io narrante, che si sarebbero sfidati a scrivere ciascuno nella lingua dell’altro. Ha vinto lo hidalgo che si è insignorito dell’«italo idioma» più di quanto il narrante si fosse impadronito della «meravigliosa lingua di Cervantes». Pertanto, dopo una premessa in spagnolo, il racconto prosegue in italiano con qualche gemma ispanica o pseudo tale e il corteggio toponomastico fittizio che all’altezza del 1963 era già stato collaudato nella Cognizione. (4)

Alcune precisazioni vanno fatte subito. Se è vero che Gadda non è scrittore del fantastico o totalmente inventivo, è anche vero che la lingua spagnola e il milieu sudamericano della Cognizione calettano a meraviglia sugli intenti di chi coltivava da sempre il gusto di avvicinare realtà all’apparenza disomogenee e contaminare luoghi e tempi, promuovendo sintesi stranianti contro la logica usuale per «épater le bourgeois» (Racconto, SVP 396), nonché sulle intenzioni etiche di chi pensava al romanzo del Manzoni come a un modello ancor valido di impegno critico circa la società (quella doppia Milano ispano-lombarda, barocca e ottocentesca). Pratiche utili alla dissonanza del grottesco e all’allusione simbolica della narrativa, che vengono pure incontro al bisogno di anacronismi stilistici o pastiche: come è noto, a Gadda il perimetro della pura tradizione linguistica toscana andava stretto.

La cognizione del dolore è la storia del sentimento patologico e ambivalente provato da un figlio per la madre, per l’ambiente sociale e soprattutto per la casa di villeggiatura, che della madre è proiezione. Ma è anche diagramma del rapporto di odio-amore che Gadda aveva per la Lombardia, e più specificamente per la Brianza dove era sita la casa di Longone, nonché per la borghesia dei milanesi, che solevano trascorrere le vacanze estive in quella terra culturalmente decaduta e già negli anni Trenta profanata dal cattivo gusto edilizio («Mio annegamento nella palude brianza», si legge nella nota costruttiva n. 3 del Cahier d’études, giusto al ritorno dall’esperienza argentina, SVP 396).

Come ha osservato Giampaolo Dossena, per Carlo Emilio Gadda «la Brianza è quella cosa da scriverci su un libro e andarsene scuotendo la polvere dai calzari», (5) perché è la matrice di ogni periferia dello spirito, di ogni degradata commistione etnica, al punto che i contadini brianzoli sono descritti in sovrimpressione rispetto agli indios delle fabbriche del Chaco, così come si leggeva nelle lettere del 1923 inviate da quei luoghi: in brache e piedi nudi, dediti a rovinose ubriacature di caña, cioè acquavite. Il travestimento sudamericano dei luoghi lombardi da una parte dissimula il peso dell’autobiografismo e traveste la polemica, spennellando di esotismo sia gli accenni alla propria storia familiare che quelli al regime mussoliniano, rischiosi tra il ’38 e il ’41 quando La cognizione fu pubblicata per tratti in rivista; dall’altra vale per sé, come registro non cronachistico delle oscure connessioni tra situazioni e luoghi lontani tra loro, ove il tessuto sociale si anemizza: «Nella Cognizione del dolore l’Italia-Argentina, pur presentandosi a volte, con sapiente civetteria, nelle mentite spoglie di eleganti distrazioni e divagazioni, si ricollega per un verso al motivo delle “due patrie”, già essenziale nel Racconto italiano del novecento, e per l’altro a quello bergsoniano della “memoria organica”, del passato nel presente» (Roscioni 1975: 68).

Dunque il libro ha due anime: una psicologica (psicanalitica, anzi) e un’altra di critica storico-sociale, certo bizzarra e analogica. Quest’ultima è assistita da una lettura personalissima del grande modello manzoniano, che del resto è un archetipo di molte suggestioni ispaniche perfino nella letteratura italiana più recente. Basti citare La chimera (1990) di Sebastiano Vassalli, storia ambientata nella campagna vercellese del Seicento: qui la libertà novecentesca dal modello si manifesta nel trattamento non-provvidenziale e, per dirla schietta, nichilistico della materia storica e nel ricorso frequente a termini dialettali. Ma i discorsi diretti e indiretti dell’immancabile castellano spagnolo sono punteggiati come i Promessi sposi di voci spagnole, magari con traduzione in parentesi, tipo «cabron (caprone)» e «loco (matto)».

Nei Promessi sposi manca una componente dialettale esplicita, per le ben note ragioni della scelta linguistica fiorentina; perciò a maggior ragione spiccano nei capitoli XIII e XXXII singole espressioni e frasi spagnole in bocca ai dominatori (questa presenza eterolinguistica è un’innovazione rispetto al Fermo e Lucia). La funzione del castigliano, tutt’altro che neutra, consiste nel connotare con l’evidenza dei caratteri in corsivo la lingua del potere e della falsità, in modo che il contrappunto commentativo del narratore possa, almeno localmente, risultare superfluo. Il gran cancelliere Antonio Ferrer, da demagogo e cinico gestore della politica, seda la folla milanese in tumulto con discorsi a voce alta in italiano, ma nel frattempo mette al sicuro il vicario, rivolgendosi a lui e al cocchiere Pedro in controcanto, a bassa voce, nella sua lingua madre. Ferrer nel cap. XIII assicura il popolo di esser venuto lì per portare il vicario in prigione, ma intanto in una specie di a parte teatrale contro-deduce per se stesso e per il cocchiere: «“per dargli il giusto gastigo che si merita”: e soggiungeva sottovoce: “si es culpable”.Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: “adelante, Pedro, si puedes”». Più in là tiene a bada la gente con un lungo discorso, «interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno». (6)

La funzione dell’orditura ispanica è dominante nell’ Apologia manzoniana del 1927 ma stesa in abbozzo nel ’24 e quindi immediatamente successiva al ritorno dall’Argentina. L’Apologia è una lettura molto particolare dei Promessi sposi, su cui Gadda proietta la sua personale esperienza sovrapposta a sua volta all’idea stereotipa di una Spagna seicentesca in cui immettono bagliori sinistri e fastosi la pittura del Caravaggio e dello Spagnoletto. Nei Promessi sposi, al di là di certe figure edulcorate come Lucia e di un’immagine indulgente del clero, sarebbero centrali la tragedia di una «società senza norma e senza volere», grottesca contaminazione di apporti storici e la «stirpe mescolata e bizzarra», tensione di due tipologie antropologiche messe a fronte: l’astrazione nei dominatori, privilegiati ma donchisciotteschi e inetti alla dimensione morale o pragmatica del vivere (gli «atti, per essi inconducibili») e i semplici portatori di operosità come la gente lombarda:

Così mentre ai venturosi sognatori della potenza [gli spagnoli] l’ordigno degli atti, per essi inconducibili, si dissolve tra mano: e solo un gran sogno fu loro possibile; ai raccolti ricercatori della laboriosa tranquillità e dell’onesta polenta [il mondo lombardo di Renzo e Lucia] piovono sulla groppa dure legnate. Tra le due espressioni conduttrici, Don Chisciotte, Don Abbondio, si palesa il dolore dell’uomo che concepisce la vita come realtà, sorretta da un fine morale. Spagna, Lombardia! Don Alessandro vi ha poste a fronte, nella sua indagine atroce. (7)

Commenta l’inizio del passo sopra riportato, ove si parla del sogno di potenza non coronato da alcuna etica del sociale, una postilla che può far luce sulla scelta del doppio binario geografico-linguistico per la Brianza della Cognizione e sulla serietà morale di un’operazione diversa dalla pura carnevalizzazione o cosmesi grottesca: «Io ho la sensazione che la gente spagnola sia dotata di scarse attitudini analitiche circa i fenomeni sociali: il Manzoni sembra avere una simile idea» (SGF I 685). Roscioni ha giustamente messo in rapporto questo giudizio duro con le riflessioni suggerite dal periodo argentino, in cui la colonizzazione dell’America del sud apparve a Gadda largamente e colpevolmente difettiva rispetto a quella sostenuta con ben più saldi principi dai Padri Pellegrini nell’America del nord. (8) In effetti nella Meditazione milanese del 1928 il non-essere morale è esemplificato su quanto visto in Sardegna oltre che nel governatorato del Chaco, altra periferia della civiltà, dove a una massa non ancora formata culturalmente si affianca lo strapotere di ogni capofabbrica o direttore di polizia:

Vivendo in Sardegna alcun tempo e nel Governatorato del Chaco, nella repubblica Argentina, alcun altro, ho notato come il fuoco incrociato delle relazioni economiche, culturali, etiche, poliziesche, ecc. dei centri di vita (Parigi, Milano, ecc.) vada in tali lontane province come diradandosi: il tessuto sociale si anemizza e diventa derma o periferia. Il capo della polizia locale è un re o almeno un potente valvassore: una vera vita feudale si crea attorno ad alcuni uomini (capi fabbrica o direttori di polizia, o possidenti, o briganti, ecc.) […]. In questi siti si ha proprio la sensazione Hobbesiana o Spinoziana che la virtù (o il diritto) è la forza, è il potere e che nel buio del nulla non esiste né virtù né non virtù. (Meditazione, SVP 698).

Il doppio binario su cui Manzoni avrebbe condotto la sua condanna sorretta da un fine morale, viene sottolineato con qualche esagerazione anche nel più tardo La battaglia dei topi e delle rane (1959), dove, nel ragionare sull’uso dei dialetti e di elementi eterolinguistici in letteratura, si osserva che «il Manzoni stesso ha subìto il fascino dello spagnolo, dello spagnolo giusto e dello spagnolo sbagliato: e inoltre del latino canonico, secentesco nonché spagnolesco (nelle gride) e del barocco storiografico-oratorio: (nella introduzione al romanzo)» (SGF I 1174). Purtroppo, mentre abbondano ricerche intorno al contesto culturale nostro, ai luoghi e ai tipi lombardi più o meno dissimulati sotto le spoglie latino-americane della Cognizione, mancano approfondimenti sulle effettive suggestioni topografiche, antropologiche e più latamente politiche che il soggiorno in Argentina può aver esercitato su Gadda.

Ad esempio, che peso avrà avuto l’osservazione diretta dei capifabbrica e dei poliziotti della Repubblica argentina, non tanto nella capitale Buenos Aires quanto nelle aree laterali del Chaco, sul disgusto che Gadda aggruma intorno all’invenzione macaronica dei brianzoli «Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche» (Cognizione, RR I 571), un’istituzione locale di vigili notturni di sua invenzione, ricattatoria e perfino sospettabile di crimine, dietro la quale in chiave italiana sta di certo un’allusione all’occhiuta organizzazione del Partito Nazionale Fascista?

Dubbi argentini a parte, è Manzoni non solo a nobilitare il modello della creolizzazione e della duplice condotta linguistica, ma pure a offrire i Promessi sposi come testo di ovvio riferimento mnemonico e dunque tanto più affettuosamente comico nello straniamento brianteo-sudamericano del libro. In questo caso la parodia è, secondo l’etimo, canto a lato, non irriverenza ma contrappunto laterale e omaggio a un classico, che si ritiene ormai oggetto di nostalgia e monumento inarrivabile. In altre parole la falsariga manzoniana è un atto di amore da parte di uno scrittore che sente precluso a se stesso e al Novecento in genere il romanzo storico. Se Milano per pentecoste si fa Pastrufazio (forse da un mentale, lombardo-macaronico pastrügn facere), il Resegone diventa, con traduzione semantica, Serruchón (in lombardo resga = sega, per via del profilo seghettato delle vette, visibile dal cielo di Milano così bello quando è bello; in spagnolo serrucho). Donde l’intero quadro paesaggistico dei Promessi sposi stravolto nel suo doppio in similoro da emisfero australe (tratto VIII):

[…] dall’animo tenuemente rattristato sarebbero potuti venire alle labbra quei detti, dell’immortale preludio de’ Promessi sposi: «Talché non è chi, al primo vederlo (il Serruchón) purché sia di fronte, come per esempio, di su le mura di Pastrufazio che guardano a settentrione, non lo riconosca tosto a un tal contrassegno (cioè l’andamento a sega) dalle altre Sierre di nome più oscuro e di forma più comune…», che, per essere nel Sudamerica, possono aspettarsi da un momento all’altro un tramonto, un bel tramonto secundum Carducci. (9)

Manzoni e Carducci sono qui dei tipi, modello e antimodello di letteratura, l’uno eticamente sostenuto, l’altro retto dalla dismisura retorica. Il vero bersaglio di questo Gadda razionalistico e austriacante è il poeta nazionale Carducci, vate tronfio e presuntuoso sprovvisto delle opportune nozioni scientifiche; anche altrove nella Cognizione oggetto di sberleffo per aver fatto tramontare, anzi «rider calando» il sole dietro il Resegone (Canzone di Legnano: «Il sole / ridea calando dietro il Resegone»), mentre si sa che il sole sorge da est e dunque dalla montagna per chi guarda dalla pianura lombarda. La licenza poetica carducciana diventerebbe verità solo in Sudamerica, insinua Gadda, giacché nell’emisfero australe il sole tramonta ovviamente a sinistra di chi ne guarda il percorso giornaliero. (10) Il mondo geografico alla rovescia funziona da reagente rispetto al vero mondo sovvertito, quello di ogni turgore retorico a coprire la falsità paludata di epica: un suo equivalente è il «grande epico maradagalese» Caçoncellos, una sorta di Camões di provincia. (11)

Tornando al tema della precisione geografica, in realtà a Gadda importa relativamente poco tener fede punto per punto all’inversione australe della sua amata e odiata Brianza, tanto che le sue indicazioni risultano coerenti con l’ambientazione fittizia solo per intervalli, quando gli sta a cuore lo straniamento di prospettiva del mondo alla rovescia. La disposizione della villa è tutta giocata secondo inversioni di lingua (italiano, vernacolo toscano, spagnolo) e punti cardinali nel VII tratto:

Sicché, davanti al lato della casa e nel versante del colle que los toscanos llaman a bacìo, es decir en el declive de la colina hacia el Norte (en España), o hacia el Sur antártico (en Maradagàl), un piccolo spiazzo triangolare, con guijarrillos, dava ad ogni intruso facoltà di pervenire direttamente sul terrazzo, dal cancellino di ferro, dopo un breve cri-cri. (Cognizione, RR I 712)

Per giusta rispondenza speculare, da Pastrufazio si raggiunge Lukones con il ferrocarril o «ferrovie del sud» (RR I 575) mentre invece la Brianza da Milano con le Ferrovie del Nord, ma all’autunno lombardo talora corrisponde il marzo-aprile e talora no: «[…] aprile entrava nella stanza, come il settembre nostro, dalle finestre» (726), si legge verso la fine del tratto VIII perché lì la tragicità dei fatti che incombono va alleggerita; nel tratto IV l’alba sorge all’italiana «dalle bocchette dell’oriente», con un lirismo freddato a doccia scozzese da una nota malandrina, che precisa «In realtà dell’occidente» (654), ma nel III con tutta naturalezza: «Il domani dalle bocchette d’oriente affacciàndosi con dorati cigli avrebbe ritrovato le cose» (629).

Allo stesso modo le allusioni e pretese equivalenze storiche andranno assunte con beneficio d’inventario: la guerra tra i due paesi dai nomi pseudosudamericani, il Maradagàl scena dell’azione (Argentina? Uruguay? sotto cui è travestita l’Italia) e il Parapagàl (Paraguay? sotto cui sembra di vedere la finitima Svizzera per via degli accenni al contrabbando con la Brianza), questa guerra che si ipotizza appena finita quando si svolgono i fatti della Cognizione («tra il 1925 e il 1933», RR I 571), a cosa alluderà, oltre che – ovviamente – alla prima guerra mondiale combattuta e patita da Gadda in prima persona? Alla famosa ma remota del 1865-70 tra il Paraguay da una parte e Uruguay, Brasile, Argentina dall’altra, come pensa Manzotti (Gadda 1987a: 9), oppure a belligeranze più vicine al momento della stesura, come quella degli anni Trenta tra Bolivia e Paraguay per il possesso del Gran Chaco e lo sbocco al mare?

Certo il dio-vulcano Akatapulqui non sarà un allora inesistente caudillo argentino, ma sotto mentite spoglie l’ingombrante e italianissimo Mussolini, oltre che, nel nome allusivo per il lettore italiano, un accattapulci. Ma tutta la stratificazione etnica della Lombardia o Nea Keltiké e del suo arrondimiento brianzolo o Serruchón costituisce una baraonda italo-sudamericana o garbuglio omologo al pastiche linguistico: la regione è rallegrata dal «baccano agilulfo-celtico» (RR I 751) dei popoli prelatini, definiti «calibani gutturaloidi» per via delle vocali turbate ö ed ü; è per giunta luogo di trasferta e di meticciato ad opera di certi indios, meridionali immigrati provenienti dalla Terra Caliente di un sud (d’Italia) pieno di arance, allogati al presente in vaghi territorios e per sovrammercato è stata oggetto di Conquistadores che non erano né celti né indios, ma gringos, cioè a dire austriaci. Di qui le inserzioni dialettali lombarde commentate nei loro valori fonologici più lontani dallo spagnolo: «potevano infilzarsi come polli sulle punte di quelli schidioni del cancello, bucarsi la pancia, intorcolarsi la trippa sulle punte, stessero attenti!, e allora appunto i nomi trippa, büsekka, plurale tripp, büsekk» (751); che convivono con certi effati del colonnello-medico partenopeo Di Pascuale («Che t’aggi “a cumanna”…»). Eredità di passato indio sopravvivevano ai confini dell’Argentina con Cile, Bolivia e Paraguay, oltre alle province c’erano i territorios, c’era stata la colonizzazione spagnola, ma il sud ivi era ed è tutto il contrario di una terra caliente tranne che nel toponimo Terra del Fuoco.

Gadda, si sa, non inventa nulla, ma va alla ricerca dell’accostamento sorprendente, variando le dosi di verosimiglianza del suo universo a doppio e triplo fondo. Un esempio di quanto l’autore faccia confluire su nomi fantasiosi una molteplicità di fatti, nomi storici e allusioni, creando la possibilità di letture a vario livello di impegno semantico può essere il seguente: il vero nome del paese dov’era la sua casa, Longone al Segrino, gli suggerisce la maschera linguistica di Lukones, alla quale avrà dato man forte il dialettale lombardo lucoon (cretino) e lo spagnolo loco; ma anche il nome di Leopoldo Lugones, notissimo scrittore e pubblicista attivo a Buenos Aires quando Gadda vi soggiornava, deve aver avuto qualche responsabilità nel travestimento. Suggestioni come questa sospendono volutamente il fruitore tra abbandono al divertimento puro e continua tensione interpretativa.

Lo spagnolo, d’altronde, già nella tradizione cinque-seicentesca era uno strumento di stilizzazione nella prosa letteraria italiana, e lo è rimasto nella letteratura contemporanea. Il Ruzante nella Moscheta tra le varietà dialettali italiane mette in scena un maccheronico «spagnaruolo», pronunciato dal protagonista per ingannare la sua bella: «Se volís essere las mias morosas, ve daranos de los dinaros. Guàrdano qua si me lo mancano» (atto II, sc. IV). Nel Barone rampante di Calvino, ambientato in una Liguria fantomatica del Settecento, lo spagnolo compare totalmente fuori tempo storico tra varie altre lingue. Come è stato notato, il castigliano per via della somiglianza può essere percepito come storpiatura o variante scherzosa della lingua e ancor più dei dialetti italiani, di cui eredita per contaminazione a orecchio un’espressività tanto più comica quanto più ne è superficiale la conoscenza: l’effetto grottesco di certi personaggi pirandelliani, dalla Pepita del Fu Mattia Pascal alla Madama Pace dei Sei personaggi in cerca d’autore, è incrementato dalla loro parlata mezzo spagnola e mezzo italiana, icona dell’inganno della comunicazione. (12)

Valga, per tutta una serie di coniazioni a semantica stratificata, il nome e cognome dell’eroe eponimo, l’hidalgo Don Gonzalo Pirobutirro «d’Eltino, o Del Tino» (RR I 619), che da un lato allude al manzoniano governatore di Milano Gonzalo Fernández, dall’altra, e soprattutto, è proiezione del povero Gadda perseguitato dalla passione della famiglia e della Brianza intera per i frutteti, famiglia e Brianza dedite alla cura delle lombardissime pere butirro, in un contesto antropologico dove l’ubriachezza era, e forse resta, una delle più vivaci piaghe sociali (il tino, quello in cui si conserva il vino, è nascosto nel cognome altisonante di Gonzalo). In altri casi è la contiguità di valori onomastici dissonanti a alludere alla doppia geografia: «la Pina, detta anche Pinina del Goeupp, ai registri Giuseppina Voldehagos maritata Citterio», «Higueróa Giuseppina di Felipe y Carlotta Morelli» (580). In altri ancora l’emigrazione italiana in Sudamerica fa da copertura a uno sfoggio di erudizione etimologica, che si sfrena soprattutto nelle note, come nel caso di Modetia, sede della camiciaia di don Gonzalo, con la postilla: «Fondata nel 1695 appiè le ultime ondulazioni moreniche del Serruchón, da alcuni immigrati monzesi; che diedero alla città ritrovata il nome latino della perduta» (681) o in quello di Cormanno: «i Langobardòi […], immigrati da Cormanno (Curtis Manni), a battere, anche nel nuovo mondo, il primato della ottusità e della mancanza di fantasia» (695).

Per concludere, abbozzo uno schema tipologico degli inserti spagnoli e degli spagnolismi (compresi i modismi argentini), suggerendo che lo spagnolo o l’ispanismo può essere:

a) una citazione corretta: puchero (RR I 603), (13) ferrocarril (575), correos (574), cabeza (576), pampero (584), pesos papel (586), negocio de ferreterìa (592), ecc. ecc. Per i luoghi argentini basterà citare la Recoleta, cimitero di Buenos Aires, il Riachuelo, quartiere della cittàe il confidenziale, e misterioso per chi non conosca i luoghi, «là, in fondo a Saenz Peña, al 3225» (696).

b) uno spagnolismo con adattamento alle strutture fono-morfologiche ed eventualmente a un contesto lessicale o fraseologico italiano: piropi (RR I 582) sono i piropos, complimenti sussurrati sulla strada a una fanciulla; ¡Mocoso de guerra! (572) ricalca «scemo di guerra», locuzione legata ai postumi psicopatologici della prima guerra mondiale europea; andar al bombo (592) viene dal modismo argentino irse al bombo (andare a gambe all’aria, andare a remengo); otra vez acabo yo de llegar antes (596) è ricalco italiano oppure incrocio maldestro tra acabar por (finire per) e acabar de, detto di azione appena compiuta.

c) uno spagnolismo smottante verso una semantica italiana, una sordina posta a celare/rivelare allusioni storico-politiche, pericolose quando il romanzo veniva pubblicato per tratti in rivista. È il caso del vigile ciclista della zona Pedro Mahagones «che tutti lo conoscevano per Manganones» (RR I 575), secondo la nota di Manzotti «Rietimologizzazione popolare […]: dall’opaco Mahagones (forse sp. maharón, infeliz o desdichado) al parlante Manganones da màngano = persona i cui atti sono contrassegnati da una vistosa e quasi brutale rozzezza (Devoto Oli, s.v.), omaccione (Battaglia, s.v.) ed assieme da màngano = grosso bastone (Battaglia, s.v.), con probabile allusione al manganello della sopraffazione fascista» (Gadda 1987a: 20-21).

d) uno spagnolismo apparente, che svela un luogo e una fonetica lombardi: il Seegrün è il lago del Segrino, per giunta con un fonema inesistente in spagnolo.

e) uno pseudo-spagnolismo consapevole che fa colludere altre lingue: l’arrondimiento del Serruchón viene invero dal francese arrondissement; la chiquoréa non si sa se sia più prossimo all’italiano cicoria o allo spagnolo, pure di stessa radice, achicoria.

f) un travestimento spagnolo che può essere semanticamente interpretato solo con l’aiuto del contesto e delle spiegazioni pseudo-erudite d’autore: hacer una pera (RR I 606)non ha il significato del modismo argentino, ove vale gabbare qualcuno, ma un valore fraseologico possibile solo nell’universo dei frutticoltori della Brianza di Gadda e dell’epopea che nel romanzo aureola le pere. Il modo di dire a sua volta rovescia in positivo il valore della locuzione milanese fa on per (fare cilecca): «Il bibliotecario capo dell’associazione fra i coltivatori di pere (con sede a Pastrufazio) che, manco a dirlo, avea villa e peri in quel di Lukones, nel numero di novembre 1930 del periodico dell’associazione, intitolato La pera, sviluppò anzi una sua curiosa tesi filologica, in onore non si sa bene se dei Pirobutirro o delle pere butirro, e cioè che “hacer una pera”, nell’idioma di Castilla la Vieja, significasse compiere una grande azione». (14)

Altre volte l’ispanizzazione copre l’osceno, come nell’elenco già per se stesso comicamente misto dei nomi o soprannomi di certi tipi del paese: «Anche il peone della Villa Pirobutirro, il Giuseppe, che bazzicava l’osteria del Alegre Corazón, anche Don Giuseppe, il buon parroco, e i vetturali che andavano al Prado, José Inrumador, Fernando el Gordo, Mingo Ruiz, Carlos La Torre, Miguel Chico, il Batta, Carmelo De Peppe; e il nonagenario indio Hutzilopótli detto Pablo o anche Repeppe; e perfino le donne, le ragazze, la Peppa, la Beppa, la Pina, la Carmencita, la murmuradora, la bulladora, la mariposa» (RR I 594). In questo catalogo di invenzioni, tanto più spassose quanto più atte a mescolare le carte tra Italia e mondo ispano-americano nonché tra varie regioni d’Italia (cfr. Carmelo De Peppe), spiccano il Gordo cioè il grasso, il ricordo del dio solare azteco di Miramar del Carducci, i soprannomi delle donne (la pettegola, la sobillatrice, la farfalla) e soprattutto quel José Inrumador, velo spagnoleggiante a semantica oscena del verbo inrumare di catulliana memoria (Gadda 1987a: 69).

g) un travestimento che produce l’osceno: il «falegname Poronga» (RR I 723) è, insomma, un milanesissimo pirla, dato che poronga in Argentina è volgarismo per pene; e gli farà da simmetrico altrettanto oltraggioso l’illustre Luis Coñara (593), citato in un elenco fantasioso di presidenti e uomini di cultura argentini.

Ingrediente linguistico dello straniamento, del grottesco, dell’osceno, del pastiche, lo spagnolo però è anche la lingua dell’amato Cervantes e degli scrittori di cui Gadda traduce alcune opere tra il 1940 e il 1954, gareggiando, o meglio superandoli in amplificazioni e in elazioni verbali. (15) Di qui un incremento di sequenze in spagnolo, come quella del discorso diretto di un garzone di parrucchiere sorpreso a fantasticare sul rito sociale dell’aperitivo, che nella stesura precedente figurava in italiano («Cómo me gustaría, sabe Usted señor Don Gonzalo […] encendido»; RR I 702, Gadda 1987a: 348-49). Di qui pure l’ultima, ma in ordine d’importanza emotiva prima, funzione che la lingua spagnola svolge nella Cognizione: quella di filtro stilistico di un serissimo e sofferto autobiografismo. Questa funzione di copertura del pudore risulta particolarmente chiara quando lo scrittore cerca di prendere le distanze dall’hidalgo Don Gonzalo, ma anche di comprendere le violenze sacrileghe, gli atti infelici e infelicitanti di quel Don Chisciotte o sognatore sventurato (perdido), sua proiezione fin troppo nota sotto falso nome: e lo fa abbandonando l’uso intermittente o stravolto di spagnolismi e assumendo il castigliano in una veste intenzionalmente seria e corretta, che tra l’altro raccomandava fosse sottoposta al revisore argentino in vista dell’edizione in volume:

Pur incombendoci di dare il più severo giudizio circa l’aberrante violenza de aquel perdido, tenemos todavía que abrir el ánimo al residuo de una duda; y este sobrante caritativo es en el concepto y quizás en la inquietud de que un mal tan profundo tuviese en alguna parte su origen, aún recóndito y obscuro: che vi fosse una ragione, o una causa, o più ragioni o più cause, forse, ignote agli umani, irreparabili, perché l’animo dello hidalgo andasse così privo di gioia. (RR I712)

Ancora, come sempre, Gadda oscilla tra due impulsi: da un lato un impietoso rigore teutonico di giudizio avverso al modello psichico del male oscuro, a una hispanidad di maniera che si fa dannosa per eccesso di malinconica astrazione; dall’altro le rapinose fascinazioni delle convolute e meravigliose improbabilità del reale. Saldando così un debito affettivo a un mito, a una tradizione linguistica e a un paese che lo aveva accolto con la visione ariosa e caotica delle sue città, della sua società spensierata, mescolata e contraddittoria. (16)

Università di Siena
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Note

1. Così in L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore (RR I 764), prefazione al romanzo stesa nel 1963. Per le ascendenze della famiglia materna cfr. Roscioni 1997: 10, 33. La leggenda delle origini ispaniche dei Gadda è presente in vari luoghi come ad esempio l’intervista La violenza fiorisce su radici contorte, ora in Gadda 1993b: 183.

2. Giuseppe Mazzocchi, La biblioteca ispanica di Gadda, in corso di stampa; ivi anche un’accurata schedatura del pervasivo cervantismo gaddiano.

3. I due racconti erano usciti nel 1934 sulla Gazzetta del popolo e poi nel ’39 in Le meraviglie d’Italia (Gadda 1939a). Nelle Lettere alla sorella compaiono anche termini spagnoli tradotti diligentemente, come mosquitos, caboche, pueblo, ranchitos, puchero.In quelle a Betti l’intento di stilizzazione è già notevolissimo, tant’è vero che alcuni passi sul lavoro nel cantiere si ripresenteranno non dissimili in uno dei due scritti di viaggio, acute le osservazioni culturali («Mentalmente si vive il riflesso della vita europea: ma un riflesso blando, perché, come cultura, la massa non è ancora formata», 21 aprile 1923 – Gadda 1984a: 90).

4. Uscito in Nuovi racconti italiani, presentati da Antonio Baldini (Milano: Nuova Accademia, 1962-1963), Domingo del señorito en escasez è stato riproposto da Dante Isella in Gadda 1981: 49-74 (ora in RR II 1003-21). Per la gara tra Alì Oco e la voce narrante v. p. 1005. Cinema era uscito su Solaria nel 1928 (Gadda 1928a) e ne La Madonna dei Filosofi nelle Edizioni di Solaria nel 1931. In Eros e Priapo l’eteronimo Alì Oco de Madrigal traccia un proprio profilo mentale ispanofilo: «In genere subisco il fascino della signorilità, della vecchia macerazione culturale della Spagna, della pittura del Caravaggio: dei teologi e delle opere teologiche spagnole e delle persone magre e alte: preferirei essere Don Quijote o Ignacio de Loyola anziché un povero sagrestano» (SGF II 335).

5. Giampaolo Dossena, La Brianza dei poeti – Paesaggi opere personaggi tra Monza e Asso tra Cassano d’Adda e Lecco tra Cusano e Cantù (Firenze: Vallecchi, 1980).

6. Donde la frase: «“Venga usted con migo, e si faccia coraggio: qui fuori c’è la mia carrozza; presto, presto.” Lo prese per la mano, e lo condusse verso la porta, facendogli coraggio tuttavia; ma diceva intanto tra sé: – aqui està el busilis; Dios nos valga!». Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di L. Caretti (Torino: Einaudi, 1971), II, 310, 317 e 316 rispettivamente. Sui rapporti complessi e continui tra il romanzo gaddiano e il capolavoro manzoniano si vedano almeno Alba Andreini 1988: 17-54 e Pecoraro 1996, con relativa bibliografia.

7. Apologia manzoniana (SGF I 684-85). Nella stesura del 1924 Gadda aveva scritto: «Tra le due espressioni conduttrici vi è chi preferisce la seconda, chi piuttosto la prima. Don Chisciotte, Renzo» (Racconto, SVP 597).

8. «Qui Gadda proietta nei Promessi sposi una riflessione suggerita dalla sua esperienza sud-americana: la stessa che lo aveva indotto a interrogarsi sui diversi risultati della “colonizzazione” nel Cile o nel Massachusetts» (Roscioni 1997: 213).

9. Cognizione, RR I 721-22. Notizie, rinvii e ipotesi più analitiche su varie questioni si leggono nell’accurato commento di Emilio Manzotti (Gadda 1987a) cui è debitore di molte interpretazioni anche il presente contributo.

10. La nota d’autore al passo è spietata: «L’astronomo Carducci, nato a Pian Castagnaio, presso Castagneto di Bolgheri frazione del comune di Valdicastagna, in contrasto con Tolomeo, pensò che il sole potesse “rider calando” dietro il Resegone. Egli si riferiva probabilmente ad immagini astronomiche e geofisiche dell’emisfero australe, dove possiamo precisamente riscontrare che il sole tramonta alla sinistra di chi lo guarda» (RR I 722). Gadda non perdona, se ancora nel Primo libro delle favole si legge la seguente favoletta: «Il sole del Sudamerica incontrò il poeta Carducci e si felicitò secolui grandemente: “Sei l’unico che mi abbia capito!”, disse. Questa favoletta ne avverte che dall’emisfero australe, dov’è la Patagonia, l’astronomia carducciana è quel che Dio fece» (SGF II 26).

11. Sul rifiuto dell’epica, impersonata nella Cognizione da Caçoncellos-Camões, cfr. Pecoraro 1996: 68-71 e Mazzocchi, La biblioteca di Gadda.

12. Per una veduta d’insieme sul Novecento si veda l’ottimo lavoro di Giuseppe Mazzocchi, Lo spagnolo come strumento stilistico nella prosa italiana del Novecento, in AA.VV., Scritti in ricordo di Silvano Gerevini, a cura di T. Kemeny e L. Guerra (Firenze: La Nuova Italia, 1994), 154-71; cfr. anche G.L. Beccaria, Spagnolo e Spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento (Torino: Giapichelli, 1968).

13. Solo nell’edizione del tratto nell’Adalgisa compariva la nota a spiegare il piatto nazionale argentino: «Puchero: lesso di carne di bove con verdure: (cavoli, carote, patate, pannocchia di granturco verde). È il piatto nazionale del Maradagàl» (RR I 406). Sia nelle lettere alla sorella che in quelle all’amico Betti si trovano citazione e spiegazione del termine.

14. RR I 606. Cfr. nota alla riga 1564 in Gadda 1987a: 105.

15. La traduzioni gaddiane della Peregrinación sabia di Salas Barbadillo e del “sueño” El mundo por de dentro di Quevedo uscirono nei Narratori spagnoli, a cura di Carlo Bo (Gadda 1941g-h); quella della Verdad sospechosa di Juan Ruiz de Alarcón, fatta per un ciclo radiofonico del 1954, fu pubblicata nel 1957 per le edizioni ERI di Torino, Teatro spagnolo del secolo d’oro, a cura di Angelo Monteverdi (Gadda 1957f). Per il gusto della dilatazione e del lavoro sulla lingua delle versioni è fondamentale Contini 1989: 55-60. Altre notizie sugli esercizi dallo spagnolo si leggono nella nota al testo di Claudio Vela, SVP 1225-53.

16. Non a caso figura e caratteristiche epistolari e opere creative dell’ingegnere in trasferta nel Sudamerica hanno fornito il propellente al romanzo dell’argentino Enrique M. Butti, Indí (1993) che ambienta nei luoghi abitati da Gadda tra il 1922 e il 1924 un’avventura costruita tra citazioni e invenzione giallistica. Nel libro la gara con l’invenzione stilistica dello scrittore italiano s’indovina impari, ma è comunque corroborante la resa competitiva della traduzione di Angelo Morino in un italiano gaddeggiante, che al titolo originale sostituisce Pasticciaccio argentino (1994) in ulteriore omaggio al grande scrittore.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-01-9

© 2000-2024 Maria Antonietta Grignani & EJGS. Issue no. 0, EJGS 0/2000. Previously published in Il confronto letterario, Quaderni del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università di Pavia, 15 (1998 [2000]), no. 29: 57-73.

Artwork © 2000-2024 G. & F. Pedriali. Framed image: after Tullio Pericoli ©, Beneath the Stars, 1985 (courtesy of the artist & Prester Verlag) and a detail from a picture of Gadda in 1924 on his comeback to Italy from Argentina.

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