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Aforismi in favole belle

Donatella Alesi

De te fabula narratur

Nel primo capitolo di Eros e Priapo, Gadda si produce in un articolato ragionamento che rivela il carattere dell’operazione stilistica e conoscitiva che sovrintende all’intera stagione creativa dei libri primi delle favole e delle furie. Definendo la natura del testo come «veridica istoria degli aggregati umani e de’ loro appetiti», sulla quale agisce la pulsione narrante in quanto «mero arbitrio, gnoseologico e pratico» differente dalla filosofia, dalla politica e dalla storiografia (SGF II 240), scrive:

Con il qual dittato miro ancora a «fissare» nella loro luce bugiarda e lividamente funerea, e nella loro risibile bischeraggine, alcuni tripudiati e pomposi o perentorî e giacculati motti, con frasi e paràvole e formule, quali contrassegnarono in nelle bocche de’ beventi (a chella fiasca) e per tutti muri della Italia vituperatissimi, doppo i richiami de’ naranzi e delle purgative pozioni, la fraudolenta verbalità de la cricca. Alcuna esempia, intendo: ché una silloge compiuta dimanderebbe l’ampiezza totalitaria d’un Lèxicon: ed io lo raccomando in idea, codesto Lèxicon, a quale de’ soprastanti vuomini l’abbî più viva ed esumante memoria, e intera e intrepida facultà d’ore e di studî ch’io non mi ritrovi a penna: stanco, e pervenuto al commiato. Ed e’ farebbe buon brodo di filologo, e a un medesimo andare di annotattore de’ costumi: le quali scritture vanno pari. (Eros, SGF II 241)

Il passo conferma, da un lato, la tendenza costruttiva dei suoi libri ultimi con l’appariscente centralità delle prefazioni-premesse e, dall’altro, l’instancabile matrice intertestuale della sua scrittura (Danzi 1991: 26).

A partire da questo scenario, l’articolo intende affrontare la rilettura del Primo libro delle Favole, pubblicato dall’editore vicentino Neri Pozza nel 1952, nel quadro più complessivo dell’attività dello scrittore divisa tra le città di Firenze, Milano e Roma. Opera decisamente eccentrica nel panorama letterario italiano dell’epoca della guerra fredda, il libro non conobbe altro che una fortuna ristretta alla cerchia dei recensori legati da amicizia o conoscenza personale. (1) L’accusa di oscurità, formulata in primo luogo da Giuseppe De Robertis che aveva deprecato l’occultamento delle occasioni da cui le favole avevano avuto origine (De Robertis 1952), ha segnato il destino del libro, che pure concorse allo Strega classificandosi buon ultimo (Cattaneo 1991: 77-79). (2) E tuttavia, non sarà senza importanza la notazione gaddiana a proposito di un’intelligente lettura critica di Giuliano Gramigna (Gramigna 1952), che salutava nel libro delle favole un nuovo Esopo moderno, degno di gareggiare con quello di Pietro Pancrazi, dato alle stampe, una prima volta nel 1930 e poi nel 1940, con edizione accresciuta di testi e di un Poscritto 1940, ricco di riflessioni non inutili anche per il lavoro gaddiano. (3)

Questo articolo analizzerà, dunque, la duplice natura chiusa e aperta del Primo libro delle Favole: chiusa, per la dimensione affabulatrice, compatta e concentrata, delle favole; aperta, per la configurazione di opus continuum narrativo che non soddisfa mai il suo autore, depositario della chiave ermeneutica insieme al cerchio degli amici destinatari o semplici ascoltatori della fase orale di quei testi. Da qui discende la rilettura del significato dell’opera all’interno della rete di relazioni letterarie ed intellettuali che tra Firenze e Milano animarono la vita di Gadda alla fine degli anni Trenta: senza tralasciare il continuum di progetti letterari, storie di denaro e sesso, rappresentato dall’osservatorio delle Giubbe Rosse e la specola dei salotti e delle trattorie (Cattaneo 1991: 138), dove i detti memorabili gaddiani circolavano insieme alle battute di Montale, ai motti salaci di Vittorini e alle facezie puntute di Landolfi, sarà da notare che la prima parte almeno delle favole nasce in stretta contiguità con le conversazioni e gli incontri delle estati a Bocca di Magra (4) e a casa di Lucia Rodocanachi. Furono letteralmente il libro degli amici, il tesoretto, poi divenuto l’omonima rivista che ne accolse una parte cospicua: in altre parole, il contesto discorsivo delle occasioni, di cui, forse non per caso, De Robertis aveva lamentato l’assenza nella sua recensione.

A partire dal dispiegamento di aforismi, sillogismi, favole, parabole, istorie, l’articolo metterà in evidenza la natura intrinsecamente cogente dell’ossatura semantica delle favole alla rete relazionale che ne avvolse l’origine prima e insieme alla definitiva fissazione nella struttura del volume.

Dunque, alla lettera, de te fabula narratur.

Una macchina dei discorsi

La centralità della parola, nella forma breve o più estesa di motti, «paravole», formule, «essempia» segna quindi in un’unica cifra stilistica la stagione, come sempre intermittente ma non lunga in Gadda, dei libri primi di furore e furie fissati nell’ambizioso sistema di un lessico mai completato. Che poi la struttura del trattato pseudo scientifico ricalchi la forma di una suite musicale mentre quella delle favole riprende la tradizione umanistica delle facezie non toglie nulla al processo creativo ogni volta sottoposto alla tensione di nuovi inizi e sfide provenienti dalle occasioni di pubblicazione di cui sono costellate le storie esterne della testualità gaddiana. Ad essa si dovrà affiancare la preveggente e lucida affermazione dello stile come atto «corrispondente» al suo momento conoscitivo messo in chiaro già nei Cahiers d’études del 1924 (SVP 461).

La prosa ragionativa del trattato e quella figurata delle favole hanno una medesima origine, dunque, per desiderio del nostalgico umanista e novecentesco sperimentatore di innervare la cosiddetta realtà di energia retorica dissacrante e icasticamente concentrata sulla caricatura amara, come ben vide il Contini lettore della Cognizione, non estranea alla risata liberatoria e alla diretta acquisizione di conoscenza a rovescio. Possiamo intravedere la fedeltà ad un genere – il trattato politico sub specie machiavelliana ampiamente analizzato da Claudio Vela in un importante lavoro (Vela 1994: 183-84, in particolare) – che sin dal Rinascimento ha assorbito e riusato i lacerti narrativi degli exempla e degli apologhi nel corpo della struttura razionale del trattato politico con finalità di persuasione nei confronti dei lettori. (5) In entrambe le funzioni, riconosciamo, in ultima analisi, il desiderio gaddiano di fissare in parola l’ombra maligna delle intenzioni erronee nascoste nelle azioni umane, quelle – per intenderci – che spingeranno il commissario Ingravallo a filosofare sul «mondo delle cosiddette verità» come contesto di «brutte favole, di brutti sogni», mentre ascolta l’alibi pronunciato con la «voce della verità» da Giuliano Valdarena alla fine del capitolo quarto del Pasticciaccio.

Tuttavia la figura del lexicon, con la sua struttura sistemica fatta di parole in rete, non basta a mio giudizio a restituire la complessità dell’operazione intellettuale del libro delle favole se non prendiamo in considerazione anche l’origine dialogica delle storie prodotte dalle conversazioni con amici e conoscenti e la destinazione prima della versione a stampa, ovvero il continuum delle riviste che le accolsero – Tesoretto, Campo di Marte, Corrente. Quel peculiare carattere di «macchina dei discorsi» sociali che Tolstoj riconobbe al salotto aristocratico sette-ottocentesco in quanto luogo della produzione e della circolazione della parola pubblica in tutte le sue forme – conversazioni, motti di spirito, aforismi – celebrato nell’avvio di Guerra e pace, ben si accorda, come vedremo nel quarto paragrafo, con l’origine delle favole e del loro primo libro. (6)

E ancora: la presenza di motti autoriali in forma breve assume la funzione di continuità e autocommento che sostiene le disiecta membra favolistiche, come la sinopia che, per usare le parole di Giulio De Jorio Frisari a proposito dei frammenti meditativi milanesi (De Jorio Frisari 1996: 17), tiene insieme anche le parti con il sistema libro, omologo ad una macchina di discorsi e proiezione post quem di una rete di relazioni intellettuali. In esso le scintille verbali concentrate, nelle favole con epimitio, che Pietro Pancrazi aveva invece soppresso con sommo piacere del recensore Sergio Solmi, uno degli amici del Tesoretto, (7) e negli apologhi, accendono d’improvvisi bagliori la materia incandescente dei vizi e degli errori umani, nonché gli spunti autobiografici, che la brevità, quintessenza della scrittura aforistica, fissa nel ritmo e nel giro sintattico del periodo con esattezza e ambiguità. E colpisce come un fulmine. (8)

Tra secchezza semantica della brevità aforistica e libera distensione del narrato, il catalogo favolistico del primo libro gaddiano si dispiega secondo una rete di nessi e di rinvii da una favola all’altra, che sembra far propria la lezione filologica delle coblas capfinidas della tradizione lirica provenzale prima e italica poi. L’idea del libro, dunque, prende forza attraverso la catena delle storie che «fanno ciclo» secondo una definizione formulata da Gadda stesso all’editore Neri Pozza sul punto di mandare alle stampe il volume senza più attendere le ultime scritte per raggiungere la cifra di 202 testi (Neri Pozza 2006: 165-69). Lo scrittore non fece in tempo (come hanno ricostruito Vela 1990: 111 e Danzi 1991: 28-29) – ma l’idea progettuale delle due centurie più proemio resta evidente. E con essa la natura sistemica delle scritture brevi, sia nel continuum delle riviste che le ospitarono in prima edizione, che nel contesto del volume, ultimo ma nient’affatto concluso (SGF II 905).

Definire e disgiungere

Di «gioia dell’attingere agli strati autonomi della rappresentazione, all’umore pratico delle genti, atellane o padane che le fossero, delle anime» Gadda scrive nel saggio Fatto personale… o quasi, quando si sofferma sul significato della maccheronea, stimolato dalle osservazioni continiane (SGF I 499). L’esercizio stilistico di scavo e riesumazione della lingua profonda confina e delimita l’uso dei linguaggi settoriali e costituisce la segreta febbre della scrittura gaddiana all’altezza dei due libri primi, e delle favole in particolar modo, perché cerca e fuoriesce dall’agglomerato delle forme usate nella stratigrafia dei secoli per attivare il movimento ondulatorio di ritmi ascendenti e discendenti, di antitesi e parallelismi. Diviene senso vivissimo dei rapporti di causa ed effetto intessuti nella logica stringente di un ragionamento, simile ad una formula matematica che accumula e sprigiona l’energia retorica paratattica. Così leggiamo il ciclo delle favole 119-123:

119 – La madre del corvo, richieduto dai pennacchioni di novelle, non ne so, diceva, non ne so.

120 – Il padre del corvo, richieduto dai pennacchioni di novelle, non ne so, diceva, non ne so.

121 – Il fratello del corvo, richieduto dai pennacchioni di novelle, non ne so, diceva, non ne so.

122 – La sorella del corvo, richieduto dai pennacchioni di novelle, non ne so, diceva, non ne so.

123 – Queste favolette ne adducano: acqua in bocca, e cacio nel becco. E d’attorno a’ corbi e’ fanno buon giulebbe e’ babbei.

Della meccanica definitoria e denigratoria o disgiuntiva è fatto, dunque, il sostrato profondo del contare moralità in forma di figure con la spinta a coniugare il piacere di raccontare, cioè psicologica compensazione, con l’intento pedagogico e satirico: nel segreto di questa via, tra sorriso di situazione e impotente sarcasmo, si cela la visione avvelenata di amarezza dello stato dei tempi, ma sostenuto dall’affermazione di verità sulla falsa coscienza del cosiddetto uomo comune e degli intellettuali impegnati. La misura breve della favola attiva il cortocircuito della citazione della fonte e della morale in clausola finale approdando alla finezza semantica dell’aforisma, che brilla come un gioiello nel fondo del periodo. La libertà di dichiarare esplicitamente la moralità spesso coincide con la citazione dell’auctoritas latina e umanistica: scelta come magazzino infinito di storie, gesti e motti, la fonte sta dentro un continuum temporale, dove il passato viene richiamato per autorizzare e garantire la tensione semantica della voce presente dell’auctor. La brevità legittima lo scorcio narrativo e la necessità della sintesi in nome della ripetizione del fatto o del motto, esaurite le possibilità di ricorrenti certezze religiose, morali, politiche.

Come luogo dell’espressione breve e concisa di una verità, che Francesco Di Capua attribuisce alla massima in uno studio pionieristico, (9) la favola gaddiana appartiene di diritto ad una tradizione secolare che riconosce in essa una funzione oracolare seppur delimitata dall’uso delle «parole della frode», come lo scrittore stesso definisce la maccheronea – uso che secondo Corrado Rosso cioè compensa la coscienza del male invincibile e molteplice con il fascino della semplificazione nella foresta del sapere occidentale plurisecolare e invariabile. (10)

Come luoghi del trionfo della paratassi, le favole gaddiane assolvono al compito primario di evitare l’articolazione complessa del discorso e di favorire la serialità aperta del parallelismo dei membri sintattici: l’energia retorica si concentra, con icastica visività, sulla fine attraverso il paragone e la sua moralità, come una formula matematica che aggiunge e muta. Da questo punto di vista, i testi gaddiani non perdono i caratteri esemplari che essi ebbero nella scrittura rinascimentale e si distinguono – contrariamente alla tendenza novecentesca sondata da Gino Ruozzi (Ruozzi 1992: 196 e sgg.) – per l’esplicita differenziazione tra apologo e favola, spesso considerati sinonimi per effetto della contaminazione fra tradizione classica e medievale. Solamente quando affiorano schegge autobiografiche intrise di lirismo e abbandoni memoriali, la prossimità dei testi lunghi e brevi attenua i salti narrativi, senza tuttavia lenire lo scarto tra passato e presente, come rivela l’accostamento delle favole n. 82 e n. 83:

82 – Il Tiepolo frescava una villa della sua terra, che bàgnasi di Brenta e di Piave: e vi poneva assai diligenza, facendovi anco lenzuoli, con polpacci, glutei, cosce, mallèoli ed allùci. Azzurrissimi erano i cieli, e con un diàfano trasvolare delle nuvole. «Chi guarderà mai a questi piedi?», si disse il Tiepolo al mutar pennello.
Passati gli anni, vi erano sul pavimento degli insanguinati e bendati, con occhi alla volta. La bianca tunica del chirurgo era tinta del colore abominevole.

83 – Il verme solitario si esteriorizza pezzo a pezzo.

Il lemma favola è in ultima analisi potenziato, nella mutevolezza plurisecolare di significati ricostruiti da Emilio Manzotti (Manzotti 1991: 621-34) in una rete semantica: ad esso allude un passo della prosa introduttiva del volume gaddiano con l’intento parodistico di far rivivere «i ventitré, uno dei ventitré, uno alla volta» dei suoi significati per arbitrio inventivo. Più o meno saggio e felice scriverà nel 1949 in Come lavoro (SGF I 437): è parola che estende tutto il suo differenziale semantico secondo il precetto oraziano del movimento spastico, ovvero dissoluzione-rinnovazione del valore. Vedremo che di questo movimento meccanico si nutre la macchina figurale del volume favolistico.

Due, e oltre

Che spazio resta al lettore moderno, dunque, in questo catalogo di lezioni di vita? Personaggi, gesti e motti si offrono nella fermezza di uno stile che intaglia e leva, scarnifica e connette, esaltando l’assoluta irrilevanza delle distanze cronologiche tra passato e presente, di relativismo sempre trionfante nelle prese di posizioni dei «letteratori» «ingaggiati» e «disingaggiati»: quelli, cioè, che cambiano casacca – come Giansiro Ferrata ed Elio Vittorini, nel ricordo di Giulio Cattaneo – cui allude la favola n. 7 in forma di aforisma: «I letteratori ingaggiati dopo anni zinque si disingaggiano». O altrimenti detti «uomini battiferro» invitati a «non dileggiare gli scrittori» della favoletta n. 24.

Non possono certo salvarsi i critici, che spaccano in quattro il capello (n. 153), impetrati nell’emblema del canarino che esercita il becco sugli ossi di seppia (n. 97), perché ogni autore ha il suo (n. 157): «volendo fare della critica», invece, dovrebbero prendere esempio dal porcello che rifiuta un rigoglioso boleto, a cui Mirko Vucetich attribuisce forma sessuale maschile, e va in cerca di tartufi (n. 89). Testimoniano della sfiducia verso la categoria del critico fino alla stagione della variantistica di De Robertis (Danzi 1991: 23-35) e delle parole d’ordine che pretendono di fondare il canone (nn. 4-6, e le note corrispondenti redatte da Vela 1990).

Alcune «storielle» raccontano la fine dell’esemplarità possibile del passato ormai inadeguato a spiegare la stupidità del presente: ecco, allora, l’incomprensione della bontà del profumo del tabacco da fiuto da parte del dio Apollo messo di fronte ad un personaggio di Goldoni (n. 23), o il confronto tra lo scarafaggio e l’arco di Costantino (n. 29). Così si rovescia la favola della natura benigna – parallela a quella del mito della giovinezza sub specie zanelliana – nella storia del ciliegio stagionato, strappato all’aria aperta e ridotto a libreria che sostiene il peso dei volumi dei classici della letteratura e della filosofia (n. 25).

Il divertimento narrativo sotteso alla costruzione e al confronto impossibile tra passato e presente produce l’energia vitale del riso, proponendo esempi di felicità espressiva interamente concentrati sulla propria, singolare, favola. Saltano le gerarchie di valori tra animali e vegetali, tra umani e organismi viventi: il flusso vitale si espande tra le denunce dei vizi e il rovescio delle virtù umane. Esse sono, più della riflessione sulla natura, il punto di stacco del ragionar di cause ed effetti: la brevità innesta un meccanismo matematico di enucleazione degli atti e dei motti, che amplifica la potenza dei dettagli e della parola scritta, ed è omologa alla forma degli apologhi leonardeschi, con il loro senso quasi esatto delle proporzioni relazionali, ricordato da Gadda (Gadda 1993b: 26).

La ricerca degli effetti di scorcio per più intensi significati umoristici e sentenziosi – i cosiddetti colores retorici – è certamente carattere distintivo del genere favolistico di scuola umanistica da Leon Battista Alberti a Leonardo, ma l’affondo sintattico e semantico che impasta dolore e piacere è il segreto del favolista novecentesco, che non manca di definirsi animato di «un’intenzione, un’ossessione, addirittura una fatalità del sarcasmo: sarcasmo autentico, quindi, più forte di me: direi una satira deliberata» (Gadda 1993b: 29). Della relazione di dolore e piacere è fatto il segreto della favola – è una relazione definita «meravigliosa» da Socrate in un passo del Fedone giustamente famoso, come se

fossero attaccati ad un solo capo, pur essendo due. E a me pare […] che se Esopo ci avesse pensato avrebbe composto una favola: che la divinità, volendo riconciliarli dalla loro guerra, poiché non poteva, attaccò insieme le loro teste. Perciò dove è presente uno, immediatamente dopo segue anche l’altro. (11)

Dal cantuccio della finale Nota bibliografica, Gadda ugualmente ammonisce che nel Primo libro «troverà ogniuno rubrica da suo riso, o pianto» (SGF II: 78).

Dolore e piacere: sono due le tensioni che attraversano, dunque, la macchina del discorso favolistico. E tuttavia oltre il due. Perché solo un componimento capace di emulare la spoglia brevità di una formula matematica può offrire all’auctor-agens l’occasione di una compensazione non passiva per riscrivere e concludere in perfezione le storie (Vela 1990: 115).

Più Firenze che Milano

Usati come dimostrazione puntuale della verità, gli exempla si rivelano progressivamente come un repertorio inesauribile di casi, che pretendono di mostrare il carattere pseudoscientifico della narrazione. Essi suggeriscono una misura ritmica che alterna serie di arsi e tesi descritte di volta in volta da aforismi e favole, storie e storielle: il valore delle pause scandisce serie tematiche come la sequenza delle favole 4-7, già ricordate, sulle forme filosofiche e letterarie e sul ruolo dei letteratori; o anche quella 23-26, contenente riferimenti autobiografici relativi alla vocazione letteraria, al dolore esistenziale e al rapporto tra vita e opera e annunciata dalla storia notturna del cavallo massacrato sul Carso e la sua fine insensata (n. 22). Tanto più rilevante perché, dopo il crescendo emotivo, risulterà preminente la favoletta della scimmia con l’elmo di pompiere rimasta al buio – intermezzo ilare della figurazione animale (n. 27) accompagnata dalle illustrazioni di Vucetich, che amplificano il segno comico delle parole.

A partire da questa serie, la figura dell’auctor si autorizza a comparire come agens del pensiero in forza di una parola conveniente alla narrazione di storie né nuove né moderne: fa uso del vocabolario e della sintassi di un moralista pseudotrecentesco, e tuttavia robustamente rinnovati al fuoco delle controversie moderne con l’innesto di un nutrito gruppo di neologismi. Dunque, più Firenze che Milano domina nelle scelte linguistiche dello scrittore che pure nel 1932, scrivendo all’amico milanese Ambrogio Gobbi aveva confessato il terrore e l’amore per «le moralità milanesi, gli aforismi, consigli, suggerimenti, epifonemi e massime che fioriscono le rive del Naviglio, da Santa Maria Podone a Via Pontaccio, e che rendono così care e rugiadose le facciate delle madri, suocere, zie, cugine, cugini, controsuoceri e con-compari della sacra e buseccherita città della saggezza moraleggiante, consigliante, sentenziante, giudicante e stentatamente grammaticante» (Gadda 1983c: 44). (12) Con quell’orecchio esercitato, a ridosso della pubblicazione del volume delle favole lo scrittore si dichiarava «ossesso» dalla prosa toscana (Gadda 1993b: 27), e al tempo stesso non mancava di manifestare tutto il sarcasmo di cui era capace verso il dire fiorentiniggiante «delle dieci cariatidi» avare e spiritose delle Giubbe Rosse e delle riviste Letteratura e Frontespizio (Gadda Conti 1974: 46).

Rispetto alla staticità della folla di personaggi – umani e animali – che dominano le favole con la ripetitività di gesti e motti, la mobilità e l’abilità linguistica e filosofica dell’auctor-agens esalta l’incessante solidificazione dell’esperienza del male incarnato e reso unico dagli elementi di raccordo e ricucitura della trama frammentata delle istorie – «libro di appunti erratici e casellario di frammenti» lo ha definito Alba Andreini (Andreini 1988: 58). Ne risulta, in ultima analisi, rinsaldato il legame con il lettore, frequentemente chiamato a testimoniare della segreta meccanica del raccontare. Da qui scaturisce la morale a rovescio del Gadda favolista che rinnega la clausola aforistica della storia n. 5: se è vero che le forme letterarie sono legate alla relatività storica degli eventi e dei personaggi e cambiano mentre la menzogna non cambia mai, e che «la parola d’ordine rinnova l’opera: e l’opere nuove trovano parole a essere commendate», allora ad esse non può che corrispondere il calco linguistico falso antico. Ovvero, parole non nuove e con una patina di vecchio da spendere in un mondo nuovo solamente per chi vuol credere al mito delle fondazioni e delle origini.

Non Miranda, dunque, ma Prospero è il posizionamento dell’auctor favolista deciso a puntellare la perdita della ragione nel buio del mondo nuovo, quello dell’Italia prima fascista e poi repubblicana. Similmente, brancolano nel buio diversi animali emblematici – dalla scimmia (n. 27) all’asino (n. 33). In questa luce, il passato delle favole di ispirazione pseudo-classica suggerisce il sapore dell’antico della pura evocazione: non solo per finzione pedagogica, ma anche per diletto del raccontare imitandone il gusto. Sparse testimonianze autobiografiche documentano l’attrazione gaddiana per la prosa in volgare fiorentino (ampiamente analizzata da Contini 1989 e Vela 1994): «soluzione irresistibile» la definì lo stesso Gadda (Gadda 1993b: 27). Privilegiando la tradizione toscana della facezia e del motto salace, l’auctor valorizza la genealogia che dal Dante più aspro della prima cantica conduce al Leonardo manipolatore di favole e a sua volta manipolato nella collana delle istorie della seconda centuria (nn. 112, 130-31, 133, 140, 177, 180-81).

A quella enciclopedia di immaginarie storie di animali e piante in cui si innesta un pensiero morale inquinato ma non ancora avvelenato dalla tristezza di fronte allo spettacolo della miseria umana, Gadda guarda come ad un esempio irripetibile, dal quale catturare la formula chimica della segreta relazione tra figure e paesaggi lombardi (Danzi 1991: 26). Infatti, nulla della divertita gaiezza del maestro, capace di indulgere su momenti di lirica sublime, resta nell’ironia corrosiva del favolista novecentesco.

Tormento del narratore e superiore approdo del pensatore, la brevità delle favole racchiude il fascino della concisione della forma completamente autosufficiente e racchiusa in sé stessa, incentrata sulla finezza del detto memorabile. Dalla storia n. 43 in poi, la serie si concentra sugli atteggiamenti caratteristici di personaggi storici e d’invenzione esplicitamente riconducibili ai detti non memorabili di Mussolini e Hitler, sostenuti dalla credulità del popolo secondo la morale n. 56: «il progresso non si ferma perché per chi è di bocca buona tutto è buono: il popolo applaude unanime il cacciatore anche se prende lepre o gatto», e, per questa ragione, conosce buon vantaggio dall’impero, come detta la successiva n. 57. Con punte di acuminata satira priapesca, il ciclo delle favole su Mussolini e Clara Petacci, con un’incursione sulla scarsa prolificità collaborazionista delle donne italiane, dominerà la serie 132-37.

Non deve stupire il rigurgito misogino di alcune di queste favole: segno e senso estremo della ben più evidente invettiva di Eros e Priapo e, in ultima analisi, singolare fedeltà a quel modello di misoginia, travestita da denuncia della montante lussuria femminile, che sono stati gli exempla medievali.

Dopo questa fase, i segmenti narrativi delle favole sembrano farsi più distesi ed elaborati accogliendo, sempre per rispetto dello spirito del rovescio, lunghissimi ragionamenti morali in clausola finale per frenare la contrazione narrativa della fabula – è l’esempio della favola n. 78 dedicata a Borgia, Valentino e il Duca di Gandia, o della n. 98 su Carducci e il leone.

Parola e figure con paesaggi

Dalla foresta dei simboli favolosi, l’autore uscirà spingendo sul tasto del desiderio di quel «puro narrare» che aveva evocato nell’Intervista al microfono raccolta nei Viaggi la morte: paradiso popolato di angeli dove lo scrittore «bizzoso e vendicativo» non avrà più ragione di difendersi con l’uso esasperato di tecnicismi, «modi eruditi», «archi a spiombo» e «piramidi sintattiche», «periodi a cavaturacciolo». E così il condannato ad essere l’«inchiostratore maligno e pettegolo» troverà la serenità nel puro distendere colori e toni della narrazione (SGF I 504).

Le storie in forma di favole belle, sostenute dalla catena del racconto e dei rinvii di serie con soluzione di continuità, sono sempre frammenti di quella eterna e «veridica istoria degli aggregati umani e de’ loro appetiti» che, in virtù della programmatica non unitarietà (o «abominevole coacervo»), tuttavia «danno una imagine totale della vita» attraverso la deviazione che il divertimento delle parole e delle figurazioni impone al ragionamento (Eros, SGF II 232). Instaurando, peraltro, un legame tra sapienza e parola diverso da quello che aveva caratterizzato l’intera civiltà retorica trecentesca: diverso perché l’auctor, moralista in veste di favolista, non sa più trovare la fiducia nel valore delle parole in relazione alle cose, peraltro differente dall’equilibrio ottenuto con l’«affermazione cosciente della combinazione», come si legge in un passo dei Cahiers d’études (SVP 407). Del resto, la «proteiforme capacità di rinnovarsi, di rifar da capo ogni volta, di adeguare al nuovo tema il nuovo segno, il segno rinnovato» di Ensor aveva attratto lo sguardo di Gadda, critico d’arte alla mostra fiorentina del 1950 (Una mostra di Ensor, SGF I 590), svelandoci la segreta convenienza di segno e stile, arte e letteratura, mai piegato ad una interna esaustività. Di flussi e riflussi incessanti, come l’onda del mare, è fatto il periodare pittorico di Ensor, che Gadda descrive con sapienza intimamente partecipe perché già messa all’opera nella struttura ad onda del libro delle favole, prima in rivista e poi in volume: «un va e vieni continuo, un intercambio tematico» e stilistico caratterizza il cerchio delle storie brevi e lunghe, tra arsi e tesi, che dalle incisioni di Mirko Vucetich trapassa alle parole e viceversa. Della stretta rispondenza tra il segno pittorico dell’antico fondatore del movimento futurista giuliano, amico stimato di Neri Pozza, (13) e il segno verbale gaddiano si nutre la struttura del libro delle favole, con la sottile ironia delle piccole figure dall’aggressività sfuggente e trattenuta, confinate nelle cornici dei paesaggi. Nella nota finale Gadda definisce il segno dell’artista e scenografo un’arte d’incantamento, o magia simile alla xilografia e capace di fare immagini che sono altro da quelle fatte con le parole.

La concatenazione produce un lungo, incessante periodare, intervallato da spazi bianchi e curve incise, da sentenze martellanti, morali e massime appuntite di metafore, antitesi e pointes. Celando o esibendo l’amarezza dell’impotenza e del dolore del mondo, le favolette ed istorie e paravole compensano le delusioni della vita con la sete di felicità e di gioia conseguita con «parole di frode».

Dunque, la forza del libro del 1952 è fatta di un tessuto complesso, e non nuovo per Gadda, di relazione tra segni verbali e pittorici, frammenti e cicli narrativi, spazi bianchi e pieni di parole. Firenze e Milano sono ormai alle spalle. A Roma, l’idea di questo libro, fino all’ultimo respiro incompleto e non finito, si offre per compenso del lungo digiuno di pubblicazioni importanti e per compensazione dell’intermittente stagione delle scritture brevi e frammentarie, «riaffermando il valore del soggetto, che solo è l’arbitro e l’autore del suo destino» (Rosso 2001: 209), tende non a colmare un vuoto esistenziale per via filosofica, ma a conseguire un equilibrio (Come lavoro, SGF I 428), attraverso il momentaneo assestamento di un segno stilistico ampio e sottile come le curve dell’arabesco disegnato dal flusso e riflusso delle parole e delle storie, che livellano con motti e gesti i paradossi del vivere. Al centro resta l’autore e lo scandalo non placato del suo mondo morale, e tuttavia livellato, come l’onda fa con la sabbia.

Il segreto, perciò, della riflessione metalinguistica e metaletteraria che sottende alla verità del Primo libro delle Favole non è uno sterile gioco intellettuale, un punto di avvistamento sul reale a partire dalla scrittura, sostenuto dalla chiarezza dello sguardo e del dettato sull’abisso. Le cose stesse giudicate inchiodano al muro lo scrittore, come recita la morale della favola 41:

le parole sacre, vedute le labbra dell’autore, ne rifuggono. Le cose sacre, veduto il cuore dell’autore, vi si fermano.

Temporaneo sarà tuttavia l’approdo, come detta la moraluzza dell’exemplum che chiude la Meditazione breve circa il dire e il fare, che nel 1936 inaugurò non casualmente la rivista di Alessandro Bonsanti, Letteratura:

è bene rimettere alle parole e alle favole un mandato provvisorio e, direi, una limitata procura: non ubriacarsi di suoni: non credere che la noce sia sempre sana: addosso alle noci, usare lo schiaccianoci: incastonar le parole nella necessità del momento, sì con un certo senso del limite loro, e del pudor nostro: e della credibilità de’ fatti: e del «dolore del mondo», sto frescone, e delle contrastanti possibilità. Ogni atto o fatto del mondo è finito, anche se noi lo possiamo desiderare infinito. Solo infinito è Colui che non dobbiamo nominare vanamente. Lo stomaco si sazia d’un fagiano, e l’animo non si sazierà d’una tromba, o d’un poema, o d’un bugione grosso, in teatro? (SGF I 454)

Nell’anno dell’ultima guerra coloniale italiana, le parole esatte e ambigue di un generale in battaglia esprimono, al tempo stesso, il tono polemico e il suo limite, lasciando alla forma interrogativa la responsabilità della messa a distanza del mondo delle apparenze e dei suoi errori.

Università di Padova 

Note

1. Il 25 febbraio 1952, a libro appena uscito, Gadda stesso non mancherà di commentare con Neri Pozza: «Recensioni e forse stroncature non mancheranno, direi. Tutto sta che poi il pubblico si decida a spendere quei tre pacchetti di sigarette o quella mezza-entrata allo stadio che il libro costa!» (Pozza 2006: 177).

2. La corrispondenza con l’editore Pozza documenta la grande attività di promozione svolta dallo scrittore per sostenere il libro presso i giurati del premio romano (Pozza 2006: 182-84).

3. P. Pancrazi, L’Esopo moderno (Firenze: Le Monnier, 1930 – Firenze: Vallecchi, 1940, 3ª ed. accresciuta e illustrata).

4. Silvio Guarnieri si è soffermato, in particolare, sulle estati del 1938 e ’39, tra Bocca di Magra, nella residenza estiva scelta da Giansiro Ferrata, la moglie Ginetta Varisco ed Elio Vittorini, e Forte dei Marmi, dove passava le vacanze la mondanità intellettuale del gruppo delle Giubbe Rosse, Montale in testa (Guarnieri 1989). Vittorini, in una lettera del 23 gennaio 1941, lamentando con Gadda il peso delle scadenze di lavoro, ricorderà con nostalgia i bei giorni trascorsi al mare e la compagnia dello scrittore che in certe sere «era come la mensa di un vescovo antico» (Italia 2003d: 116). Nello stesso anno, Landolfi lo apostrofava come «marchese, maestro e confratello», animato da «benigni Dèmoni» quando si abbandonava alle speculazioni (Italia 2003: 120). Dopo il conflitto mondiale, questo Olimpo delle arti figurative e delle letterature (Gadda 1988b: 36) diventerà una vera e propria repubblica delle lettere tra sole e sabbia descritta dall’architetto e urbanista Giancarlo De Carlo nell’introduzione dell’antologia Nelle città del mondo (Venezia: Marsilio, 1998), 9-14.

5. Con questo taglio Maria Serena Sapegno ha ricostruito la genealogia del Principe e la funzione sperimentale del repertorio narrativo degli exempla ne Il trattato politico e utopico, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le forme del testo. La prosa, III.2 (Torino: Einaudi, 1984), 976-81.

6. Senza tuttavia dimenticare la mole di studi storici fiorita in questi ultimi anni intorno allo studio dei luoghi della sociabilità in antico regime e delle reti di relazioni e discorsi messi in opera dalle donne dell’aristocrazia, vale la pena di segnalare almeno il volume di B. Craveri, La civiltà della conversazione (Milano: Adelphi, 2001).

7. S. Solmi, Della favola, del fantastico (1927) (Milano-Napoli: Ricciardi, 1971), 9.

8. G. Ruozzi, Forme brevi. Pensieri, massime e aforismi nel Novecento italiano (Pisa: Libreria goliardica, 1992), 26 – senza tralasciare il successivo Forme proprie e improprie dell’aforisma nella tradizione letteraria italiana, in La scrittura aforistica, a cura di G. Cantarutti (Bologna: il Mulino, 2001), 161-97 (dove cita le favole gaddiane a proposito del rapporto con le riviste, veri e propri contenitori di aforismi).

9. F. Di Capua, Sentenze e proverbi nella tecnica oratoria e loro influenza sull’arte del periodare (Napoli: Libreria Scientifica Editrice, 1946), 7.

10. C. Rosso, La «maxime». Saggi per una tipologia critica (Bologna: il Mulino, 2001), 47.

11. Platone, Dialoghi filosofici, I (Torino: UTET, 1970), 526. Il passo è famoso anche perché Socrate svela di conoscere a memoria le favole esopiche e di volerle mettere in versi come tributo al suo amore per la musica.

12. Non sarà inutile segnalare l’abilità della sorella maggiore di Gadda, Emilia, negli aforismi e dei loro effetti sulla madre Adele, nella narrazione Villa in Brianza, già valorizzata da Gian Carlo Roscioni (Roscioni 1997: 21) e ora interamente pubblicata per le cure di Emilio Manzotti (Gadda 2001a: 25-26): «affettuosa e aforistica come sempre, con la dolcezza della madonna irrorata dall’ansito di qualche frasetta crudelmente viperina e dalla musica celeste d’una voce ultranasale, ella “villaneggiava” in altra villa dove la sua alta sapienza di gentildonna poteva continuare a levarsi alle 11 di mattina suscitando l’ammirazione de’ suoi congiunti. La Marchesana Adelaide […] non amava eccessivamente Madonna Ipoteca, davanti a’ cui gelidi e viperini aforismi perdeva regolarmente le staffe, in un incendio pazzo del volto e dell’animo, che le toglieva ogni comando di sé».

13. Notizie sono reperibili in Frontiere d’Avanguardia. Gli anni del Futurismo nella Venezia Giulia, catalogo della mostra a cura di M. Masau Dan, B. Passamani e U. Carpi, Gorizia, Provincia di Gorizia, 1985; Il Novecento a Gorizia. Ricerca di una identità. Arti figurative, catalogo della mostra di Gorizia, a cura di A. Delneri (Venezia: Marsilio, 2000); La scultura di Mirko Vucetich, catalogo della mostra dal 13 giugno al 25 luglio 1987, Vicenza, Albanesarte, 1987.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-14-0

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