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La villa Pirobutirro e il Barchetto del Duca
Forme del lutto in Bassani e Gadda
Mario Barenghi
1. I giardini la morte
Difficile immaginare due oggetti letterari così diversi tra loro come La cognizione del dolore e Il giardino dei Finzi-Contini. Dalla strategia stilistica all’impianto narrativo, dalle strutture temporali alla fisionomia dell’io narrante, dal modo di caratterizzare i personaggi al posto nella produzione del rispettivo autore, tutto sembra dividerli. Chi volesse, a fini didascalici, istituire una contrapposizione tra un romanzo ben fatto e un romanzo sperimentale, fra un’opera affabile, accattivante, conforme alla tradizione narrativa otto-novecentesca, e un oggetto letterario ostico, sfuggente, eterogeneo, dalla struttura centrifuga o (come è stato detto) esplosa, non potrebbe inventarsi un più giudizioso accoppiamento. E tuttavia non occorre gran fatica per ravvisare somiglianze e punti di contatto. Tanto non basterà – diciamolo subito – per mettere in discussione l’assunto di partenza: Il giardino dei Finzi-Contini e La cognizione del dolore sono romanzi diversissimi. Non di meno, un confronto ravvicinato potrà suggerire qualche non inutile riflessione.
Due mi paiono le affinità più significative. La prima riguarda l’organizzazione dello spazio. Entrambi i romanzi declinano in maniera complessa le antitesi chiuso / aperto, esterno / interno, accessibile / inaccessibile: che di fatto convergono nell’antinomia (esistenziale, oltre che sociale) inclusione / esclusione, destinata ad essere spazzata via dalla violenza senza volto che nel finale fa irruzione sulla scena, distruggendo un precario equilibrio (del soggetto o del mondo). La seconda è d’ordine tematico. Sia la Cognizione sia i Finzi-Contini hanno una matrice eminentemente funeraria: non tanto perché vi sono personaggi che muoiono o che vengono uccisi, quanto perché il senso della rappresentazione – come la critica ha ben messo in luce – dipende in ultima analisi da quello che Freud, nel suo celebre saggio del 1915, ha designato come «lavoro del lutto» (Trauerarbeit). (1)
In ambedue i casi il motore della narrazione è la reazione alla sofferenza causata da una perdita, o da più perdite, cronologicamente e gerarchicamente distinguibili. Interpretazioni e strategie, s’intende, non potrebbero essere più diverse. Il romanzo di Bassani è un nostalgico epicedio, che nasconde nelle pieghe di una composta commemorazione turbamenti e rimorsi non confessati o ammessi a mezza bocca. Il romanzo di Gadda è l’epifania di uno strazio: lungi dal posare fiori su una bara o una tomba, evoca l’idea di un baratro che inghiotte insieme la liturgia, il superstite, il discorso medesimo. Il resto, come recita l’appendice (L’Editore chiede venia) è appunto quod superest (RR I 759). Un recupero, non una conciliazione o un risarcimento: un relitto, dunque, anzi una reliquia, sanguinante e inconsacrabile. Con una metafora medica potremmo dire, un po’ all’ingrosso, che i Finzi-Contini suturano una piaga, dopo averla accuratamente disinfettata, mentre La cognizione disseziona un organo. In un caso il chirurgo si congeda dopo aver terminato la medicazione e dispensato tutte le raccomandazioni del caso; nell’altro rimane attonito col pezzo in mano – o scappa dalla sala operatoria.
2. Muri, diaframmi, confini
Nel romanzo di Bassani lo spazio appare organizzato per cerchi concentrici. Teatro dell’azione è naturalmente la città di Ferrara; quanto avviene altrove – gli studi del protagonista a Bologna, di Micòl a Venezia e del fratello Alberto a Milano, ovvero le vacanze in Austria dove i giovani Finzi-Contini imparano la ricetta dello Skiwasser – non è oggetto di rappresentazione diretta. Dentro le mura – come suona il titolo dell’edizione ampliata delle Cinque storie ferraresi – un altro muro separa il Barchetto del Duca dal resto della città; all’interno della proprietà sorge la cosiddetta magna domus; e lì, al piano superiore, si trova la stanza di Micòl. Questo, almeno, in prima approssimazione. Tra lo spazio pubblico e quello privato corrono infatti altre frontiere invisibili, legate alla storia della comunità ebraica ferrarese: i confini del ghetto, avvertiti anche dopo l’emancipazione come ideale perimetro d’una casa comune (non a caso il fondatore della dinastia, il vecchio Moisè, non aveva mai voluto abbandonare l’abitazione al n. 24 di via Vignatagliata), o l’asse viario di corso Giudecca, linea di divisione tra la città medievale e l’Addizione Erculea. (2)
Anche all’interno del giardino, o del parco, sito in fondo a corso Ercole I d’Este presso le Mura degli Angeli (cioè nel punto più lontano dal ghetto), gli interni sono più d’uno. Oltre alla camera di Micòl andrà infatti ricordata la rimessa, con la vecchia carrozza in disarmo dove si svolge la scena cruciale del romanzo, (3) in cui il protagonista non coglie le trasparenti sollecitazioni della fanciulla a prendere l’iniziativa. Persa l’occasione, sfasati i tempi, l’intimità sarà preclusa. Stesa sul letto Micòl descriverà al telefono la sua camera, partendo dalla collezione di opalines: in quello stesso letto – dopo la parentesi della frequentazione di un surrogato temporaneo, l’appartamentino privato di Alberto – si consumerà poi la definitiva rottura, sancita da uno slancio sensuale, rovinosamente goffo e intempestivo, del protagonista (O 505-507).
Com’è noto, la vicenda del romanzo è ben lungi dall’esaurirsi nei tre tempi della parabola del giardino (un giardino che dapprima sembra al protagonista quasi impenetrabile, nel quale viene poi invece inaspettatamente invitato e assai benevolmente accolto, e da cui sarà infine, per sua colpa, allontanato). Un gioco di inclusioni ed esclusioni (4) contraddistingue anche la dimensione collettiva. Prima dello spartiacque delle leggi razziali il racconto si sofferma sulla topografia dell’ebraismo ferrarese, con la complessa ripartizione tra scuole, fonte di impalpabili quanto decisivi sentimenti di appartenenza: la sinagoga tedesca al primo piano, quella italiana al secondo, quella levantina o fanese in via della Vittoria, a cui si aggiunge, per iniziativa del professor Ermanno, la restaurata piccola sinagoga spagnola di via Mazzini:
No, no: soltanto noi, nati e tirati su intra muros, per così dire, potevamo sapere, comprendere davvero queste cose: sottilissime, certo, forse praticamente irrilevanti, ma non perciò meno reali. Gli altri, tutti gli altri, senza escludere dal novero nemmeno i compagni di scuola, gli amici d’infanzia e di giochi incomparabilmente più amati (almeno da me), inutile pensare di erudirli in una materia così privata. Povere anime! A questo proposito non erano da considerarsi, tutti, se non degli esseri semplici e rozzi condannati a vita in fondo a irremeabili abissi di ignoranza, ovvero – come diceva perfino mio padre, sogghignando benignamente – dei negri goím. (O 343)
Nel fatale autunno del 1938 il principio della distinzione prende una forma ben più brutale e concreta. Sullo sfondo della mancata storia d’amore con Micòl la narrazione registra il progressivo inverarsi della discriminazione contro i non ariani, l’espulsione del protagonista dal Circolo del Tennis Eleonora d’Este e dalla Biblioteca Civica, l’espulsione del padre dal Partito Nazionale Fascista e dal Circolo dei Commercianti. Poi, la guerra. Benché il racconto si chiuda sui funerali di Alberto, morto di un linfogranuloma nel 1942, sul romanzo grava più cupa che mai l’ombra dei tragici eventi successivi. Buona parte dell’efficacia del romanzo di Bassani riposa sul contrasto fra l’accurata esplicitazione di tenui diaframmi ideali, di non irrilevanti ma tutt’altro che insuperabili confini sociali, di fragili barriere rituali o simboliche (come il liso talèd di nonno Raffaello), e l’atroce silenzio sulle separazioni ultime, che ogni lettore sa feroci, inesorabili, materialissime (i carri piombati, il filo spinato, le camere a gas).
Lo scenario della Cognizione, nel suo esibito travestimento sudamericano, contempla nell’ordine una regione del Maradagàl, la Néa Keltiké, l’arrondimiento del Serruchón, il paese di Lukones, la proprietà dei marchesi Pirobutirro d’Eltino, con il giardino, la villa, la camera dove viene trovato il corpo esanime della madre. Degli avvenimenti che hanno luogo lontano dal teatro similbrianzolo – la morte del fratello, le esplosioni di collera di Gonzalo nella casa di Pastrufazio – abbiamo notizia solo in forma indiretta. Anche qui, s’intende, il discorso potrebbe essere meglio precisato. Il nucleo tragico della topografia gaddiana comprende un’altra camera dolorosa, quella dell’assente protagonista: con il testo di Platone aperto su una pagina che suona, peggio che antifrastica, crudelmente derisoria – «Le leggi della città perfetta devono…» – e, soprattutto, con la fotografia del fratello caduto in guerra, «ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice» (RR I 750).
La villa Pirobutirro è circondata da un esiguo muro, oggetto delle esecrazioni di Gonzalo; e tra l’esterno (la strada) e l’interno (la casa) si situa l’area anfibia e infida del terrazzo. Infine, il luogo dove l’azione si svolge appare delimitato da due assai diverse zone di frontiera. Sul versante settentrionale le alture digradano dolcemente nella pianura, e lo sguardo vi si può posare con una struggente nostalgia di idillio: «la mite e famigliare accomàndita» dei piccoli laghi (nella filigrana boreale, i laghi di Pusiano, Annone e Alserio) evoca un’impossibile, controfattuale serenità. Sul versante occidentale invece – dove l’astronomia concede al sole piena legittimità di tramonto – incombe la sagoma frastagliata e minacciosa del Serruchón: dal quale, all’inizio della Parte seconda, l’uragano si avventerà con ferocia sulla madre e sulla casa, come un capitanaccio dei lanzi (e non occorre insistere sulla doppia valenza manzoniana, e dunque lato sensu paterna, dell’emergenza orografica).
Fatto si è che in entrambi i romanzi la struttura spaziale a cerchi concentrici evoca una serie di isometrie: così alludendo simbolicamente vuoi all’ascesa verso una sommità (nelle illusioni o negli auspici dei personaggi), vuoi alla discesa in fondo a un abisso (nella realtà effettuale). Il giovane ferrarese che capisce troppo tardi di essere innamorato di Micòl dà la scalata alle mura d’un palazzo favoloso, ma – esemplare l’apologo adolescenziale del primo capitolo – s’attarda a nascondere la bicicletta e finisce chiuso fuori. Il maturo hidalgo, sentendosi assediato da una realtà ostile, vorrebbe arroccarsi nella sua «povera casa», riuscendo però solo a sprofondare nelle sue disperate contraddizioni e nella sua infausta solitudine. A dispetto della grande diversità di impostazione, il movimento centripeto appare sia in Bassani sia in Gadda ordinato, progressivo, strategico: e sfocia in un più o meno repentino ma egualmente sofferto allontanamento, cacciata o fuga. Fermo restando che in un caso è contemplato un ritorno, cioè la possibilità della sopravvivenza, del distacco, del ricordo: nell’altro, no.
3. Inventario cimiteriale
Nemmeno al lettore più distratto può sfuggire che nel Giardino dei Finzi-Contini i cimiteri sono particolarmente numerosi. La storia prende avvio, nella cornice postbellica del Prologo, con la gita a Cerveteri e la visita alla necropoli etrusca; il primo capitolo si apre con la descrizione della tomba di famiglia dei Finzi-Contini, nel cimitero ebraico di Ferrara dove giace il piccolo Guido, ricordato da una struggente epigrafe; di passaggio, un richiamo va al contiguo camposanto comunale (il cimitero monumentale della Certosa). Simmetricamente, l’Epilogo narra le esequie di Alberto, con il carro funebre che varca la cancellata in fondo a via Montebello e la fugace immagine della chioma biondo cenere di Micòl, intravista nei finestrini della vecchia Dilambda. Sorvolando su minori occorrenze del tema funebre (come la poesia di Emily Dickinson tradotta da Micòl, I died for Beauty), un posto di rilievo nel corpo della narrazione è riservato al cimitero israelitico del Lido, a Venezia. Ne parla a lungo il professor Ermanno, che in giovinezza, nelle sue indagini sulla storia della comunità ebraica veneziana, l’aveva frequentato a lungo:
«Vero è che non ci andavo quasi mai da solo» – qui sorrise – «e che, in qualche modo, decifrando ad una ad una le lapidi del cimitero, di cui molte risalgono al primo cinquecento, e sono scritte in spagnolo e in portoghese, continuavo all’aperto il mio lavoro d’archivio. Eh, erano pomeriggi deliziosi, quell… Che pace, che serenità… col cancelletto, di fronte alla laguna, che si apriva soltanto per noi. Ci siamo fidanzati proprio là dentro, Olga ed io». (O 400)
Molto più defilata, al confronto, la presenza dei cimiteri nella Cognizione. Del cimitero, anzi, giacché ne viene nominato uno solo: quello di Lukones, dove la madre si è recata a portare fiori sulla tomba proprio il giorno della visita del dottor Higueroa. Benché manchino precisazioni esplicite, è fuori di dubbio che vi sia inumato solo il señor Francisco, e non valga se non come cenotafio per il secondogenito morto in guerra. (5) Fatto sta che nell’animo di Gonzalo si agitano sentimenti contrastanti. L’angosciata preoccupazione per il ritardo della madre; il disappunto perché ha voluto recarsi lei al cimitero, nonostante la calura e le pessime condizioni della strada; il rimorso per averla indirettamente spinta a farlo, con le sue lamentele sullo stato di incuria della tomba; l’insofferenza verso il peone, incapace di metter giù due piante di geranio… In questo febbrile groviglio non trova spazio l’ipotesi che al cimitero – qui con la minuscola; «il Cimitero», invece, nel cap. V (cioè nel pensiero della madre) – potrebbe andare lui stesso. Il problema non si pone nemmeno per i remoti luoghi dove il fratello è stato ucciso e sepolto – i cui nomi, si badi, sono conosciuti ma non riferiti:
Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove l’avevano portato e dimesso, col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. (RR I 673)
Altro non si può aggiungere, se non il fuggevole (ma non irrilevante) accenno ai «vecchi cippi del camposanto fuori le mura, sparito», dove le tracce del cognome d’Eltino sono andate perdute (RR I 619).
La differenza è davvero immensa. Nei Finzi-Contini il tema funebre è annunciato fin dall’inizio, con solennità cerimoniale: nessun dubbio, è di tombe e di defunti che si parlerà. Già segnata da premature scomparse, la famiglia di Micòl è stata inghiottita dallo sterminio; e poiché nessuno di quanti furono deportati in Germania nell’autunno del ’43 ha trovato una sepoltura qualsiasi, il romanzo può senza ambagi proporsi come il succedaneo di un monumento sepolcrale mancante – quasi un complemento del mausoleo familiare, simile a una scenografia dell’Aida o del Nabucco, che ospita le spoglie di Alberto e Guido.
La cognizione del dolore esordisce invece trattando argomenti che con la morte hanno poco o nulla a che spartire. Sulle prime la narrazione assume un corso ostentatamente divagante e rapsodico: la guerra tra Maradagàl e Parapagàl, l’azione di quota 131, lo scandaletto rurale di Lukones, le ingegnose trovate di Pedro Mahagones o Manganones alias Gaetano Palumbo, il commerciante di stoffe e l’osteria del Alegre Corazón, e poi le ville, il vate nazionale Carlos Caçoncellos, i fulmini e i parafulmini… Solo quando s’arriva alla passeggiata del medico e alla turpe ingordigia dell’ultimo discendente maschio dei marchesi Pirobutirro d’Eltino la storia dà l’impressione di aver cominciato a gravitare nella propria orbita semantica. Tuttavia il tema funebre non verrà mai dichiarato o affrontato in maniera aperta (così come non si avrà mai un’ordinata ricostruzione cronologica degli antefatti): prenderà forma in maniera graduale e quasi surrettizia, secondo un tracciato carsico, evasivo, desultorio, fino al dirompente epilogo.
Insomma, se Il giardino dei Finzi-Contini può rientrare senza troppi problemi nel dominio dell’elegia funebre, come il corrispettivo verbale di una decorosa cappella funeraria, il romanzo di Gadda sfugge a ogni classificazione, rimanendo fedele fino all’ultimo alla sua conformazione disarmonica e sghimbescia. Anziché un monumento in memoria, con il debito corredo di epigrafi, loculi e fioriere, La cognizione del dolore sembra proporsi come un edificio assolutamente sui generis: un castello di traslati, digressioni, ipotiposi e allegorie, eretto a presidio di un groppo di reticenze.
L’incontro fra struttura topologica (l’antinomia chiuso / aperto) e struttura tematica (il motivo funebre) è garantito dal fatto che una valenza cimiteriale può essere assunta da qualunque luogo intercluso dove il normale corso dell’esistenza venga sospeso, alterato o interrotto. In particolare, da un giardino: specie se un muro importante (perché troppo difficile o, al contrario, troppo facile da scavalcare) lo divide dal mondo esterno. Nei Finzi-Contini un legame specifico è suggerito dal professor Ermanno, che si offre di rifornire di alberi d’alto fusto il cimitero ebraico («servivano dei pini? Dei cedri del Libano? Degli abeti? Dei salici piangenti? Glielo domandassi, al papà», O 399). Del resto, nella maggior parte dei casi un cimitero è, semplicemente, un giardino, grande o piccolo che sia: il Cimitero Monumentale di Milano come il Père-Lachaise di Parigi, il cimitero ebraico di Pomponesco come il camposanto di Granátula de Calatrava (o tutt’al più un bosco, come il mirabile Skogskyrkogården di Stoccolma). (6) E forse non è un caso che l’idea della isotopia (e dunque dell’interscambiabilità) fra cimitero e giardino abbia trovato la sua più meticolosa formulazione nel postumo capolavoro di Manganelli La palude definitiva, cioè in un autore che con Gadda intrattiene rapporti molteplici e non ancora del tutto esplorati.
A ciò si deve aggiungere l’elemento dinamico già accennato all’inizio: sia nella Cognizione sia nei Finzi-Contini la vicenda mette capo a una violazione cruenta dello spazio chiuso. Si tratti di un omicidio (l’uccisione della madre) o di una strage (il massacro della comunità ebraica), la profanazione dell’intimità rappresenta una violenza così sconvolgente che l’autore la sospinge oltre i margini della rappresentazione romanzesca. La differenza, naturalmente, consiste nell’assetto temporale del discorso. Bassani rievoca una storia d’una ventina d’anni prima, e tale distanza conferisce al racconto un tono elegiaco, sospeso fra rassegnazione e vagheggiamento, fra mesti rimpianti e soavità malinconiche: tutti i decessi sono avvenuti in un passato concluso, da designare, grammaticalmente, con un perfetto inossidabile.
Anche Gadda racconta al passato, ma il suo è un passato convenzionale, intrinsecamente ambiguo: fra il tempo della narrazione e il tempo della storia non si dà alcun percettibile divario, sì che la scena conclusiva – la scoperta del delitto – sembra svolgersi sul margine estremo di un presente assoluto, privo di futuro. La cronologia dei Finzi-Contini, si sa, è del tutto trasparente: quella della Cognizione molto meno. Alla manzoniana precisione con cui viene identificata la passeggiata del dottor Higueroa, con il suo bastoncello di ciliegio, verso la villa Pirobutirro (le undici di mattina del 28 agosto 1933) non fanno riscontro altre indicazioni certe; soprattutto, rimane nell’ombra l’epoca in cui l’anonima voce narrante comincia a raccontare. Ma quand’anche ci fosse una data, di per sé la distanza cronologica non significherebbe molto. Quello che conta è la qualità del tempo che intercorre tra un fatto e l’altro, nonché tra il complesso degli avvenimenti narrati e l’atto della narrazione. Di quali tempi si tratta? E qui siamo al nocciolo della questione. Al Trauerarbeit – o, se si preferisce, all’Arbeit der Melancholie.
4. Il nome negato
La centralità della categoria del lutto nella Cognizione del dolore è una delle più sicure acquisizioni della critica gaddiana. Alla radice del dramma di Gadda/ Gonzalo si situa l’incapacità – o l’impossibilità – di elaborare in maniera adeguata la perdita subita: di qui il persistere di quella condizione di afflitto scoramento, di disinteresse verso le cose, di incapacità di interazione con il prossimo, di avvilimento autopunitivo, che secondo Freud contraddistingue la melanconia. (7) Non riuscendo a ricostituire uno stato di equilibrio, cioè a rimarginare la ferita patita, il soggetto si espone al cronicizzarsi della sofferenza, in modo tale che il depauperamento non riguarda più il mondo (la scomparsa di una persona cara) ma l’Io medesimo. (8) Dal mancato superamento della perdita procedono quelle che al buon dottor Higueroa paiono «crisi di sfiducia nella vita» (RR I 622), ovvero il «male invisibile» di cui discorre l’autore dei Mirabilia Maragdagali: insomma, la depressione ossessiva che affligge l’eroe della Cognizione.
Ma forse qualcosa si può aggiungere attingendo, piuttosto che alla psicologia o alla psicoanalisi, a categorie socio-antropologiche. (9) La reazione alla morte di una persona cara attraversa di regola differenti stadi. Il primo è costituito dal crudo evento della perdita (bereavement), cioè dalla privazione che il soggetto subisce. Il secondo è il dolore (grief), che consiste nella reazione interiore ed esteriore alla perdita, e segna quindi l’avvio di un processo di elaborazione: il soggetto si misura con la mutata realtà delle cose, fa i conti con l’assenza del defunto, prende atto della perdita della parte (più o meno ingente) di sé che se n’è andata con la vita dell’altro. Il terzo è il lutto propriamente inteso (mourning), che investe la dimensione culturale e sociale dell’espressione del dolore, e che ha il suo culmine nel rito funebre. Occorre sottolineare che la prima fase si distingue dalle seguenti in quanto puramente passiva: essa s’identifica con una condizione, non ancora con un’attività. Nella seconda, benché il dolore si esplichi in forma essenzialmente individuale e largamente irriflessa, il soggetto comincia già a seguire dei modelli culturali, cioè a comportarsi come il membro di una comunità. La terza, contraddistinta da espressioni e pratiche collettive, non nega il dolore dell’individuo, bensì gli offre un contesto adeguato perché possa manifestarsi compiutamente, promuovendo così la costruzione e la condivisione di un nuovo equilibrio. Con il rito funebre il gruppo sociale si fa carico di ribadire la propria coesione interna, assegnando ai vivi e ai morti i rispettivi ruoli.
Naturalmente le cose sono molto più complicate di come questo schema potrebbe lasciar pensare. William Watkin ha ad esempio insistito sul «paradosso del lutto» e della sua espressione letteraria elettiva, l’elegia funebre (elegy), il cui compito consiste in buona sostanza nel rendere presente un’assenza radicale e irriducibile, nel dar forma di presenza a un vuoto, in modo da renderlo tollerabile e, in ultima istanza, da colmarlo. (10) Fatto sta che la Cognizione, alla luce di queste pur sommarie indicazioni, manifesta con estrema evidenza un dato: nella vicenda narrata, il lavoro del lutto si è arrestato poco oltre il primo stadio. (Diverso, benché solo in parte, sarà ovviamente il discorso circa il romanzo nel suo insieme, inteso come reazione alla scomparsa di Adele Lehr).
La storia della Cognizione si svolge nell’estate del 1933. Il fratello di Gonzalo, pilota di guerra, è scomparso una decina d’anni prima, visto che il conflitto tra Maradagàl e Parapagàl si è concluso nel 1924. Ma il dolore è ancora vivissimo, come se la disgrazia fosse appena avvenuta. Quel certo «distacco dai vivi» che s’indovina dalla fisionomia e dal contegno del protagonista assume forme più precise quando il dottore, nel tentativo di distrarre un po’ il paziente dai suoi tristi pensieri, accenna a una possibile gita in automobile insieme alla figlia Pina – un diavolo, al volante: «un diavolo con le sottane».
Il discendente maschio di Gonzalo Pirobutirro d’Eltino non batté ciglio: guardava al di là delle cose, dei mobili: un accoramento inspiegabile gli teneva il volto e anzi quasi la persona. Come quelli che hanno un fratello o un figlio: e li veggono fumare, fumare, i vertici dell’Alpe senza ritorni, fioriti di cúmuli, in un rombo lontano. Il tarlo cavatappi non desisteva dal suo progresso; dopo l’accumulo d’ogni intervallo precipitava alla commemorazione di sé. (RR I 623)
Lo stesso fenomeno si ripete nella scena in cui Gonzalo si presenta in casa, con la solita valigia di cartone giallo da quaranta centavos, «come d’un venditore ambulante di fazzoletti»: una sagoma nera nel vano della portafinestra, simile all’ombra d’uno sconosciuto. Dietro di lui, nel tramonto, brillano due stelle lontane: «Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva» (RR I 685).
La madre disse «oh! Gonzalo, come stai? oh! guarda!» e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte. (RR I 685)
Non soltanto la sciagura in cui il fratello di Gonzalo ha perso la vita non diviene mai oggetto di un’ordinata rievocazione da parte del narratore (come invece accade, poniamo, per la morte del piccolo Guido Finzi-Contini). Essa non è oggetto di rievocazione alcuna: è totalmente refrattaria al discorso. Nessuno la richiama intenzionalmente: è lei ad imporsi, sotto forma di subitanei dolenti bagliori, alla coscienza di soggetti che nei suoi confronti rimangono passivi. Siamo ancora, in altre parole, allo stadio del bereavement. Questo termine merita un breve indugio etimologico. Esso deriva dalla stessa radice germanica di rauben, da cui anche l’italiano rubare, che in origine indicava il furto perpetrato con l’uso della forza, distinto dall’atto di sottrarre con astuzia o destrezza (designato dal verbo involare). (11) Poiché il sostantivo ruba è sopravvissuto nella lingua moderna solo nella banale locuzione andare a ruba, e poiché le altre derivazioni dirette non forniscono gran soccorso (rubagione è un arcaismo improbabile, ruberia ha assunto un’accezione di avida scaltrezza furtiva), un’esatta traduzione di bereavement non esiste. Una notevole corrispondenza si registra invece tra il participio bereaved (per antonomasia, the bereaved sono i parenti del defunto) e l’italiano orbato: che nella nostra tradizione poetica designa appunto chi ha patito una deprivazione violenta, una spoliazione. (12)
Morte, dunque, come oltraggio brutale, come scandalo, come saccheggio: alla stessa sfera semantica pertiene, come già abbiamo visto, l’immagine dell’uragano-lanzichenecco, nella scena che simbolicamente costituisce la chiave dell’intero libro. E in questa luce andrà ricordata la connessione tra furto e omicidio, ricorrente in tutta la narrativa gaddiana: oltre alla sensibilità per la proprietà privata, che rinvia a una mentalità borghese in perenne bilico tra oculatezza e avarizia, gioca qui anche un’idea della morte come effetto di una ferocia insieme fatale e proditoria, predatoria e distruttiva: la quale a sua volta rappresenta, in ultima analisi, l’unico plausibile corrispettivo dell’idea manzoniana di Provvidenza sotto il cielo intorbidito della Néa Keltiké.
L’immagine del figlio e fratello è presentissima alla mente della madre e di Gonzalo, tanto da suscitare visioni trasognate e allucinate sovrapposizioni; ma i due si guardano bene dal parlarne tra loro. Un interdetto particolarmente rigoroso colpisce il nome: e non solo il nome proprio della persona, ma anche il suo surrogato fantastico, come dimostra il fatto che il narratore evita con cura di pronunciare le parole Castore e Polluce. Questa circostanza è particolarmente significativa se si considera che l’atto di nominare il defunto è la matrice stessa dell’elegia funebre, e in genere di quella che a volte viene chiamata letteratura della perdita (literature of loss). Watkin cita il lamento di Davide («Absalom, figliuol mio! Absalom, figliuol mio, figliuol mio!», 2 Sam. XIX, 4) e l’elegia di Milton per la morte dell’amico Edward King («For Lycidas is dead, dead ere this prime, | Young Lycidas, and hath not left his peer. | Who would not sing for Lycidas?»: Lycidas, vv. 8-10). (13)
A un orecchio italiano non possono non sovvenire le laudi di Jacopone, a cominciare dalla celeberrima Donna del Paradiso («O figlio, figlio, figlio, | figlio, amoroso giglio»), ma il valore – per dir così – magico della nominazione che restituisce (provvisoriamente!) alla presenza la persona scomparsa è forse meglio esemplificato da un incipit come «Silvia, rimembri ancora | quel tempo della tua vita mortale»: complice la folgorante idea di attribuire l’attività del ricordo alla figura da ricordare. Alla categoria (cara al Pascoli) delle «madri orbate» (14) appartiene senza dubbio anche la signora Olga, segnata in maniera indelebile dalla perdita del primogenito. Di qui la singolarità di un’iscrizione funebre che abbina la compostezza burocratica del genere lapidario (nome, cognome, date di nascita e morte) ad accorate cadenze ossitone, quasi gemiti incisi nella pietra, che il narratore non manca di sottolineare:
Ahi
Guido Finzi-Contini
(1908-1914)
eletto di forma e di spirito
i tuoi genitori si preparavano
a vieppiù amarti
non già a piangerti
Vieppiù. Un sommesso singhiozzo, e basta. Un peso nel cuore da non condividere con nessun’altra persona al mondo. (O 335)
E tuttavia si tratta pur sempre di un epitaffio, cioè di una scritta pubblica. Nella Cognizione troviamo incubi, visioni, delirî, o letterali singhiozzi, ma i marmi del cimitero di Lukones rimangono muti. La cosa appare tanto più notevole a fronte dello scialo onomastico che di norma contraddistingue il dominio della Parvenza. Dalla ciurma degli avventori dell’Alegre Corazón alla temibile insalata delle Marie e Marie proclitiche («cioè le Mary, le May, le Marie Pie, le Anne Marie, le Marise, le Luise Marie, le Marie Terese», RR I 624), l’enumerazione di nomi propri come certificazione di insignificanza è un fondamentale tópos gaddiano. Dal nostro punto di vista l’attestazione più interessante si trova nell’Adalgisa, dove tra i numerosi elenchi di nomi e/o cognomi di Un “concerto” di centoventi professori viene chiamato in causa uno degli aspetti più istituzionali del lutto, il necrologio:
Ventidue banche, quel giorno, otto assicurative incendi o trasporti, trentatre cotonifici e settanta società elettriche e para-elettriche fra grosse e piccine, fra madri e figlie, riempiranno del loro unìsono nerolistato colonne e colonne del Corriere della Sera. Il Grand’Ufficial Dottor Ingegner Maurizio Rinaldoni Senatore del Regno, come fosse un’ameba, si sdoppierà e moltiplicherà in una serie infinita di Maurizio Rinaldoni, Maurizio Rinaldoni, Maurizio Rinaldoni, Maurizio Rinaldoni, Maurizio Rinaldoni, da rimanerci inebetito il lattaio.
Non mancheranno al pio officio né la vedova inconsolabile ovvero affranta dal dolore (a scelta), né, costernati, i figli e le figlie: Giovanna, col marito dottor Carlo Baffi, Teresa, col marito Umberto Barbisoni, e Paolina vedova Scotti; né il fratello Grand’Ufficiale Anselmo generale di brigata a riposo, né gli zii Lattuada e gli affezionati cugini Perego, Recalcati, Consonni, e Dumenìl, i nepoti, gli abbiàtici e i parenti tutti. (15)
La sferza gaddiana colpisce insieme l’esibizionistica ipertrofia dell’io e la vacua esteriorità dei legami familiari e sociali: basta la semplice accumulazione di nomi a rendere inverosimile ogni autenticità di sentimento. Ma l’antitesi qui virtualmente sottesa non è fra pluralità e singolarità. Alla vana iterazione o proliferazione di nomi non si oppone la validità di un nome singolo, bensì il silenzio: cioè la negazione dell’atto di nominare.
Il punto, naturalmente, è che la morte di quello che non ci sentiamo in alcun modo autorizzati a chiamare Enrico ha acuito la divisione tra il primogenito e la madre, anziché annullarla o attenuarla. In un certo senso, l’ha resa irreparabile: l’ha suggellata, fissando per sempre, come un marchio d’infamia (the mark of Cain, secondo Federica Pedriali), (16) il divario tra il figlio prediletto e il figlio difettivo. Lungi dall’innescare un processo attivo di compensazione, riparazione e risarcimento, il lutto si è bloccato così allo shock iniziale, cristallizzando uno stato di separatezza fra i superstiti che a sua volta preclude ogni prospettiva di pacificato allontanamento dell’immagine del defunto: destinata, di qui in poi, a incombere come un rimorso su quod superest della vita dei familiari.
La ragione per cui dalla Cognizione latitano rappresentazioni dirette di tombe e cimiteri coincide con il divieto di pronunciare il nome del defunto. Una tomba, del resto, altro non è se non l’accoppiamento di un nome con un luogo: l’istituzione di un legame fra una concreta porzione di spazio fisico e il nome proprio d’una persona (ovvero di un segno che lo comprende o lo surroga. (17) Ora, Gonzalo ha seppellito dentro di sé il fratello scomparso, sottraendolo alla dimensione intersoggettiva del ricordo condivisibile, della commemorazione, del lutto propriamente inteso. La profonda ambivalenza emotiva dell’operazione si manifesta con particolare evidenza nel cortocircuito fra distanza e prossimità. Se, come è stato giustamente notato, lontano è l’aggettivo-chiave che accompagna il fantasma del fratello (Pedriali 1997: 148), la pretesa di custodire nella propria interiorità una lontananza irrimediabile equivale a coltivare puntigliosamente una forma di auto-estraniazione. Tale è il prezzo per non condividere il dolore:
Dopo recuperate vittorie, gli stampatori della gloria funebre non gli eran bastate le loro xilografie mortuarie fino ai carmi d’un reduce senza endecasillabi: lampade funerarie e motti e fiammelle e perennis ardeo: tutto esaurito per gli xilografi, sulle copertine dei cadaverosi poemi. I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il nome, la disperata memoria. (RR I 682)
Quanto mai vistosa è qui la contrapposizione fra l’ipocrita liturgia celebrativa – tutto l’apparato di commemorazioni, versi, addobbi sepolcrali, degradato a chiassoso molesto ciarpame – e l’autenticità silente di un dolore che si vuole geloso ed esclusivo. Ma forse il dato più significativo è il cambio di passo della scrittura, da un fraseggiato anacolutico (gli stampatori… non gli eran bastate) e ridondante (funebre, mortuarie, funerarie) a un incedere spezzato, che fra accorate iterazioni (mai, mai) e scarti esclamativi (il fratello, sorriso lontano!) arriva a formulare l’idea principale in una frase dipendente pressoché irrelata (chiusone in sé il nome, la disperata memoria). La dislocazione diventa slogatura: il dolore si fa tanto più spasmodico, quanto meno accessibile al discorso.
Com’è noto, il prevalere dell’impronunciabilità contrassegnava anche l’annuncio della morte di Enrico nel Giornale di guerra e di prigionia, in una pagina che contiene la più memorabile reticenza della storia della letteratura italiana dopo la proverbiale clausola manzoniana («La sventurata rispose»):
Poi seguo la mamma, che s’è rimessa a letto, l’abbraccio nuovamente. «Ed Enrico dov’è, come sta Enrico?» Mi risponde piangendo la mamma: «Enrico è andato di qua, di là…» La tragica orribile vita. Non voglio più scrivere; ricordo troppo. (SGF II 849-50)
Nessuna forma di Trauerarbeit: nessuna possibilità di consolazione o di conforto. Una volta portato a termine il lavoro del lutto, scriveva Freud nel 1915, «l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito», frei und ungehemmt (Freud 1989: 104). A Gonzalo è accaduto esattamente il contrario. L’imperio del divieto non consentirà dispense:
Avrebbe voluto inginocchiarsi e dire: «perdonami, perdonami! Mamma, sono io!». Disse: «Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e loro…». Questa frase non aveva senso, ma la pronunziò realmente (così certe volte il battello, accostando, sorpassa il pontile). (RR I 737)
Sopraffatto dalla rabbia, il dolore non riesce nemmeno a ormeggiarsi a una congiunzione avversativa («disse invece», o simili). A riuscirne esaltata è l’inesorabile irreversibilità dell’evento. La partenza di Gonzalo equivale a una deriva senza ritorno, circonfusa da un’aura di affranta, stranita stupefazione, che va senza dubbio annoverata tra i vertici del tragico novecentesco.
5. I dolori incogniti
Il secondo evento funesto narrato dal romanzo riprende i connotati del primo, esasperandoli. La perdita ha bensì luogo, ma i suoi effetti esulano ora totalmente dall’orbita dell’effabilità. Del dolore (grief) inteso come risposta attiva, individuale sì, ma suscettibile di espressione e perciò proiettata su una dimensione interpersonale (se non comunitaria), non si dà rappresentazione possibile. E infatti né il gesto omicida – l’aggressione notturna contro la madre – né la conseguenza – le devastanti ripercussioni sull’animo del protagonista – vengono messe in scena. Anzi: nemmeno l’evento della morte in sé risulta suscettibile di rappresentazione. Il racconto s’arresta sulla scoperta del crimine e sull’immagine del corpo violato: l’orribile coagulo di sangue fra i capelli grigi, il volto tumefatto, gli occhi dischiusi, la bocca semiaperta, la pelle lacerata. (18) Anche Gonzalo è ora lontano: la sua reazione rimane incognita. Al suo posto, l’anonimo narratore dà voce a uno sbigottimento così atroce da precludere ogni personificazione.
Perché tutto ciò accada, è cosa nota. A quanto è dato capire, sia quando muore il fratello, sia quando muore la madre, il groviglio emotivo di Gonzalo è così intricato che il racconto non riesce a dipanarlo. In entrambe le circostanze possiamo distinguere le emozioni socialmente ammissibili – e perciò dicibili – dai sentimenti censurati. Comune, e ovvia, è la sofferenza per la scomparsa di un congiunto. Nel caso del fratello si potrebbe aggiungere il rimorso di non averlo saputo proteggere, mettendolo in guardia dai pericoli; nel caso della madre, la coscienza di non aver saputo provvedere alla sua sicurezza, il rimorso di averla afflitta con inconsulte esplosioni di collera, il rimpianto di averla brutalmente minacciata. Poi c’è il non dicibile. Il senso di colpa per avere desiderato davvero la morte dell’uno e dell’altra, innanzi tutto: forse non scevro del rimorso di non essere capace di soffrire abbastanza per la loro perdita reale: di certo alimentato dalla persuasione che desiderare il verificarsi di un evento comporta responsabilità eguali, se non maggiori, dell’averlo effettualmente provocato. Inoltre, sulla perdita del fratello pesano il rancore suscitato dalla sofferenza inconsolabile della madre (nella quale si perpetua l’antica predilezione per il secondogenito) e la frustrazione causata dall’impossibilità di odiare colui al quale il destino ha già inflitto la punizione capitale (e quindi di coltivare possibili rivalse). Nel caso della madre – e questo è certificato dagli scartafacci gaddiani – entra in gioco anche l’angoscia che prima di morire ella possa avere scambiato l’aggressore per il figlio, o possa avergli comunque attribuito l’intenzione omicida: e dunque l’impossibilità di scagionarsi, peraltro inficiata dal cruccio di sapere ogni possibile autogiustificazione mai del tutto sincera, mai del tutto adeguata.
Insomma, l’ultimo discendente maschio dei marchesi Pirobutirro d’Eltino (ma il discorso vale ovviamente anche per l’ingegner Carlo Emilio Gadda) non trova alcun appiglio a cui aggrapparsi. La morte dei familiari si traduce per lui in un’esperienza di pura perdita, alla quale non riesce a far fronte. Il dolore viene vissuto pertanto in una dimensione solipsistica, incompatibile con qualunque prospettiva di compianto e di conforto: e dunque inaccessibile – anche questo va detto – ad un’autentica conoscenza.
Che La cognizione del dolore sia un romanzo incompiuto è insieme una constatazione ovvia e una sottile insidia interpretativa. Certo, la vicenda rimane senza scioglimento, malgrado le intenzioni consapevoli dell’autore (o dell’Autore), che fino a un certo punto si sforza di dare alla trama una conclusione sensata, ponderando varie ipotesi alternative. D’altro canto, dal punto di vista artistico l’opera appare assolutamente coerente e perfetta così com’è, ossia con il manifestarsi di un’intenzione omicida cui non fa riscontro, sul piano della realtà empirica, alcun colpevole. Poiché nessun personaggio avrebbe avuto un movente adeguato per uccidere, la rinuncia di Gadda a imbastire una soluzione che sarebbe risultata comunque debole o posticcia esalta il nucleo oscuro della vicenda, il vertiginoso avvitamento solipsistico nel circolo odio-amore-rancore-rimorso, la febbrile oscillazione fra desiderio di vendetta e senso di colpa, la tentazione del matricidio come ribaltamento verso l’esterno dell’impulso autodistruttivo. (19) La slogatura che abbiamo visto contrassegnare il motivo dell’inibizione del lutto a livello di sintassi del periodo («Chiusone in sé il nome», eccetera) si riproduce sul piano della sintassi narrativa. Anziché una conclusione, una chiusura di senso, un taglio secco: anziché la rassicurante cadenza sulla tonica, una dissonanza (un tritono?) da far venire i brividi.
Nulla, in realtà, meglio dell’immagine del corpo profanato si presta a rendere emblematicamente un’impasse insieme esistenziale e conoscitiva. Il lavoro del lutto prende infatti normalmente avvio dalla presenza fisica del cadavere, dal contatto diretto con il corpo privo di vita del defunto. In un contesto dove al lutto non è dato spazio oggettivo alcuno, l’apparizione del corpo morente diventa uno scandalo insopportabile, che non può avere come effetto che l’interruzione del discorso. Orba di affetti e di gentili errori, sentenziava il Leopardi di Aspasia, la vita «è notte senza stelle a mezzo il verno» (vv. 106-08): qui il silenzio si abbatte come una scure sul limitare dell’orbazione, alla soglia di un’ignara, quasi schernevole alba estiva.
Semmai, potremmo aggiungere, è il titolo del romanzo a risultare in qualche misura fuorviante. Ferme restando le appropriate considerazioni degli studiosi sulle varie possibili accezioni della dicitura cognizione del dolore, (20) non c’è dubbio che al fondo della conoscenza del proprio animo né Gonzalo né Gadda riescono ad arrivare. A meno di non sostenere, forzando un po’ i termini, che il senso ultimo del titolo stia in un complemento di limitazione. Poiché un certo segno, la sofferenza, diventa una barriera invalicabile, ciò che il romanzo inscena è quel tanto di cognizione che il dolore consente. Ovvero: la cognizione culmina nella consapevolezza di esperire un dolore refrattario a qualunque condoglianza, e per ciò catafratto in un cordoglio senza nome. Condolersi non rientra dal novero delle possibilità: il dolore è incomunicabile. Lo si chiami pure, all’occorrenza, tanto per chiamarlo in qualche modo, tarlo cavatappi: gli si potranno perfino attribuire, in questo registro di allucinata disarticolazione logico-sintattica, sia l’evento tragico della caduta (il precipizio) sia la reazione altrui (il ricordo: la commemorazione). (21)
Il nostro discorso sarebbe monco se non ci rivolgessimo di nuovo al termine di confronto da cui eravamo partiti, cioè il romanzo di Bassani. Nel quale, per dirla in maniera spiccia, succede più o meno il contrario. Il lutto appare lungamente elaborato, la commemorazione portata a termine secondo il dovuto rituale, il sepolcro onorato e levigato e ornato di fiori: nessun pericolo che i morti tornino ad assillare i vivi come fantasmi o revenants. Questo significa che tutti i conti tornano? No, naturalmente. La sommessa elegia bassaniana è percorsa infatti da una sottile crepa, che si delinea molto chiaramente nel finale. Come si ricorderà, Micòl amava ripetere che al futuro preferiva il presente, le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, e ancor di più il passato: «il caro, il dolce, il pio passato».
E siccome queste, lo so, non erano che parole, le solite parole ingannevoli e disperate che soltanto un vero bacio avrebbe potuto impedirle di proferire: di esse, appunto, e non di altre, sia suggellato qui quel poco che il cuore ha saputo ricordare. (O 578)
Che cosa sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto: così il narratore dei Promessi sposi commentava il congedo di padre Cristoforo dai fuggitivi («il cuor mi dice che ci rivedremo presto»). Ma questa conclusione illumina un aspetto del romanzo che fino a quel punto era rimasto in ombra. Se il protagonista avesse saputo dare a Micòl quel bacio, se fosse stato capace di amarla davvero, allora forse il destino della giovane sarebbe stato diverso. Forse sarebbe sfuggita alla sventurata sorte dei suoi familiari – il padre professor Ermanno, la madre signora Olga, e la signora Regina, e la vecchissima madre della signora Olga, tutti svaniti nella nebbia, fra le torme dei sommersi. Insomma, la tragica fine di Micòl non era scritta su nessun libro del destino: e proprio il protagonista avrebbe potuto, comportandosi in maniera diversa, salvarla.
Ma qui il romanzo finisce. E finisce con un congiuntivo esortativo – sia suggellato – che sa tanto, a ben vedere, di reticenza, se non di scongiuro. Chiudiamo qui, per evitare che il cuore (che è pur sempre, come giustamente ammoniva il Manzoni, «un guazzabuglio») ricordi, per avventura, qualche cosa di più. E tanto basterà per insinuare il sospetto che tra La cognizione del dolore e Il giardino dei Finzi-Contini, tra il romanzo esploso e il romanzo ben fatto, ad essere veramente incompiuto sia – semmai – il secondo: nel quale le responsabilità del protagonista sono soverchiate, e con ciò stesso dissimulate, dall’immane ma allotria tragedia della Shoah. (22) Quanto alla compiutezza della Cognizione, essa non riguarda l’annodarsi dei fatti (l’esposizione metodica di sequenze temporali o concatenazioni causali esula dalle intenzioni di Gadda), bensì il compimento del percorso dal fuori al dentro, dall’esterno all’interno. L’ultimo passo consiste nella violazione dell’integrità del corpo femminile che giace inerme al cuore della casa: nell’«apertura dell’involucro» (Bertoni 2001: 27), con tutto quanto ciò comporta in termini di turbamento e di orrore. Ad esser lasciato a mezzo, insomma, è solo il fatto di cronaca. L’opera, nel suo inestricabile groviglio di parole dette e non dette, è conclusa, e ben conclusa, giusto un istante prima che il giardino trascolori in cimitero, la villa in sepolcro, il letto in feretro.
Università di Milano-BicoccaNote
1. Lutto e melanconia (Trauer und Melancholie), è disponibile in italiano nel vol. VIII delle Opere curate da C. Musatti, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (Torino: Bollati Boringhieri, 1989), 102-18.
2. «Questa fu l’ultima ironia dei ghetti italiani: in rare e privilegiate eccezioni, quelle sordide dimore sarebbero riuscite a brillare nello splendore del ricordo che tutto illumina con la luce del sentimento come angoli caldi e accoglienti – e di conseguenza come una risorsa emotiva che valeva la pena di conservare per lungo tempo anche dopo aver varcato la soglia dell’assimilazione». Così Henry Stuart Hughes in Prigionieri della speranza. Alla ricerca dell’identità ebraica nella letteratura italiana contemporanea (Bologna: Il Mulino, 1983), 15 – ed. orig. Prisoners of Hope. The Silver Age of Italian Jews, 1924-1974 (Cambridge: Harvard University Press, 1983).
3. Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, in Opere (Milano: Mondadori, coll. «I Meridiani», 1998), 415-18 (abbrev. nel testo in O, seguito dal numero delle pagine).
4. Anna Dolfi parla di un «multiplo diaframma della distanza» che caratterizza le storie ferraresi, singolarmente e nel loro complesso: cfr. Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia (Roma: Bulzoni, 2003), 11 e passim.
5. «è per questa tomba che Gonzalo, nel romanzo, lamenta l’assenza di fiori, non certo per quella paterna» (Terzoli 2005: 21).
6. Nel minuscolo cimitero di Pomponesco, uno dei più suggestivi del Nord Italia, potrebbe aver trovato posto quella vecchietta dell’Ospizio di via della Vittoria per la quale non era valsa la pena di pubblicare un necrologio sul Corriere Padano di Ferrara: circostanza che alimenta le illusioni del padre del protagonista circa l’effettiva applicazione delle leggi razziali (O 372). All’interno del cimitero di Granátula de Calatrava, sferzato dal vento della Mancha, si svolge la prima scena di Volver di Pedro Almodóvar (2006).
7. Ma si veda la diversa opinione di Paolo Zublena, che ravvisa il riferimento più pertinente nel meccanismo di «identificazione con il morto» formulato dallo psicoanalista Daniel Lagache (Zublena 2002b).
8. «Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso» – Freud 1989: 105 («Bei der Trauer ist die Welt arm und leer geworden, bei der Melancholie ist es das Ich selbst»).
9. Seguo la sintesi proposta da Jeanne Katz, Introduction, in Jenny Hockey, Jeanne Katz, Neil Small (eds), Grief, Mourning and Death Ritual (Buckingham, Philadelphia: Open University Press, 2001), 4-6.
10. «The traditional role of elegy is to set in a structure of presence – poem, monument, epitaph, name – a radical and irreversibile absence: the lost beloved» – William Watkin, On Mourning. Theories of Loss in Modern Literature (Edinburgh: Edinburgh University Press, 2004), 54.
11. Cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, «Involare» e «rubare» in italiano antico, in Lingua nostra 22 (1961): 81-92.
12. Il termine ricorre di frequente nell’Alfieri tragico: «Orbato | egli è del padre, da non gran tempo» (Oreste, II, ii); «Orbato | m’ha d’una figlia il cielo» (Agamennone, II, iv); «L’insanguinata destra ad orba madre | ardisci offrir, tu vil, che orbata l’hai?» (Merope, I, ii), e così via.
13. Cfr. Watkin 2004: 4.
14. L’espressione latineggiante «madre orbata», che Pascoli evita di usare in poesia, compare in un appunto citato da Alfonso Traina nell’introduzione a Thallusa (Bologna: Patron, 1984), 12.
15. L’Adalgisa, RR I 466. Ma naturalmente si potrebbero ricordare altre pagine, a cominciare dal funerale del marito dell’Adalgisa: «tutta Milano costernata, nel leggere le grandi scritte d’oro dei nastri delle corone: “Al rag. Carlo Biandronni – i cugini Gnecchi”, “Al rag. Carlo Biandronni – la Società Pro Patria”: e via via, in centoventitre varianti» (RR I 548-49).
16. Cfr. Pedriali 1997: 132-58.
17. Il tema del nesso tra luogo della sepoltura ed elaborazione del lutto emerge con commovente evidenza nelle recenti memorie del giornalista Gad Lerner: in particolare, nell’episodio in cui egli si reca nel Libano meridionale alla ricerca dei luoghi dove sono caduti due giovani militari israeliani, figli di amici, su incarico dei genitori, ai quali quelle zone sono interdette (uno è Uri, il figlio di David Grossmann): cfr. Scintille. Una storia di anime vagabonde (Milano: Feltrinelli, 2009), 186-95.
18. D’obbligo il rinvio all’analisi di Federico Bertoni – Bertoni 2001: 14-19.
19. «The story actually stops before it shows a mother dying […] What matters is that the story be stopped before the beginning of the son’s survival in a motherless world» (Bertone 1997: 127).
20. Primo fra tutti il massimo esegeta della Cognizione, Emilio Manzotti: si vedano Manzotti 1987a: vii-x e Manzotti 1996, specialmente alle pp. 202-08.
21. L’omologia tra sintassi e costruzione narrativa in Gadda è stata sottolineata da Pier Vincenzo Mengaldo: cfr. Il Novecento (Bologna: Il Mulino, 1994), 153.
22. Qualcosa in più su questo argomento si trova nel mio articolo Lo sguardo di Jor. Per una rilettura del «Giardino dei Finzi Contini», in Il romanzo di Ferrara. Atti del convegno internazionale di studi su Giorgio Bassani (Parigi, 12-13 maggio 2006), a cura di P. Grossi (Parigi: Quaderni dell’Hôtel de Galliffet, 2007), 89-100.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1
© 2011-2023 Mario Barenghi & EJGS. First published in EJGS, Supplement no. 9, EJGS 7/2011-2017.
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