Nuovi bagliori dall’Incendio di via Keplero

Giovanni Palmieri

Ho promesso a Valentino Bompiani un volume di racconti intitolato: L’incendio di via Keplero. Essi sono in gran parte pronti. Devo ultimarne tre. È inutile che aggiunga l’ovvia constatazione; ciò che riesco a scrivere non è che una parte, e forse la meno significativa, di ciò che bolle in pentola.

Carlo Emilio Gadda (1)

Il primo sospetto mi è venuto pensando che il fuoco in Gadda è quasi sempre un elemento simbolico. Si pensi solo al titolo Novelle dal Ducato in fiamme, il cui significato è stato spiegato dall’autore stesso, (2) oppure al Fulmine sul 220 o ancora a quell’incendio-furore che porterà a cenere nel sottotitolo di Eros e Priapo.

Così, viziato dal pregiudizievole sospetto, per festeggiare degnamente il Decennial dell’EJGS sono tornato a leggermi, ma in altro modo, L’incendio di via Keplero, (3) che non a caso è il fiammeggiante gioiello incastonato nel collier del 1953 che Gadda ha intitolato Novelle dal Ducato in fiamme. A conferma dell’eccezionalità di questo testo, si consideri che il primo titolo pensato da Gadda nel 1945 per una raccolta di racconti da pubblicare con Bompiani era proprio L’incendio di via Keplero. Racconti. Mi sono poi chiesto se anche Keplero, l’astronomo studioso di mondi, non potesse essere il simbolo di un intero mondo o meglio del mondo cui apparteneva Gadda. Se il castello di Udine è la patria – mi sono detto – Keplero può benissimo essere il mondo, intendendo che il mondo di Gadda è sempre la Patria.

Alla fine del mio esercizio di lettura, o dicasi solfeggio del dettato, il sospetto mi è parso degno di essere sottoposto al vaglio critico: tra le molteplici funzioni del grande capolavoro gaddiano si può ravvisare anche un’intenzionale descrizione sub specie allegorica della rotta di Caporetto, in cui l’autore stesso fu drammaticamente coinvolto. Questo tragico modello esperienziale ha agito non solo nell’animo di Gadda ma anche all’interno del suo stile, dentro la sua écriture, diventando così simbolo cifrato e segreto. Ha scritto Roland Barthes:

La lingua è dunque al di qua della Letteratura. Lo stile è quasi al di là: certe immagini, un debito o un lessico nascono dal corpo e dal passato dello scrittore e diventano un po’ alla volta gli automatismi stessi della sua arte. Così sotto al nome di stile si determina un linguaggio autarchico che si basa soltanto sulla mitologia personale e segreta dell’autore. È in questa ipofisica della parola che si forma il primo accoppiamento delle parole con le cose e si installano, una volta per sempre, tutti i grandi temi verbali della sua esistenza. (4)

Cifrando criptosimbolicamente il suo trauma e facendolo rivivere sotto la superficie delle parole, nella loro dimensione ipofisica, Gadda ha pagato un debito con se stesso abreagendo e sublimando quel trauma, sepolto nei depositi della sua personale mitologia, per conciliarlo, sotto forma di écriture, con la propria esistenza nevroticamente precaria di uomo e di artista.

Per quest’ordine di ragioni, Caporetto è (se è) sotto al dettato della rappresentazione verbale, in uno sfondo allegorico che non abolisce mai né tanto meno subordina un vero e proprio incendio cittadino. Che l’incendio di cui si tratta alludesse alla temperie psicologica dell’autore era già stato sospettato da molti, ma io in quell’incendio vi scorgo ben più precise e storicamente delimitate corrispondenze. Vado per punti:

a. Al secondo paragrafo del racconto si legge: «e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati dell’angoscia» (RR II 702). Per Andrea Sarina trama criptosimbolica è «perifrasi troppo ardita» alla cui spiegazione non soccorre l’autocitazione fatta da Gadda in una lettera a Contini. (5) Altri, Contini compreso, semplicemente tacciono. L’intreccio o la rete dei fili elettrici (sirene, telefoni) non è certo né criptico né simbolico, soprattutto per un ingegnere elettrotecnico. Dunque quella trama di appelli angosciati sarà metaletterariamente quella del testo e cioè quella di un testo che potrà perfezionare il proprio «appello all’angoscia» soltanto in modo criptosimbolico e cioè oscuramente allegorico. Mi sembra si tratti di un primo, preciso, segnale metatestuale.

b. Che sin da subito si sia, ma divertiti, en enfer è implicito in quelle carni che cuociono («arrosto infernale», RR II 701), gettando una luce retroattiva su quell’iniziale «di cotte e di crude» (RR II 701). C’è poi il diavolo che pare correre dietro alla Maldifassi e che ritroveremo più avanti nelle versioni di Belzebù e di Mefistofele. Ci sono infine grida e fumi da gironi danteschi.

c. Le faville del fuoco che ad un certo punto si sprigionano dalle finestre sono definite «tanto attese!» (RR II 701). Perché? E tanto attese da chi? Non trovo altra spiegazione se non pensando ai soldati italiani che a Caporetto attendevano l’attacco degli austriaci e dei tedeschi la cui imminenza era stata annunciata da precedenti e terribili bombardamenti. Scrive Gadda nel Taccuino di Caporetto: «Il bombardamento non mi stupì affatto: un sentimento misto di impazienza per l’esito delle operazioni che stavano per cominciare […] mi prese» (Gadda 1991a: 74; mio il corsivo).  Ancora più esplicitamente ma in chiave autocritica, scrive Gadda in Impossibilità di un diario di guerra: «“Verranno i tedeschi”, mi dissero verso l’ottobre ’17 […]. Guardavo con impazienza i miei informatori: Dio poi mi ha punito della mia retorica» (RR I 143).

d. Poi ci sono i pompieri del «quinto drappello» (RR II 702). Ricordando che durante la guerra fu operativo il neonato «Genio Pompieri del Regio Esercito Italiano», mi chiedo se questo quinto drappello alluda al «5° Regg. Alpini» cui apparteneva la 470a Comp. Mitragliatrici comandata, per la I sezione, dal tenente Carlo Emilio Gadda. Direi di sì, considerando non casuale che nel nostro testo, oltre al «quinto drappello», il numero 5 compare altre cinque volte. Troviamo infatti: le «cinque del pomeriggio» (RR II 704), un «quinto mese» di gravidanza (RR II 706), «degli inquilini del quinto [piano]» (RR II 707), un altro «quinto piano» (RR II 712) e infine un «quinto viaggio» (RR II 713). Per non parlare dei multipli di questo numero: «venticinque» (RR II 706), «cinquantamila» e «cinquantenario» (RR II 712). Sull’ossessione numerologica di Gadda vedi qui il punto o.

e. Loreto, l’abbiamo capito tutti, è un pappagallo socialista e forse lontanamente giacobino dato ch’era appartenuto in gioventù al «generale Buttafava, reduce dalla Moscova e dalla Beresina» (RR II 703). Come tutti i socialisti (a parere di Gadda) Loreto, intanto, è un «pappagallo»; e poi è un po’ baüscia, cioè superbioso: e siccome per giunta è anche neutralista, si rifiuta di cantare «Viva l’Italia!», rispondendo sempre «Kanta-tì»… Ma quando scoppia l’incendio della patria, cioè Caporetto, allora anche lui  «s’era messo a squittire a squarciagozzo» «Hiva-i-Ità-ia!» (RR II 703). Già! In quell’incendio bruciava anche lui. (6) Si sa che dopo Caporetto e il governo d’unità nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, anche Turati a nome del Partito Socialista Italiano aveva assicurato solidarietà allo sforzo di resistenza del Paese. Insomma, come Loreto, secondo Gadda, aveva cantato «Viva l’Italia!» a modo suo.

f. Che la Croce Verde e i pompieri (questa volta civili), qui presentissimi, potessero essere chiamati telefonicamente per soccorrere durante la rotta di Caporetto era stata ipotesi tragico-ironica già suggerita da Gadda in una nota al Castello di Udine verso i monti: «quando sprofonda la nave, anche il volontario sprofondan». La nota recitava i seguenti numeri telefonici di soccorso: «Pompieri 002. Croce verde 003. Polizia 004» (RR I 152, 159).

g. Di Loreto si dice che, durante l’incendio, «vide i petali di quella così sinistra magia […] entrargli in camera come tanti pipistrelli infuocati» (RR II 703), alludendo alle fiammate dell’incendio. Più oltre, però, quei «petali» diventano «tàlleri». Loreto, «di fronte a quel volo di tàlleri affocati che parevano vaporar via dalla zecca maledetta di Zelzebù, aveva perso al tutto la trebisonda» (RR II 703). Perché durante un incendio dovrebbero volare traverso l’aria delle antiche monete germaniche infuocate? L’immagine, che ricorda l’Etna eruttante di fuoco del mito empedocleo nonché il dio Efesto che «personifica la energia affocata, la fiamma fabbrile incurvatrice dei metalli e del ferro» (Tecnica e poesia, SGF I 241; mio il corsivo), è bella ma vuol dire altro da sé. In una redazione precedente, Gadda aveva specificato «petali ardenti» (Gadda 1995: 281), e poi – ma in relazione ai ricordi giovanili che rivivevano nella novella e nel sogno interrotto dall’incendio dello scrittore Anacleto Baistrocchi – aveva scritto: «e [c’erano] quei talleri che volavano di fuori per tutta l’aria tutti fuoco e paura come se Maria Teresa ubriaca ne avesse fatto conio rovente nell’impero sovvertito di Belzebù» (Gadda 1995: 284). Nella redazione definitiva i talleri sono invece stati agganciati al pappagallo ma resi così inspiegabili, a meno di non sovrapporre al testo la lente allegorica. Inoltre unificando nei passaggi citati i «pipistrelli infuocati», il «vaporar» dall’abisso e «Belzebù», è decisivo per la tesi che sto sostenendo il puntuale confronto con un passo del Castello di Udine verso i monti dove, in esplicito riferimento alle minacce che si addensavano sui monti nell’imminenza della battaglia di Caporetto, è dato di ritrovare le stesse immagini presenti nel nostro racconto: «Se [i miei soldati] sospiravano [per la paura], volevo veder Barbariccio, dalle ali di pipistrello, arroncigliarli allora dentro la notte, uscito dai vapori d’abisso con il ghigno delle cose infernali» (RR I 150, miei i corsivi). Bene: quei talleri potrebbero essere valida metafora del piombo infuocato che si sprigionava dalle bocche da fuoco dei cannoni austro-tedeschi, e che piovve a Caporetto sulle teste dei soldati italiani.

h. Rimaniamo in tema di bombe e proiettili: il muratore Ermenegildo Balossi si trovava nel palazzo preso dal fuoco perché stava sistemando sul tetto alcune tegole malconce «dopo la furibonda grandinata della settimana avanti, ch’era stata sui diversi tetti della zona imparziale e solenne, come tutti i malanni che si dan l’aria di discendere dalla divina provvidenza, o giustizia che sia» (RR II 708). La settimana prima di Caporetto (25 ottobre 1917) italiani e austro-tedeschi si bombardarono a più non posso e a ciò, allegoricamente, potrebbe alludere la citata «grandinata», per così dire imparziale.

i. Filippo Tommaso Marinetti, che non avrebbe saputo «simultanare» quell’incendio (RR II 701), sul piano allegorico è anche quello stesso Marinetti che, dopo aver definito la guerra «sola igiene del mondo», non avrebbe però saputo immaginare la catastrofe di Caporetto.

l. Sempre in riferimento al muratore Ermenegildo Balossi, viene ad un certo punto detto che anche lui, come la Maldifassi, doveva salvare le sue «gioie»… «non impegnabili queste, ahimè!, a nessun Monte» (RR II 708). Poi, con precisazione apparentemente superflua, il testo prosegue dicendo: «Almeno monti di pietà, dal momento che si sta parlando di quelli». In tal modo Gadda insinua nel suo lettore il sospetto che, «sotto il velame de li versi strani», si stia parlando proprio di altri monti: per esempio del Krasji-Vhr o del Krn (Monte Nero).

m. Nella seconda efficacissima descrizione dell’incendio (RR II 705-06), insieme a pompieri,  guardie municipali, carabinieri e genieri, ci sono anche degli «ingegneri comandanti dei pompieri»: e Gadda stesso, a Caporetto, era, praticamente, un ingegnere comandante.

n. L’esplicitazione allegorica del lavoro svolto dal vecchio Zavattari (RR II 711-12) richiede una premessa storico-militare: anche prima della battaglia di Caporetto (e cioè prima dell’impresa di Rizzo e della Beffa di Buccari, entrambe del 1918), le motosiluranti italiane (MAS), eredi delle vecchie torpediniere, avevano avuto discreti successi bellici nel mar Adriatico. Faccio solo due esempi: il 6 giugno, nei pressi di Durazzo, i MAS di classe 5 e 7, guidati da Berardinelli e da Pagano di Melito, avevano affondato il piroscafo austriaco Lokrum. Sempre gli stessi con analoghi MAS, il 24 giugno del 1916, nei pressi del porto di Durazzo, avevano affondato il piroscafo Sarajevo. Ma potrei continuare. Quando Gadda parla del lavoro congiunto dello Zavattari e del Carabellese (noto che si tratta non casualmente di un settentrionale e di un meridionale), dice che entrambi «esercivano» un negozio di pesce (RR II 711) e che «la gli andava anche abbastanza mica male» (RR II 711-12). Ora, a parte i nomi patriottici di Ciro Menotti e del motopeschereccio «Stefano Canzio», che già ci mettono su una strada militare, a me sembra chiaro che il vero lavoro della ditta Zavattari & Carabellese fosse quello di silurare le navi da guerra austriache; non solo, come s’è detto, non gli andava male… ma di loro si dice anche che rifilavano «quei pezzi di mostri verdi delle profondità marine alle massaie esterrefatte […] sprovviste de’ più pallidi requisiti necessari a poterli cucinare come che fosse, dei liocorni simili» (RR II 712). Dunque: i mostri verdi sono i siluri (certo più verdi dei pesci) che vengono «rifilati» a quelle navi-massaie che, appunto, risultano «esterrefatte» per la sgradita sorpresa che non sanno come neutralizzare o… cucinare. Inoltre, i siluri montati sui MAS sono certo più simili ad unicorni o liocorni, che dir si voglia, di quanto non lo siano in generale i pesci. Gadda aveva già surrettiziamente inserito le «torpediniere» nel racconto: le scarpe sfatte (grande ossessione fobica del nostro) appartenenti al Besozzi erano state infatti definite «due torpediniere vecchie» (RR II 705). (7) Ma c’è di più: la «Gualconda» – qui nome d’uno dei motopescherecci della Genepesca – fu in realtà una nave da guerra della marina cilena durante la Guerra del Pacifico (1879-1884). Di quale tipo di nave si trattava? Proprio di una torpediniera, una delle prime, di quelle ancora propulse a vapore. Ma sui doverosi riferimenti bibliografici e soprattutto sul perché Gadda potesse conoscerla conviene rimandare in nota. (8)

o. Infine l’incendio di via Keplero è anche l’incendio che ha bruciato lo stesso autore, che ritroviamo infatti occultato criptosimbolicamente in quel «numero 14» che – come ci viene detto subito (RR II 701) – era il civico del palazzo in questione. Com’è noto, il nostro scrittore era vittima di una ossessione scaramantica legata ai numeri. Solo qualche esempio: «Il mio numero è il 14: nato non dirò in che anno a Milano il 14 novembre: laureato idibem non dirò di che alloro il 14 luglio» (I numeri e le lettere che preferiscono, SGF I 1008). E ancora: «Il 14 è un numero molto buono per me, e se tu facessi tanto da permettermi di estrarlo per la stampa del volume [: La Madonna dei Filosofi], credo che sarebbe la volta che lo variamo. In 14 son nato, in 14 ho preso la laurea ecc. ecc.» (LS 131; lettera a Carocci del 7 luglio 1929). Infine, e si pensi al 1917, anno di Caporetto: «Odio il numero 17 che mi procurò grane e pesti infinite (nei giorni di 17 non imprendo mai nulla) ed evito 17 e i suoi multipli […]. Fingo di credere che il 13 mi porti fortuna». (9)

Questo elenco di puntuali corrispondenze allegoriche non potrebbe terminare se non con uno sguardo d’insieme alle due scene: quella dell’incendio di via Keplero e quella della rotta di Caporetto. Il fuoco, il fumo infernale (e si pensi al gas lanciato dagli austro-tedeschi), le bestie impazzite, le urla, i suoni delle sirene (civili o militari), i carri, i cavalli atterriti, i tralicci dei fili telefonici abbattuti o bruciati, le fughe in preda al panico e scomposte della gente, i pantani di acqua e melma ecc. sono immagini che appartengono all’incendio di via Keplero ma sono anche le stesse immagini che si impressero indelebilmente nell’occhio di chi fu a Caporetto. Gadda nel Taccuino scrive, ad esempio: «Notizie non arrivarono, sebbene ansiosamente attese, perché i fili erano stati rotti dal bombardam.»; «Qua e là bagliori d’incendi…»; «Incontrammo muli morti dai bombardamenti dei giorni precedenti, muli vagolanti, e mucche libere»; «un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d’armi […] si pigiavano a rischio di precipitare nel fiume verso la passerella»; «La stanchezza istupidiva i soldati; bestemmiavano, si gettavano a terra» (Gadda 1991a: 80, 86, 87, 90, 92).

La gaddiana rappresentazione simultaneista dell’incendio di un palazzo e la sua allegoria caporettiana, pur senza contrarre alcun debito testuale, hanno inoltre molti punti di contatto con il clima generale presente nel poemetto in dialetto milanese di Delio Tessa intitolato Caporetto 1917. Sonada quasi ona fantasia. Scritto tra il marzo e il giugno del 1919, ma edito solo nel 1932, (10) questo capolavoro della poesia «espressionista» avrebbe potuto essere ben conosciuto da Gadda che non solo era un cultore della poesia meneghina ma in un’occasione cita proprio il Tessa. (11) Questi, inoltre, impareggiabile dicitore, recitava spesso nei cenacoli letterari meneghini i suoi musicali e teatralissimi versi. Riferendosi a Caporetto 1917, Mauro Novelli ha scritto che «sebbene lo eseguisse di rado, Tessa l’aveva in repertorio sin dall’estate successiva alla fine della Grande Guerra». (12)

La quasi-fantasia di Delio Tessa, che coglie il poeta nel giorno dei morti e cioè il 2 novembre 1917, una settimana dopo il disastro di Caporetto, immagina che gli austriaci – non fermati al Piave dall’esercito italiano – stiano per arrivare a Milano. Prima di loro, soldati sbandati e profughi dalle campagne fuggono a piedi e accalcandosi nel fango verso la città, mentre i ponti sono saltati e all’orizzonte si vedono i roghi delle case, degli stabilimenti e dei depositi che vampeggiano tra le nebbie… «salta el pont de Paderno, | brusa stabiliment, | cà, gent che sgara, gent | che se calca… e l’inverno, | la nebbia, fora… fora… | areoplan che sgora, | bomb che s’cioppa! on inferno! || fora…  fora… scappemm!». (13)

L’interdiscorsività e la parentela climatica del poemetto di Tessa con il testo di Gadda non riguardano però solo il piano tematico ma anche e direi soprattutto quello formale. Nel registro di un grottesco tragicomico e dentro agli umori polemici di un’acre ironia antifrastica, Tessa infatti costruisce la sua polifonica e sincopata partitura, accogliendo una pluralità di voci in italiano e in dialetto che farciscono e spezzano il tesissimo monologo del narratore. Così dentro al discorso principale, continuamente interrotto, intervengono in discorso diretto frasi mozze del popolo, canzoni «disfattiste», violenti dialogati polemici, bollettini ufficiali debitamente irrisi ecc. Per tutto, un clima di caos, di terrore, urla, rumori e suoni che compongono un’assordante babele rumoristica, vera e propria colonna sonora di un baraonda infernale e quasi epica. Proprio la compresenza e l’intreccio indirimibile di queste voci ha suggerito a Dante Isella l’idea che con questa tecnica Tessa abbia ottenuto sulla pagina gli stessi effetti simultaneisti della pittura di Boccioni. (14) Mi è sembrato perciò pertinente accostare questi stessi effetti a quelli ottenuti (e dichiarati) da Gadda nell’Incendio di via Keplero.

Risultanze critiche e conseguenze

Troppo è stato scritto da Gadda e dalla critica perché sia necessario spiegare qui, con ragionata e lunga teoria di citazioni, ciò che rendeva al nostro autore problematico, quando non impossibile, sia dal punto di vista letterario che da quello morale, lo scrivere della guerra. Non a caso il Taccuino di Caporetto, che Gadda non voleva fosse pubblicato neanche dopo la sua morte, verrà pubblicato postumo solo dai figli (Sandra e Giorgio) di Alessandro Bonsanti, cui Gadda l’aveva consegnato. Scrivono i curatori al proposito: «Finché visse Gadda non volle che questo taccuino venisse alla luce. In esso erano fissati, quasi ora per ora, i momenti della tragedia nazionale che egli continuò a sentire come propria» (Gadda 1991a: 7).

Corrado Stajano, che intervistò il nostro nel 1968, ebbe a scrivere in quell’occasione: «Caporetto era sempre stata la sua ossessione»; «La piaga di Caporetto, per esempio, non si è ancora rimarginata, e a ogni fine ottobre Gadda è più cupo del solito, il dolore e il lutto si perpetuano, gli amici lo sanno e non osano invitarlo neppure a uscire di casa». (15) Eppure l’urgenza espressiva che compulse Gadda a scrivere le smaltate di luce, abbaglianti, prose militari del Castello di Udine raggiunse anche la rotta di Caporetto, l’estremo tabù della sua angosciata ritrosia. Soltanto che di Caporetto non si poteva scrivere a lungo direttamente. Era necessario occultare, nascondere, cifrare la tragedia dentro l’ironia. E questo spiega l’ardita orditura allegorica del nostro racconto, che Gadda non rivelò mai a nessuno.

Caporetto sembra essere stato perciò un modello analogico, articolato allegoricamente, che ha avuto un peso determinante nella costruzione testuale dell’Incendio di via Keplero. Non certo una sinopia ma piuttosto un palinsesto, genettianamente inteso. Aver raschiato e letto quel palinsesto (se la mia interpretazione è corretta) è certamente importante in sé, ma ancora più rilevanti potrebbero essere le conseguenze critiche d’ordine generale a cui tale scoperta condurrebbe. Ho parlato prima di allegoria perché dal punto di vista tecnico-retorico il testo di Gadda è costruito su una lunga serie di corrispondenze i cui significati sono inambigui e precisi; il che vuol dire che non hanno la vaghezza e la soggettività arbitraria dei simboli. Tuttavia ho anche dovuto precisare subito che a differenza di quanto accade nell’allegoresi tradizionale, nella costruzione metalogica di Gadda non vi è alcuna soppressione né subordinazione del significato primo in favore del significato allegorico. Anzi accade il contrario: la rotta di Caporetto vivifica ed esalta proprio la terribilità di un vero e proprio incendio cittadino.

Eppure Gadda non avrebbe, e non ha, parlato di allegoria ma di simbolismo, anzi di «criptosimbolismo», e si può ben indovinare il perché: tra l’evento simbolizzato e la sua simbolizzazione non vi è per il nostro scrittore un rapporto arbitrario e convenzionale legato ad un codice preciso, com’è nell’allegoria – la «semplice e volgare allegoria», come l’ha chiamata (I viaggi, la morte, SGF I 571). Al contrario vi è o vi deve essere sempre un profondo legame simbiotico. La forza distruttiva e naturale dell’universo (leggasi il Male) è una sola, la si chiami Caporetto, Etna o incendio di via Keplero.

Pertanto le corrispondenze misteriose tra le forze dell’universo si devono tenere e vanno espresse simbolisticamente, vale a dire secondo quella «maniera simbolistica» che sin dal Racconto italiano di ignoto del Novecento Gadda affermava di possedere: «Posseggo anche una quarta maniera (d), enfatica, tragica, “meravigliosa 600”, simbolistica» (SVP 396, mio il corsivo). Insomma: parlare di realismo espressionista o anche iperespressionista in riferimento all’Incendio di via Keplero è certamente corretto, purché si aggiunga che ovunque vi sia in Gadda espressionismo, il correlato realismo sarà sempre allucinato o per meglio dire sovradeterminato. Più balzacchiano che tolstojano, per intenderci. Ma non basta: al realismo di Gadda si affianca sempre, senza mai trascenderlo, un livello allegorico cui l’autore teneva molto e che ha sempre chiamato «simbolistico». Che poi simbolismo ed espressionismo potessero pacificamente coesistere, è Gadda stesso a notarlo, sia pure in riferimento alla poesia di Rimbaud (ma noi possiamo estendere la riflessione anche all’arte gaddiana): «Talora il simbolo prende addirittura il sopravvento: lieto dell’invenzione, il poeta si indugia a delinearlo e lo reca a un tale risalto, da farci dimentichi dello sviluppo tematico del poema. Il simbolista diviene allora un espressionista, talvolta un semplice descrittore» (I viaggi, la morte, SGF I 575).

Insomma mi sembra che il simbolismo (un simbolismo molto personale) sia una dimensione molto importante in Gadda e direi in tutto Gadda. Se l’uomo è «un groppo, o nodo, o groviglio di rapporti fisici e metafisici» (Come lavoro, SGF I 428), l’operazione conoscitiva dello scrittore, ci dice Gadda, non può che ricorrere al simbolismo, unico mezzo in grado di cogliere sinteticamente la molteplicità aggrovigliata e compresente dei rapporti tra uomini e cose. Da qui la grande ammirazione per Baudelaire e per Rimbaud, e da qui quell’erudito simbolismo storico-morale esibito nel Castello di Udine, a cominciare dal titolo, certificato poi nelle note di autocommento, non lo si fosse correttamente inteso.

Del resto è lo stesso Gadda ad avere chiaramente scritto: «E poi, cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle, sfericamente contornati nei loro apparenti confini (Spinoza direbbe modi): mi valgono in una aspettazione, in una attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti» (Un’opinione sul neorealismo, SGF I 629). Ancora, ma in riferimento a Rimbaud, possiamo leggere: «Il simbolo coi misteriosi processi dell’analogia e dell’eccitare “a latere” gli schemi logici del nostro spirito, affretta per più rapidi tocchi queste complesse determinazioni» (I viaggi, la morte, SGF I 575). Le quali determinazioni, che nel caso specifico sono quelle di Rimbaud, sono anche quelle di tutte le cose e di tutti gli uomini. Insomma, il simbolismo, giusta la metafora dei migranti e dei sedenti, apre nuove prospettive che Gadda chiama propriamente «spaziali» perché consentono con «più rapidi tocchi» i molteplici collegamenti della Cosa in tempi e spazi multipli: «Il migrare dei simbolisti – possiamo ancora leggere nei Viaggi, la morte – è un determinare nuove fortune spaziali, nuove conoscenze e nuove sensazioni astratte dall’impulso coordinante dell’io, è un perdersi nella casualità oceanica» (SGF I 581).

Nell’Incendio di via Keplero, dove convivono descrittivismo ed espressionismo, la dimensione criptosimbolica che ho cercato di evidenziare (caso più unico che raro) si dispiega sull’intera superficie testuale. Perciò la coesistenza autonoma della rotta di Caporetto e di un incendio cittadino, cioè la compresenza simultanea di due distinti universi di discorso su piani prospettici differenti, conferisce al nostro racconto un’amplissima dimensione spaziale che «simultaneizza» storia e cronaca fondendole nel crogiolo universale del mito. Quel mito che a Gadda e a tutti occorre quando la ragione non possa più lenire né soccorrere.

Université de Provence

Note

1. Brano citato in V. Bompiani, Via privata (Milano: Mondadori, 1973), 230.

2. Scrive Gadda a Contini in data 22 luglio 1953: «novelle (= notizie) dal ducato (= dello stato del duce merda) consegnato alle fiamme: (dalla lussuria demenziale, dalla follia narcissica e dalle bombe al fosforo)» (Contini-Gadda 2009: 176).

3. Vedine l’ed. critica procurata da Paola Italia in Gadda 1995: 41-49. Per la relativa Nota al testo e gli Apparati critici, da cui provengono tutte le citazioni delle varianti dell’Incendio, v. sempre Gadda 1995: 231-40 e 241-90. Per l’intelligenza del mio lavoro, oltre al citato lavoro di Paola Italia, sono determinanti i seguenti saggi: Manzotti 1993c: 43-50, Sarina 2001 e De Marchi 2003. Mi riprometto di conglobare il presente lavoro, volutamente unidimensionale, in un saggio d’ordine più generale.

4. R. Barthes, Le degré zéro de l’écriture (Paris: Seuil, 1972), 12. Mia la traduzione.

5. Cfr. Sarina 2001, parte IV, nota 28. La lettera di Contini è del 28 novembre 1953 (cfr. Contini-Gadda 2009: 179).

6. S’intende che per Gadda l’incendio di Caporetto è stato l’incendio della patria.

7. Paragone ripreso poi da Gadda nel «Concerto» di 120 professori (1942), che entrerà un anno dopo nell’Adalgisa: le scarpe nere degli ingegneri «inseguivano come fumosi caccia-torpediniere il ticchettio secco e preciso delle scarpette femminili: siluranti leggere ma non perciò men temibili, che di già insidiavano e bentosto avrebbero minacciato di torpedinare senza misericordia i posti più vantaggiosi» (RR I 453).

8. Lo storico peruviano Reynaldo Moya Espinoza (1920-) scrive nel suo Piura y la Guerra con Chile (senza data, disponibile in online) che nel 1880, nel corso della Guerra del Pacifico che vedeva contrapposti da una parte il Cile e dall’altra Bolivia e Perù, al largo di Callao, era comparsa una flotta cilena tra cui vi erano due «lancha torpederas»: la Gualconda e la Janequeo. Appassionato di storia militare, Gadda, ex-emigrante argentino, avrebbe potuto venire a conoscenza della cosa leggendo qualche libro sulla pirofregata Garibaldi che dall’ottobre del 1879 al giugno del 1881, a protezione delle comunità italiane immigrate, aveva sostato nei principali porti della costa pacifica tra Cile e Perù. Il citato Espinoza ricorda che proprio nel 1880, al largo del porto peruviano di Callao, insieme alla flotta cilena composta fra l’altro dalle due torpediniere, era presente anche l’italiana Garibaldi.

9. Da I numeri, diversa redazione dei Numeri e le lettere che preferiscono…, presente nel volume francese Une anthologie éclatée de Carlo Emilio Gadda (Paris: Bourgois Ed., 1981), 16-19; cfr. SVP 1476.

10. Delio Tessa, L’è el dì di Mort, alegher! (Milano: Mondadori, 1932).

11. Cfr. Il terrore del dàttilo, SGF I 518.

12. M. Novelli, Il sacco di Milano. Delio Tessa, Caporetto 1917, in Milano da leggere. Leggere la guerra, Atti del Convegno del 15-16 dicembre 2005, a cura di B. Peroni (Milano: ADI-SD, 2006), 54.

13. D. Tessa, L’è el dì di Mort, alegher! e altre liriche, ed. critica a cura di Dante Isella (Torino: Einaudi 1985), vv. 259-66. «Salta il ponte di Paderno, | bruciano stabilimenti, | case, gente che strilla, gente | che si accalca… e l’inverno, | la nebbia, fuori… fuori… | aeroplani che volano, | bombe che scoppiano! un inferno! || fuori… fuori… scappiamo!».

14. D. Isella, Introduzione a Tessa 1985, xix.

15. C. Stajano, Maestri e infedeli. Ritratti del Novecento (Milano: Garzanti, 2008), 8 e 19.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1

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