L’anima si governa per alfabeti.
Note su Gadda scrittore di guerra

Maria Antonietta Terzoli

Come la magìa e la negromanzia conobbero il valore ossessivo o ricreativo della parola, così questa, anche nella società illuminata, serba il suo contenuto magico. Sta a noi di riscattarla dall’ossessione della frode e di ricreare la magìa della verità.

In uno scritto pubblicato su L’Ambrosiano il 7 dicembre 1931 e intitolato Impossibilità di un diario di guerra, Gadda riconosceva a se stesso qualche affinità con Comisso e Remarque, pur marcando la propria differenza:

Non sono stato un Remarque e nemmeno un Comisso. Ammiro questi, ammiro molti altri scrittori: e riconosco nelle mie notazioni «de bello» alcuna simiglianza or con l’una or con l’altra delle efficacissime loro: né dico ciò per voler captare a mio profitto alcuna briciola de’ meriti lautissimi d’altri, ma per significare a mia difesa alcuna comunione d’umanità con quelli e con altri. (1)

Il riferimento ai due scrittori era sollecitato dalla recente pubblicazione di Giorni di guerra di Comisso, uscito l’anno prima presso Mondadori, e di Im Westen nichts Neues di Remarque, uscito nel 1929 e tradotto in italiano con il titolo di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Un altro e più articolato elogio sarà riservato l’anno successivo al diario di Stuparich, Guerra del ’15, uscito nel 1931 (Milano: Treves) e recensito da Gadda per la rivista Solaria nel febbraio del 1932 (SGF I 745-48).

Comisso e Remarque non erano che due esempi insigni di una memorialistica e di una narrazione di guerra quanto mai fiorente, di cui però Gadda non fa esplicita menzione, tacendo anche nomi che erano di immediata notorietà in quegli anni: quasi il sintomo di un’ambivalenza e di una riserva nei confronti di un genere di scrittura, pur attivamente praticato in prima persona. In effetti l’articolo dell’Ambrosiano serviva a giustificare un’impossibilità non tanto di stesura, quanto di pubblicazione. Gadda aveva infatti nel cassetto un lungo diario, nel quale dall’agosto 1915 al dicembre 1919 aveva registrato con scrupolo e precisione ossessiva le sue esperienze di vita militare e di prigionia.

Diviso tra volontà di testimonianza e impossibilità di esibire sentimenti e passioni troppo personali, Gadda dopo la guerra non pubblicò i suoi diari. Li lasciò stampare – ma parzialmente e con censure – solo in anni molto più tardi. La storia, già di per sé significativa, di questo accidentato percorso è stata ricostruita da Dante Isella (Isella 1992a: 1101-128), che ha anche aggiunto alla serie l’ultimo pezzo, il taccuino più doloroso e più gelosamente conservato, con la narrazione degli eventi di Caporetto e della prigionia in Germania: consegnato ad Alessandro Bonsanti perché lo custodisse a futura memoria. Intoccabili e sacri, intrisi del sudore eroico e del sangue dei giorni di guerra, ma anche delle lacrime e della disperazione della prigionia, i diari non potevano essere né modificati né corretti in vista di una pubblicazione, pena la loro profanazione. Neppure potevano essere pubblicati in maniera antologica, pena il tradimento di quella verità insita nella successione stessa della scrittura diaristica: «essendo io un rètore, amo le scritture compiute e non amo gli edificanti stralci. Il mio diario di guerra contiene dei giudizi, esso è dunque impossibile» (Castello, RR I 141). E neppure potevano divenire serbatoio da saccheggiare impunemente per narrazioni postbelliche e piccole glorie letterarie, come ha mostrato Guglielmo Gorni (Gorni 1995: 149-78). (2)

Persino rileggere quei diari, dopo la loro drastica conclusione, era stato impossibile, se dobbiamo credere a quanto Gadda confessava ad Ambrogio Gobbi in una lettera del 7 novembre 1958:

il mio amico prudentissimo-educatissimo volle dare all’editore fiorentino i miei due quadernetti, che non rilessi mai dal 1917-18, a saldo del debito morale (promessa di un libro) che avevo col suddetto editore. Da Roma scrissi al mio amico: «ma credi che si possano stampare? non ci saranno grane? erano mie note interne non destinate alla pubblicazione: un promemoria segreto di quegli anni, di quelle sofferenze, di quel tempo di follia. Semmai avrebbero dovuto servirmi a recuperare qualche immagine del 1917-18, in un lavoro (racconto, romanzo) rielaborato». […] L’editore li stampò: e, occupato e stanco e impegnato fino al collo io lasciai che le bozze fossero corrette da altro, a Firenze. Io nemmeno le vidi. (Gadda 1983c: 67, corsivo dell’autore)

Riprenderli in mano non era facile, neanche dopo tanti anni: «Credi che non sono in condizione di controllare il passaggio incriminato: non ho il tempo di rileggere in questi giorni tutto il libro. Lo rileggerò appena possibile, benché il ritornare sulle sofferenze del mio triste passato, mi ripugni alquanto, debole di fisico come mi ritrovo ad essere» (Gadda 1983c: 68). E l’ultima parte, con il rientro a Milano e la scoperta della morte del fratello, era stata addirittura dimenticata, in una totale rimozione. (3)

La recensione del 1932 al libro dello Stuparich, mentre affermava la superiorità – in quanto a verità e forza di testimonianza – della scrittura diaristica sui documenti ufficiali, e persino sulle lettere dei combattenti (spesso censurate o autocensurate), confessava l’esistenza di diari dello scrivente. Sembrava anzi farne condizione di giudizio sulla sua qualità di soldato:

anch’io come ogni combattente degno del nome, ho una mia esperienza e una mia documentazione, chiuse però nel cassetto e consegnate alla dimenticanza. Lo Stuparich ha reso pubblico, come già il Monelli ed altri, il suo documento prezioso. Dove si fonderà la storia, e la Vittoria futura, e la verità del popolo Italiano? Verranno da quei germini di cui il libro dello Stuparich è de’ più vivi. Oh! non saranno la sagra, né la ghirlanda, né il trombone, saranno un crudo esame delle situazioni di fatto, una cruda confessione delle difficoltà e dei peccati militari, una intelligente ricostruzione, un senso vivo e adeguato della realtà. E per avere un’idea di quella che è stata la vita nostra di guerra, il futuro Livio non avrà molto a sua disposizione: anche le lettere dei combattenti, nobilissime e sacre cose, sono fonte in diverso modo viziata: (p.e. dalla preoccupazione di tacere il pericolo alla mamma). Meglio il diario, meglio il diario di uno che è senza volerlo (mi riferisco alla «involontaria» bellezza artistica del diario rispetto ai momenti in cui fu scritto) artista e scrittore, che con vividezza così prontamente e stupendamente rievocatrice ci dà la luce, il suono, l’odore, il giorno e la notte della guerra e della battaglia. (SGF I 746-47)

Quello che Gadda non dice, e non può dire, è che la guerra è stata per lui, come per molti scrittori della sua generazione, il primo vero banco di prova letterario, l’eccezionale occasione di tradurre sulla pagina un’esperienza grandiosa e sconvolgente: un’atroce e non prevista scuola di scrittura. Se per autori più vecchi, come Thomas Mann e Marcel Proust, la guerra è un tema che appare con forza verso la fine dei grandi romanzi, nel Zauberberg (1924) e nel Temps retrouvé (1927), per i più giovani sono proprio le vicende e le passioni belliche vissute in prima persona a diventare gli argomenti delle loro prime opere. Il primo, e forse più notevole libro di Ungaretti, Il Porto Sepolto del 1916, è un diario di guerra – redatto nelle fangaie dell’Isonzo, scritto su precari foglietti di carta conservati nel tascapane del soldato – dove le poesie sono provviste di indicazione di luogo e di data, con una precisione non concessa invece alle lettere, prive per motivi di sicurezza del luogo, se non della data. Così per Gadda la prima importante prova di scrittura, a parte minimi esperimenti lirici infantili e adolescenziali, è proprio il diario di guerra e di prigionia. La prigionia nella baracca 15c, dove la manìa poetica aveva colpito tutti coloro che si trovavano nell’immediata possibilità di far versi («I poeti e facitori di versi, me escluso, che ne feci ma non ne faccio, sono sette od otto», Giornale, SGF II 807), è anzi un vero apprendistato letterario per lo studente del politecnico, a contatto con due letterati più esperti, Bonaventura Tecchi e Ugo Betti. Ma su questo dovremo tornare.

è probabilmente oziosa, e non può trovare risposta, la domanda se Gadda sarebbe diventato uno scrittore anche senza la guerra. Ma certo è da notare che il primo racconto che di lui si conosca, Passeggiata autunnale, è scritto in prigionia tra il 22 e il 30 agosto 1918, quando tacciono le note di diario, e subito dopo l’impressionante descrizione di un duplice funerale al campo, registrata sotto la data del 21 agosto. E il primo tentativo di romanzo, Retica, dedicato a vicende legate all’irredentismo, è ideato nel 1916 e steso nel marzo del 1918 durante la prigionia (Italia 1995: 179-202). Ma è al rientro in patria, dopo il ritorno alla vita normale e dopo la scoperta della morte del fratello, che l’esaltante e atroce esperienza della guerra e della prigionia diviene davvero materia di scrittura. Richiede anzi di essere riscritta, per essere capita ed esorcizzata: non fotografata in diretta come nei diari e nelle lettere dal fronte o dal campo di prigionia, ma rielaborata in forma letteraria, ricreata sulla pagina con una libertà di invenzione che lo scrittore si può permettere a differenza dell’autore di diari, vincolato dalle modalità di registrazione e dallo statuto di verità, di documento, che gli è proprio. (4)

Vediamo allora, con esempi tratti dalle sue prime prove, come Gadda descrive o riscrive la guerra, come la racconta una volta finita. Ungaretti si riproponeva – e lo fece solo in parte – di scrivere il canto di quelle «atroci e meravigliose giornate», (5) di fissarle in un’esperienza lirica, come Apollinaire aveva fatto nei Calligrammes, «la cosa di poesia più deliziosa» nata dalla guerra (Ungaretti 1988: 204; lettera 205 a Papini, maggio 1918). Quella di Gadda è invece una modalità insieme lirica e grottesca, ironica e sublime, secondo quella che sarà poi la cifra più riconoscibile dello scrittore maturo. In effetti parlare di Gadda e la guerra, significa toccare un nodo intricatissimo di ragioni biografiche e di necessità creative: i primi scritti di guerra sono pubblicati negli anni Trenta, in riviste e giornali, e poi compresi nel Castello di Udine e nella Madonna dei Filosofi, ma ricordi di guerra o episodi ad essa connessi attraversano l’intera opera dello scrittore. (6) Il primo tentativo di rielaborazione lirica di quella materia incandescente è rappresentato dalle poesie, pubblicate da Gadda solo per minimi assaggi, ma conservate gelosamente per più di cinquant’anni, e solo nel 1993 edite integralmente. (7) Benché l’esercizio poetico si estenda su un arco cronologico molto ampio, la maggior parte dei testi è concentrata nel 1919, soprattutto nei primi mesi dell’anno, dal gennaio all’aprile. Particolarmente significativa appare la prima della serie, Sul San Michele (Gaddus, 4 luglio 1917) (Gadda 1993a: 10-12). Il titolo è designazione topografica di immediata riconoscibilità. Il San Michele è l’altura del Carso, presso l’Isonzo, teatro di sanguinose e reiterate offensive, «Sito grigio, sito sassoso. | Lo chiamano monte, così, | Perché fu tremendo il salire. | […] | Grigia terra, deserto salire | Al culmine | E riscendere della pietraia, | Grigio d’erbacce e di ghiaia» (vv. 4-13), titolare in letteratura di una celebre menzione ungarettiana: «Come questa pietra | del S. Michele | così fredda | così dura | così prosciugata | così refrattaria | così totalmente | disanimata || Come questa pietra | è il mio pianto | che non si vede» (Sono una creatura, vv. 1-11). (8)

Nel titolo figurano, curiosamente, anche la data e la firma, quasi come in una pagina di diario che offra il resoconto di un momento preciso: la visita-pellegrinaggio compiuta sul San Michele il 4 luglio 1917 dal tenente Carlo Emilio Gadda. La somiglianza con la scrittura diaristica, di cui la poesia sembra mimare i caratteri (luogo, data, firma, temporalità prossima della narrazione), è così forte che, in occasione di un riordinamento del 1933, l’autore sentirà il bisogno di ribadire l’anno di composizione – che non coincide con quello dell’azione descritta – e di precisarne le modalità (ricordo e non registrazione immediata dei fatti): «Questa lirica “Sul San Michele”, è stata scritta nel 1919, rievocando». Tanto scrupolo appare pleonastico se si considera che, per la prima parte della poesia, il manoscritto registrava già la data di stesura («28 gennaio 1919»), ma diviene più comprensibile se si interpreta come volontà di distinguere fermamente due tempi inconciliabili: quello dell’azione e quello del suo ricordo, quello del diario di guerra e quello della rievocazione successiva. In altre parole: il prima e il dopo rispetto all’onta della prigionia e alla morte del fratello, «il più orrendo dolore della mia vita, quello che ha superato per l’intensità il tragico 25 ottobre 1917, che si è fuso con questo in una sola onda di atroce agonia» (Giornale, SGF II 867, 31 dicembre 1919).

Le pagine del giornale di guerra per il luglio del 1917 non ci sono pervenute. Appartenevano al prezioso diario con le eroiche azioni sul Carso e sull’Adamello, abbandonato nell’ottobre del 1917 nella tenda sul Krasji, presso Caporetto, di cui Gadda lamenta ossessivamente la perdita, caricandola, a posteriori, di più gravi implicazioni: «I giorni della sconfitta mi ritornano continuamente nell’anima con tutti gli orrori patiti, con la visione di tante cose perdute». (9) Dopo il rientro a Milano e la scoperta della morte del fratello questo sentimento diviene l’emblema di ogni altra perdita: «Qualcosa disparve; si sente» (Gadda 1993a: 21, v. 50), «E i miei fratelli dove sono? Non ci sono. | […] | Ma qualcosa, qualcosa ho lasciato | Quando quando si ritroverà?» (Gadda 1993a: 31, vv. 37-42). Le premesse erano però tutte registrate nel diario, fin dal 29 ottobre 1917, a ridosso della disfatta, nelle prime ore della prigionia: «Desolazione, solitudine. Notizie gravissime, terribili, sull’avanzata tedesca; estrema mia desolazione. Penso a Enrico, ai miei. Quale orribile destino si approssima!» (Giornale, SGF II 664), e, con più disperato presentimento, due giorni dopo, il 31 di quel mese:

Il mal di cuore, la patria perduta, la famiglia perduta, quest’ultimo amico perduto; il pianto, la demenza. Sassella Stefano, di Grosio (Valtellina), cl. 1897; anima splendida e rara, devoto come gli eroi dell’Ariosto; piango come se avessi perduto mio fratello. […] Io sono ora finito: nella sventura, nell’orrore anche questo amico ho perduto! (SGF II 665)

Parole non facili da rileggere quando la similitudine evocata era divenuta atroce, immedicabile realtà.

La prima poesia scritta dopo il rientro, Sul San Michele, rappresenta allora il tentativo – disperato e fallimentare – di riparare a una perdita, almeno a quella materiale del giornale di guerra, sostituendo a quelle pagine smarrite nei luoghi della disfatta, la loro rievocazione lirica, concepita nei termini di una poesia, datata e firmata, il più possibile simile a una pagina di diario. Quelle che seguono sono anch’esse minuziosamente firmate e datate nella loro fitta cronologia («CEG. 5 aprile 1919, Milano»; «CEG. 6 aprile 1919, Milano»; «9 aprile 1919»; «Pasqua 1919. – Longone»). L’ultima della serie, Chiara serenità della terra, dove le campane chiamano i vivi – da cui è escluso ormai il fratello – «Ad andare | Nel sole | E nell’aria», è scritta nella casa di campagna, il giorno di Pasqua del 1919, appunto in occasione del «I°. ritorno a Longone dopo la guerra e la morte di Enrico», come precisa una postilla molto più tarda (Gadda 1993a: 109). Sostitutive del diario (che per il mese di aprile si limita al giorno 1) queste poesie tentano compensi di natura simbolica, più astratta, per una perdita non tollerabile: sembrano insomma il primo tentativo da parte del sopravvissuto di esorcizzare il dolore della guerra e la morte del fratello, poi destinati a ispirare alcune tra le pagine più alte dello scrittore maturo. Ma restano un tentativo inadeguato, che registra il proprio fallimento iscrivendolo, letteralmente, nei versi: «Il mio passo è vano | […] | Cade la mano» (Gadda 1993a: 13, vv. 25-29), memoria del virgiliano cecidere manus, riferito a Dedalo impotente a scolpire nell’oro il tragico volo del figlio. Un volo dall’esito così simile all’ultimo volo di Enrico: «Orribile senso di miseria e di solitudine nella vita; e sempre Lui nella mente e negli occhi, raccolto disperatamente intorno alle manovre del suo aereoplano» (Giornale, SGF II 850).

Scrittura come compenso, come tentativo di superare l’orrore della morte del fratello e di tutte le altre che a quella ormai sempre rinviano. Così non stupisce che, nella poesia Sul San Michele, possano essere utilizzate per i compagni morti («Riposa la fronte | Sopra l’orbite vuote | Nel buio della terra | E tace il monte | Che vi rinserra’, vv. 82-86) frasi riferite al fratello nel diario: «Lui ha finito e riposa per sempre nel buio della terra» (7 luglio 1919), «Egli è nel buio della terra, ai piedi delle montagne amate e sognate nella nostra giovinezza» (31 dicembre 1919) (SGF II 859, 867). Anche l’esercizio straziante del ricordo – «E inutilmente, o sepolti, | Ricordo e ripenso» (vv. 87-88) – è lo stesso che si applica all’immagine di Enrico: «I momenti di solitudine nella casa e nella città deserta, poi, sono terribili; i momenti in cui ricordo e ripenso» (SGF II 856, 25 marzo 1919). I versi registrano il desiderio, impossibile, di compiere insieme nuove eroiche imprese:

Vorrei parlarvi ed andare
Compatti dietro il cannone
Veder le granate a smontare
Pezzo per pezzo le corone
Delle trincere
Sopra i colli bruciati.
Avervi compagni, beati
Di giovinezza e d’orgoglio.
All’assalto delle trincere
E lungi dal soglio
Dell’opere prese
Altri monti vedere
Altre schiere
Avverse
Altri cieli senza confine
Altro ridente paese.
Non vedo che un velo
Di nuvole perse
Tetre, nere,
Andare col vento nel cielo.

(Sul San Michele, vv. 54-73)

Mutare i dati della realtà, ritrovare i compagni scomparsi, cancellare ogni perdita. Questo doloroso delirio («in una forma di delirio sognavo, vedevo, volevo vedere!») sarà confessato molti anni dopo, nella prosa Compagni di prigionia, proprio per introdurre frasi che riprendono quasi alla lettera i versi appena citati:

Veder le granate a smontare pezzo per pezzo le corone delle trincere sopra le quote bruciate e i compagni andare, sapendo, sul monte! […] e volevo imitarli e seguirli, dal soglio dell’opere prese altri monti vedere, altre schiere avverse, altro fuggente paese. Fuggenti sopra la gabbia non erano che nuvole perse, tetre, nere. (Castello, RR I 165)

Le prose di guerra comprese nella Madonna dei Filosofi e nel Castello di Udine segnano, in effetti, una nuova maniera di rielaborare quella materia incandescente e dolorosa. È la maniera di chi ha ormai imparato a usare la parola per esorcizzare il dolore, o almeno per controllarlo a distanza. Di chi anzi può raccontare usando frammenti di vita vissuta, rimescolandoli però in una storia di cui resta l’unico regista e l’unico inventore. Non mutare la realtà, ma riscriverla: rimetterla in un ordine che durante lo svolgimento non si poteva né riconoscere, né registrare. Solo così si spiega l’uso di nomi reali, compreso quello del narratore, nelle prose di guerra e di prigionia pubblicate da Gadda negli anni Trenta: testi che nella loro maniera pseudo-memorialista mimano una verità documentaria, ma insieme la correggono e la riordinano. La presenza dei cognomi nei racconti del Castello è tanto più sconcertante, se si tiene conto che, quasi trent’anni dopo – a passioni ormai sopite e scomparsi molti dei personaggi lì menzionati – il medesimo autore censura i nomi propri addirittura nel suo diario: pubblicato nel 1955 con i veri nomi e ristampato nel 1965 con i cognomi modificati.

La fiducia nella scrittura è così forte che sembra tematizzata nella narrazione stessa della guerra, aprendo una riflessione di più larga portata sulla parola come strumento di comprensione e di controllo del reale. Nel primo racconto, uscito su La Fiera letteraria il 23 settembre 1928 e poi compreso nella Madonna dei Filosofi, il titolo di gusto quasi barocco, Manovre di artiglieria da campagna. – Tiri di batteria: da 75 e da 100: descrizione magnificata da due ipotiposi mitologiche e da diverse locuzioni dell’uso raro, segnala già questa attenzione alle parole, mettendo in rilievo termini tecnici della retorica e della grammatica: descrizione, ipotiposi e locuzioni dell’uso raro. È ricordato, tra l’altro, un generale, «alunno di Marte», che «a ogni scendere d’un qualche pisolino sugli occhi dell’institutore» non aveva disdegnato di inseguire «fra gli oleandri ed i mirti la traccia luminosa della di lui consorte». La descrizione, inizialmente bonaria, diviene sempre più dura, fino a denunciare alcune gravissime leggerezze, che rendono grottesche le sue pretese di precisione («Certi elenchi, certe scritture, su certi fogli di carta, dovevano redigersi a puntino, come lui soltanto sapeva» – Castello, RR I 23-24). La più feroce dissacrazione è fornita proprio a partire dal suo maldestro uso delle parole e della retorica:

Si compiaceva di allocuzioni solenni e vi mescolava i gelidi lirismi circa il dovere, cavati dal regolamento di disciplina, a frasi che riteneva pregevoli e rare, dell’ultima moda giornalistica, venutegli ad orecchio nel leggere i quotidiani. E vi accozzava il ricordo di alcuni fatti storici, noti ai maestri elementari, con quello di alcuni episodî non meno storici, noti a lui solo, che ne era stato il consapevole protagonista. E vi legava alcuni stenti di parola, da piccolo borghese in sussiego domenicale, con alcune volute magniloquenti da celebratore ufficiale di anniversari. Il tutto era tenuto in sesto da potenti e imprevedibili strafalcioni: e nel groviglio spiraloide degli anacoluti e delle consecutive sbagliate e nell’intrico delle concordanze ad sensum gli veniva combinato d’involgere siffattamente gli ascoltatori, che questi, fidenti in un migliore domani, lì per lì si davan per vinti, rinunciavano al significato generale, si contentavano di afferrare, passo passo, le bellezze dei dettagli. (RR I 25)

A questa grammatica grottesca e presuntuosa, a questo uso approssimativo e grossolano della lingua – che mescola il peggio dei regolamenti con il peggio delle prose degli odiati corrispondenti di guerra – si oppone la parola semplice e veritiera, efficace nella sua essenzialità, degli esseri più umili, addirittura degli animali. Nell’ultimo tratto, intitolato Batteria in manovra, si descrive il trasporto di un cannone, trascinato da due grandi e nobili cavalli, Gorgo e Tubone, che avanzano tra gli arbusti e le rocce «col collo robusto dicendo: Sì, sì». La semplicità evangelica dell’assenso ritorna poco più avanti, quando «l’artigliere li fece rinculare un poco e i cavalli obbedirono, nel mentre continuavano a dire: Sì, sì» (RR I 31-32, mio corsivo). Ma davanti a un dislivello imprevisto, uno «scheggione» che faceva un gradino di dodici centimetri, i cavalli non riescono a spostare il pezzo, nonostante i loro sforzi e i comandi sempre più violenti:

«Tira, Gorgo!»: e legnate, e la bestia si avventava disperatamente nella prigione delle sue tirelle e la seguiva il compagno e l’artigliere col manico della corta sua frusta le dava di piatto. E legnate: le bestie si avventavano; e legnate. «Tira brocco, uh! forza! uh! tira, porcone». (RR I 32)

Il narratore insinua, formulandola come una legge della fisica, l’unica possibile soluzione, che passa attraverso il ragionamento e la parola piuttosto che attraverso la forza: «Non è possibile alle ruote di valicare gradini acutangoli: occorre chiamarle con inviti e blandizie». Ma è la parola dei cavalli a esortare gli uomini affannati e a suggerire la soluzione:

gli uomini sembrava loro che fossero un po’ ottusi, un po’ stanchi: forse era il gran sole. Gorgo allora, anche per consiglio del compagno, decise di ridestarli e ammonirli, richiamandoli a una doverosa coerenza fra lo immaginare e l’agire, fra i facili comandi dell’anima e l’indugio pesante della realtà. (RR I 33)

Il linguaggio degli uomini si riduce però a inutile bestemmia, «in dialetto bergamasco e bolognese e in lingua toscana»:

Frattanto, dalle bocche degli artiglieri, presero a dipartirsi altri e più tempestosi richiami, indirizzati a varie personalità delle gerarchie celesti, non escluso l’Onnipotente; a quest’Ultimo vennero successivamente attribuiti i nomi di diversi mammiferi da allevamento. Per un caso singolarissimo, tali mammiferi erano scelti, quasi esclusivamente, fra i suini.

Di nuovo è necessario un intervento verbale degli animali: «A una legnata dunque più ladra, Gorgo si rivolse di scatto, con uno sguardo da far piangere: “Ragiona!”, disse con il suo sguardo all’uomo che lo legnava e aveva la giacca slacciata, i calzoni un po’ lenti. Ed era un soldato!». È la figura positiva del tenente Tolla a risolvere infine il problema, deviando il passo dei cavalli per prendere di costa l’ostacolo: ai suoi giusti rimproveri e improperi, che sostituiscono le bestemmie e le parole inefficaci dei soldati, si accompagna la ritrovata docilità dei cavalli, di nuovo espressa in forma verbale: «Allora Tubone e Gorgo con forti zampate schiacciarono tutti gli sterpi vani, dicendo: Sì, sì». (10)

Il racconto che apre la serie delle prose di guerra nel Castello, Elogio di alcuni valentuomini (uscito su L’Ambrosiano il 27 novembre 1931), è costituito da una sequenza di umorali riscritture storiche (soprattutto da Cesare e da Livio) e di brevi notazioni di commento, secondo modalità che si ritroveranno molto più tardi nel Primo libro delle Favole. Qui importa notare come si conclude. L’episodio finale tratto dalla storia romana, paradigma di tante rievocazioni gaddiane, è introdotto con una riflessione su due locuzioni odiate dal narratore, far fesso e non mi fai fesso, emblema verbale del turpe e ignobile mito della furberia: «Quando le locuzioni “far fesso” e “non mi fai fesso” riusciranno incomprese, allora la diana sarà splendida, come i fulgori primi del giorno… Il mito della furberia è un ignobile e turpe mito» (RR I 132). Quasi che l’indecifrabilità delle due locuzioni, la loro caduta in disuso significasse la scomparsa di un’abitudine vergognosa. Ma è quanto mai interessante che il finale sia riservato alla critica di un grande maestro della parola, «un causeur de’ più fini», in fuga durante la battaglia: «Peccato però questo Metauro, che guasta tutto il quadretto». Orazio pavido e vile in battaglia è irriso, benché ammirato come poeta. La denigrazione è tanto più grave perché suggella un testo che dell’elogio di altri e diversi galantuomini fa il suo tema: ma è una presa di distanza nettissima e necessaria, per uno scrittore che in guerra aveva invece cercato l’eroismo e le fulgide battaglie, anche a rischio della vita.

Se la critica a Orazio inaugura la serie delle scritture di guerra nel Castello, dichiarando anzitutto quello che il tenente e apprendista scrittore non era stato, il testo successivo, Impossibilità di un diario di guerra, comincia dichiarando quello che, molti anni più tardi, Gadda scrittore intende fare: «Queste cose le scrivo e le stampo perché possano arrivare dentro l’anima, un giorno!, di qualcheduno, che abbia lume di memoria e di cognizione e, se Iddio voglia, capacità di giusta elezione» (RR I 134). Si è già visto all’inizio come questa prosa serva all’autore per giustificare la mancata stampa del suo diario di guerra. Qui importa ancora notare la rivendicazione della propria diversa retorica («essendo io un rètore»), incompresa dalla «gente di calamaio» («Ma tutto questo è retorica, dice la gente di calamaio», RR I 141, 136), e soprattutto la denuncia umorale e grottesca dell’uso di vacui luoghi comuni: «Quando io sento parlare dell’“umile fante”, o ne leggo, subito ho l’occhio ed il ghigno d’una creatura d’inferno, e góngolo tutto di pravità, bestialmente irridendo a una cotale designazione». E ancora:

Io non fui e non sono un umile fante, ma un soldato d’Italia a ora a ora buono o gramo, che ebbe infiniti difetti e conobbe infiniti peccati, salvo quelli dell’umiltà;

Nessuna umiltà, ma quella sola, non voluta, e psicologicamente respinta come calice ignominioso, quella che il destino impone al soldato, allora che del soldato fa un cencio, dentro le spire della fatica;

I soldati non dovevano essere umili, ma bravi soldati: non fagotti di rassegnazione, ma grumi di volontà. (RR I 137, 140-41)

è un’irrisione anche più rabbiosa di quella che investiva un’altra logora locuzione, vecchio soldato, usata dai subalterni per il cattivo generale di Manovre di artiglieria:

le sfuriate che mettevano in risa gli sguatteri risciacquanti giù fra le mura ammuffite delle cantine, gli avevano procurato la fama di «Vecchio soldato». Alcuni compiacenti e zelanti subalterni avevano addobbato questa fama con ulteriori designazioni: «Vecchio soldato, tutto d’un pezzo», «Vecchio soldato, dall’aspetto burbero, sì, ma dal cuor d’oro». (RR I 24)

Non è possibile commentare ora le bellissime pagine che descrivono le corvées di rifornimento oltre i tremila metri, la solitudine notturna del ghiacciaio sotto «infinite stelle di là dai crinali», rotta dal rumore della mitraglia e dei razzi lontani, fino all’arrivo dell’alba e della luce «risorgente nel mondo» (Impossibilità, RR I 138-40). Sono pagine di grande intensità e forza evocativa, che, come altri episodi narrati nel Castello, amplificano alcune brevi notazioni pro-memoria relative alla primavera del 1916 e alle imprese sull’Adamello, registrate più tardi alla fine del diario del 1916 (Giornale, SGF II 1124). Qui occorre invece ricordare un passo di tono minore: «Qualcuno si ammalò, a furia di guerra. Mi ammalai anch’io, a furia di scatolette» (Impossibilità, RR I 144). Quello che colpisce, per l’ironica e incredibile consequenzialità, è la ragione che l’autore ne fornisce in nota: «I regolamenti militari vietano l’iterato uso di carne in iscatola. Il Ns. si ritrovò in condizioni da dover contravvenire a questa norma e cadde gravemente malato» (RR I 146, n. 13). Malattia come conseguenza del mancato rispetto di una norma, registrata in un regolamento.

Ma è soprattutto nel racconto intitolato Dal Castello di Udine verso i monti che la forza performativa e organizzatrice della parola, nella sua articolazione di alfabeti, di grammatiche e di retoriche, sembra trovare la sua più compiuta dimostrazione. Quasi in apertura si legge una frase, che per le sue molteplici valenze e implicazioni, ho scelto come titolo di questo saggio: «l’anima si governa per alfabeti» (RR I 147). È pronunciata a proposito della necessità che agli ufficiali sia richiesto un adeguato grado di istruzione. L’esempio negativo, di categorie che non paiono adatte al compito, è quello dei lavoranti-parrucchieri, che possono rendere ottimi servigi al battaglione, ma «è bene astenersi dal nominarli ufficiali». Il loro compito è invece quello di «tosar teste ventenni dagli occhi di bove, aver dopo tre minuti zazazazazà lo sgabuzzino imbottito di riccioli, da farne dei materassi: richiamare sul vertice cranico del tenente colonnello le tre setole ancor suscettibili di qualche richiamo».

L’apparente leggerezza del racconto evoca per associazione il tema del taglio dei capelli: «“Alt! Taglio capelli!” – La scritta era enorme, come un enorme “Ferro China Bisleri”, o un enorme “W il nuovo curato!”, sulla sandalina distesa fra i due pennoni, all’entrar di Caporetto, chi discendesse dai monti». Fin qui la scritta che intima l’Alt! sembra solo il punto di partenza per introdurre l’aneddoto, in apparenza divertito, della polemica sulla lunghezza dei capelli:

Io sono un convinto fautore del taglio capelli: feci la mia guerra con la testa rapata […]. Ora, nella nostra bellissima guerra, s’era inserita un’amena guerricciola: fra gli Alti Comandi, giustamente preoccupati del taglio capelli, e l’umile fante, che per dispitto non ne voleva sapere.

In realtà quelle piccole ostilità erano state narrate dal tenente Gadda nel suo diario con ben altri toni. Prese anzi a emblema di un generale malcostume italiano, dell’indisciplina intesa come prova di libertà:

La nostra anima stupida, porca, cagna, bastarda, superficiale, asinesca tiene per dignità personale il dire: «io faccio quello che voglio, non ho padroni». – Questo si chiama fierezza, libertà, dignità. Quando i superiori ti dicono di tosarti perché i pidocchi non ti popolino testa e corpo, tu, italiano ladro, dici: «io non mi toso, sono un uomo libero». (Giornale, SGF II 578, 31 luglio 1916)

Erano anzi state introdotte da una solenne petizione a futuri lettori – rara in queste pagine diaristiche – che denuncia le conseguenze pericolose di un egotismo cretino, che trasforma tutto in una questione personale: «Se queste mie memorie saranno lette in futuro, chi leggerà sappia che la discordia nelle file del nostro esercito, nella compagine della nostra vita nazionale è novanta volte su cento il frutto di imbecillità e di frivolezze come questa e peggio». Con questo precedente si capisce allora meglio il nodo – esorcizzato con un ironico paradosso – che si cela dietro un’altra frase del racconto: «Il guaio vero è stato che l’“Alt!” della sandalina di Caporetto non fece nessuna impressione a von Below, il quale arrivò invece da Santa Lucia» (Dal castello di Udine, RR I 148). L’arrivo da un altro punto consente al generale tedesco di non rispettare l’ordine intimato dal gigantesco cartello, e di avanzare indisturbato nonostante quell’Alt! tanto perentorio quanto inefficace: parole e ordini senza effetto sul reale. È la riscrittura, ironica e paradossale, dell’effettivo, imprevisto arrivo delle armate tedesche alle spalle dell’esercito italiano con effetto di micidiale accerchiamento.

Un altro grave errore di Caporetto – la mancanza di collegamenti che isolò interi reparti, tra i quali anche quello di Gadda, facendoli cadere in mano nemica – è di nuovo narrato come un errore di tipo linguistico, una suggestione sbagliata di parole in sé corrette:

Ora, a me mi pare che la testa di ponte sia proprio una locuzione bellissima, adattissima, poi, per quei posti: se fossi un corrispondente di guerra, sento proprio che con una testa di ponte simile avrei fatto carriera. Perché fa un effetto magnifico. Nelle conferenze strategiche, poi, dove le calde vibrazioni della voce arrivino fino ai fantasmi tiepoleschi della gran volta, ne fa uno ancora migliore. […] L’unico difetto è questo, secondo me: che la testa di ponte, per suggestione grammaticale e fonètica, induce la testa dello stratega all’idea d’un sol ponte, d’un ponte al singolare. E la suggestione delle parole è tutto, specie dopo due anni di guerra: ma un ponte è troppo poco, anche dopo due anni di guerra. (RR I 148-49)

La suggestione delle parole è tutto, ma bisogna saperla controllare. La gravità dell’errore è sottolineata per assurdo dai commenti, sagaci nella loro ingenuità, di un fattorino della ditta Gondrand, praticissimo di traslochi, che «non sapeva neanche che cosa fosse una testa di ponte»: «brontolava da mattina a sera: che i ponti era meglio se fossero stati sei o sette, magari anche dieci, sopra la stretta forra del fiume» (RR I 149). A chi legga le pagine del memoriale di Caporetto, redatto da Gadda con esasperato scrupolo documentario nei giorni successivi alla cattura, è evidente quanto grave e disperante fosse, in quei drammatici frangenti, l’impossibilità di attraversare l’Isonzo, con i ponti saltati e le acque in piena:

la corrente è velocissima, torrentizia. […] Un tal fiume, in tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore; tanto meno poi vestito o con armi;

l’Isonzo era una barriera insuperabile;

Ma l’ostacolo del terribile, insuperabile Isonzo ci sorgeva nella mente come uno spettro. Dove, come passarlo?;

Noi eravamo di qui d’un fiume invalicabile, senza ponti […]. Noi eravamo esausti di forze e d’animo, accasciati, quasi digiuni. Ma sopra tutto l’impossibilità di passare l’Isonzo. (La battaglia dell’Isonzo – Memoriale, SGF II 730, 734, 735, 736)

Si può allora capire quanto dolorosa, e insieme sarcastica, sia nel finale del racconto l’allusione al bellissimo ponte di Caporetto distrutto dagli Italiani stessi: «La prima cosa che successe fu che il ponte di Caporetto saltò per aria, anzi lo fecero brillare, come si dice nella brillante prosa tecnica: e ciò fu quando su, nelle nuvole eccelse, dei reparti senza ordini stavano ancora attendendo a piè fermo di compiere il resto del loro dovere». La «brillante prosa tecnica», nel dissacrante gioco di parole, maschera e insieme sancisce l’imprevidenza e la dissennatezza di quella funesta decisione. (11)

La fedeltà alla parola, la fiducia nel suo potere anche là dove parrebbe meno efficace, soccombente alla violenza dell’azione o all’inerzia forzata e paralizzante della prigionia, trova la sua più compiuta celebrazione nel già ricordato Compagni di prigionia. Il racconto si apre sulla descrizione delle varie attività dei prigionieri, tra le quali figura lo scrivere e lo studio delle lingue, inglese o tedesco, quest’ultimo addirittura registrato nella forma di un paradigma verbale: «Rivedo la baracca numero quindici, la luce sistematica d’un giorno eguale: e i compagni scrivere o studiare l’inglese o rammendar panni: o rimestare le loro polte e i tenui imbratti delle lor salse sulla piccola cucina di ghisa. […] studiava eternamente il tedesco, ziehen, zug, gezogen» (RR I 156). È anzi l’ottima conoscenza del tedesco che consente a un altro prigioniero di comprendere quanto sta accadendo, e di aggiornare i compagni sulle vittorie degli alleati e sull’imminente fine della guerra: «sapeva bene il tedesco e leggeva le diverse Zeitungen, e poteva tirare, dalle Zeitungen, i più sicuri pronostici» (RR I 164).

Ma la parte più importante è dedicata alla scoperta dell’attività poetica che uno dei compagni praticava in segreto, rievocata in un delizioso racconto, che è quasi la registrazione, all’interno delle prose di guerra, dell’educazione dell’autore alla poesia e alla scrittura:

Volevo ad ogni costo sapere che cosa facesse Betti nelle ore di mattina, quando si involava solitario. Lo trovai una volta nella baracca-brodaglia […]. Seduto alla tavolaccia, sulla panca, nel fondo, Betti scriveva: una lettera, avevo pensato. Ma poi, ripensando alla lettera, rivedevo lui con il volto serio e pur dolcemente intento sul foglio, con il lapis a mezz’aria, come un bel galletto che, levata la zampa, sta per fare un passo di più verso l’amorosa battaglia. Era troppa fatica per una lettera, neanche bambino a Natale avrebbe sostato così. Forse inseguiva i suoi sogni, forse la rima, gallinella procace, o deludente in circolo. Volevo sapere. Ma mi aveva proibito di disturbarlo, pena una qualche apollinea scarica di pugni. Temevo un po’ Betti-Apollo […]. Girai allora dietro la baracca-brodaglia, un giorno, dove sapevo: mi issai fino alla finestretta bassa, alla quale egli volgeva le spalle, seduto sulla panca, alla tavolaccia. Dalla ineguale ricopertura delle righe vidi che eran dei versi. E allora non ebbi pace finché non ottenni la sua confessione. (RR I 161-62)

Ho mostrato altrove l’importanza per l’esordiente Gadda, studente del Politecnico e quindi professionalmente non letterato, dell’incontro con Betti, per singolare destino rinchiuso nella stessa baracca. Laureato in giurisprudenza, Betti era autore in quei mesi di poesie pubblicate poi in un volume intitolato Il Re pensieroso. (12) Qui importa notare la registrazione, in queste pagine di guerra, dell’efficacia consolatoria della poesia sul prigioniero Gadda: «e furono i suoi versi come un conforto, e una risorgente speranza». Ma anche la forza evocativa di quelle parole e il dolore dei ricordi: «E fu, allora, per me lo strazio della rievocazione» (RR I 163). In questo episodio si cela addirittura – riferita a Betti ma da estendere naturalmente anche a chi scrive – la dichiarazione di un possibile rapporto di causa e effetto tra guerra e scrittura, di una genesi dei versi indotta da una licenza di guerra:

Altri mi ricondussero, con desolato strazio, alla mamma, e sono di quelli germinati profondi, non credo parerò facile o temerario all’esegesi, se dirò la mia idea, che soltanto una licenza di guerra abbia potuto dar vita al segreto loro gèrmine. (RR I 164)

L’ultimo racconto della serie, Imagine di Calvi, nel rievocare i primi giorni di prigionia, esibisce altri esempi di uso improprio della parola:

Il feticcio della mia ira fu un insegnante di francese, territoriale dai baffi, temperamento ginevrino. Dettava a Rastatt le sue sentenze formative de’ più rari plurali, con la sicurezza secca di chi governa, al circo, un numero di cani ammaestrati. Ipnotizzati dai suoi baffi a ripetizione, alcuni parrucchieri molli ripetevano choux, bijoux, cailloux, con la facilità che il sonnambulo si leva i calzoni sul palcoscenico, sotto lo sguardo magnetico del dominatore impomatato. Una fantasmagoria di congiuntivi inverosimilmente circonflessi rampollava allora nell’ebetudine paradisiaca de’ parrucchieri: e pochi minuti dopo La Fontaine, inimitabile e chiara eleganza, parlava già come il groom dell’Albergo del Gallo, all’arrivo degli sposi di Brembate supposti svizzeri. (RR I 168)

A questo si aggiungono coloro che fanno discorsi inutili e presuntuosi, come «un gobbetto occhialuto […], grammaticante, ponteficante», immagine di futuri «pontefici grassi, occhialuti e benefici sopra la cattedra d’un qualche Reichstag, costipato di cotenne dialettiche», che a guerra finita si arrogheranno il diritto di fare discorsi, di celebrare «davanti l’Europa l’inutilità defunta del Quinto e di tutti gli Alpini», con le loro convinzioni perfette. La polemica è l’anticipo di tanti sarcasmi gaddiani contro le immagini false e oleografiche di certa mediocre retorica di guerra, «E mi rassegnavo all’idea-tipo: gli alpini dovevano bere e poi cantare morendo, da farne una bella novella di cinquecento lire: o un carme pieno di lampade votive, in endecasillabi da circolo filologico» (RR I 175), ribadita in nota: «Il tartarinismo obbligativo di certi ufficiali alpini dei depositi dava sui nervi al Ns. in un modo incredibile, non meno di certe povesie, con vignette di penna e piccozza» (RR I 178, n. 22). L’irritazione ritorna, amplificata, nella Cognizione del dolore:

Dopo recuperate vittorie, gli stampatori della gloria funebre non gli eran più bastate le loro xilografie mortuarie fino ai carmi d’un reduce senza endecasillabi: lampade funerarie e motti e fiammelle e perennis ardeo: tutto esaurito per gli xilografi, sulle coperte dei cadaverosi poemi. I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il nome, la disperata memoria. (RR I 682) (13)

E serve di nuovo a segnare le distanze tra questa maniera – impropria, retorica e vociferante – di usare la guerra e quella discretissima e silente del protagonista Gonzalo: «Forse la sua guerra, a lui, non era stata pericolosa. Non raccontava nulla, mai: non ne parlava ad alcuno» (RR I 682). Ma certo è interessante (forse allarmante) che nella Cognizione, in concomitanza con le frasi appena citate, affiorino di nuovo le parole francesi caillou, bijou e il ricordo di La Fontaine: riferiti questa volta non all’odiato insegnante di francese, incontrato nei primi giorni di prigionia, ma alla madre, anch’essa maestra di lingua ai ragazzi del paese:

I ragazzi, poi, sembrava addirittura che li avesse in odio. Una severità cupa gli si metteva sulla faccia a trovarne in casa anche uno solo, come quel povero scioccherello, sorrise la madre, del caillou, bijou. […] il cerchio della lucernetta, sul tavolo, era l’orbe di pensiero e di chiarità nella incolumità del silenzio. Nel vecchio libro, odoroso del vecchio inchiostro di Francia, con le cuffie, i pizzi, e Maître Corbeau. (RR I 682)

Ma torniamo al Castello. Perché la parola e la scrittura offrano salvezza, la retorica deve essere ben usata, come strumento di descrizione e interpretazione del reale: è Gadda stesso a suggerirlo in una nota, che rivendica la funzionalità e la pertinenza di un disordine sintattico voluto:

La posposizione e l’astrattezza de’ termini a dare il senso d’una moltitudine confusa, fuor della quale si delinea dolorosamente l’oggetto unico dell’apprensione e cioè il tenente Chitò. Disordine sintattico voluto, imàgini volutamente impallidite e deviate. (Imagine di Calvi, RR I 177, n. 14)

Il nome del tenente Chitò non è pronunciato nel testo a cui questa nota si riferisce. Quasi una censura compensata da una confessione leggermente sfasata. In effetti, nella rievocazione di questo studente di matematica, «altissimo della persona e curvo, con il polmone trapassato da una pallottola» (RR I 172), affiora il senso di colpa di chi non ha concesso soccorso al compagno malato: «Trovai segretamente il pretesto, oh! inconfessabile miseria!, che non osavo offenderlo con un’offerta di pane» (RR I 173). Ma la confessione vera passa attraverso il controllo di un’alta retorica, quasi a esorcizzare il rimorso del sopravvissuto:

Non la sua tùnica lògora, la sua voce distrutta, non il pallore alto sopra la statura comune degli uomini, il chiaro commento circa l’eleganza rapida delle cose deducibili, la curva sua schiena di malato e di ferito, la sua dignità d’uomo intatta e ferma alle soglie della sua notte, nulla mi mosse a regalargli neppure un pezzo di pane. (RR I 172-73)

E questa stessa retorica rivela, retrospettivamente, il senso di colpa celato in un altro passo, anch’esso scandito da un insistente polisindeto, che si legge in Impossibilità di un diario di guerra:

Certo che la stanchezza, la fatica, l’ebetudine, la macerante attesa, e poi le atroci esperienze, l’odore di interi reggimenti accatastati ad aspettare il destino, e quei volti destinati allo spasimo, di quegli uomini che sbranavano del manzo malvagio nell’ultimo sole della lor vita, e inutilmente deglutivano l’ultimo pane, certo tutto questo non era fanfara d’orgoglio. il lamento degli abbandonati su da le forre paurose, tra le due linee; l’odor funebre, a ventate, sulla scheggiata groppa del monte; i cenci, il sangue, le mosche verdi d’attorno l’orrida turpitudine della morte: il sibilo dei pronti colpi lungo gli orecchi, lo schianto atroce di quegli altri, che arrivavan da via. (RR I 137)

Per parlare dell’esperienza atroce della guerra e renderla pubblica è dunque necessario riscriverla, usando nei luoghi più drammatici una retorica che poggia su altre grandi scritture: qui il Manzoni del Cinque Maggio e i ricordi di Napoleone sconfitto e morente (Gorni 1995: 169). Ma più ancora forse il Boccaccio funebre e sublime della descrizione della peste, evocato sia dal polisindeto, «non essendo serviti atati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano», « fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, avvenne pure una volta», (14) sia dall’immagine – introdotta ancora da un’anafora insistente – dell’ultimo cibo mangiato:

O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri, per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenaron con li lor passati! (Boccaccio 1987: 28)

L’anima, dunque, si governa per alfabeti: quella dei soldati in guerra, ma anche quella dello scrittore, e anche quella del mondo. La scrittura che ricostruisce e modifica l’accaduto è solo possibile per Gadda perché la realtà è già scritta per alfabeti, e richiede di essere interpretata e percorsa con la giusta grammatica. In una pagina del Cahier d’études l’apprendista scrittore notava: «Ci duole di ritornare sulle nostre righe, ma anche la conoscenza ritorna sulle sue; sulle sue ritorna la Vita: e noi siamo loro diligenti notaî» (Racconto, SVP 457). Notai diligenti, ma con in cambio qualche libertà di interpolare e di riscrivere, esorcizzando il dolore individuale e la tragedia universale in un’alta e sapiente retorica della scrittura.

Universität Basel

Note

1. Castello, RR I 135. L’epigrafe è tratta dal saggio Meditazione breve circa il dire e il fare, SGF I 453.

2. Si veda anche Guglielminetti 1996: 127-39.

3. Cfr. nella stessa lettera (Gadda 1983c: 67): «Credevo, nella confusione della mia memoria, di aver notato solo degli avvenimenti bellici: e, in prigionia, i nomi dei compagni. Non ricordavo neppure la 3a parte, lo Heimkehr e la vita in famiglia».

4. Cfr. SGF I 746: «un diario è fatto così, non c’è modo di integrare, non c’è tempo di elucubrare».

5. Cfr. lettera 216 a Papini, del 18.7.1918, in G. Ungaretti, Lettere a Giovanni Papini 1915-1948, a cura di M.A. Terzoli, Introduzione di L. Piccioni (Milano: Mondadori, 1988), 214.

6. Un primo catalogo in appendice a Gorni 1995: 176-78. Su Gadda soldato si vedano le suggestive pagine di Roscioni 1997: 120-68, nonché l’utilissimo Ungarelli 1994a. Di A. Cortellessa si raccomanda Cortellessa 1995: 116-36 & 2001d: 193-205.

7. Gadda 1993a. Da qui cito i testi e dall’Introduzione ricavo le osservazioni relative alle poesie.

8. G. Ungaretti, Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni (Milano: Mondadori, 1969), 41.

9. SGF II 750. Cfr. anche: «ho perso sul Krasji il mio prezioso diario del 1917; perdere anche questo mi sarebbe un grave dolore» (761).

10. RR I 34; mio il corsivo qui e nella cit. precedente. In Castello, ancora ai muli è messa in bocca la celebre frase di Amatore Sciesa diretto al patibolo: «carovane di muli con batuffoli bianchi sopra gli orecchi, latrati orridi dentro il pelo degli orecchi; “tiremm innanz!” pareva dicessero, povere, care bestie!» (RR I 148).

11. Dal castello di Udine, RR I 149. Sul ponte distrutto, si vedano le parole disperate del Memoriale, SGF II 738.

12. Milano: Fratelli Treves, 1922. Per l’influenza di questo libro sulla scrittura di Gadda, Terzoli 1993b: passim.

13. Per il riscontro cfr. Gadda 1987a: 290-91.

14. G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca (Torino: Einaudi, 1987), 25.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-05-1

© 2003-2024 Maria Antonietta Terzoli & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 3, EJGS 3/2003. An earlier version of this essay was published in Paragone. Letteratura, a. LIV, third series, nos. 45-46-47 (636-638-640) (February-June 2003): 98-120.

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