![]() |
Il congedo del superuomo *
Giuseppe Papponetti
Le parole sacre, vedute le labbra dell’autore, ne rifuggono. Le cose sacre, veduto il cuore dell’autore, vi si fermano.
Primo libro delle Favole, SGF II 21)
… un desiderio bloccato dalle censure epidiche e incapace di svilupparsi e manifestarsi se non nella forma, inconscia, di impulso distruttivo (Gioanola 1977: 225):
è la cifra più chiara per intendere una personalità complessa che, a volerla penetrare, offre esempio sconcertante di contraddittoria bipolarità; da una parte l’ordine, il rigore, il rispetto dei valori tradizionali, il perbenismo borghese; dall’altra impetuosa irruenza, dissacratoria e blasfema violenza, scompaginamento provocatorio di tutto ciò che appare codificato: e questo sia a livello di comportamento (1) che, più esemplarmente, di operazione di scrittura troppo sbrigativamente definita e liquidata dalla etichetta di barocco. (2) Certo, al di là di autodifese o distinguo, non è che Gadda non contribuisse in proprio ad assecondare facili convincimenti o infiocchettate definizioni, tanto comode quanto poco efficaci, in una serie di puntualizzazioni ed interventi sul problema della lingua autonomamente fruibili come veri e propri esercizi di stile, sistematicamente innervati da ironiche pointes coagulate d’improvviso in brusche cadute di cursus. (3) E già dal primo proporsi all’attenzione di un più vasto pubblico, in quella pagina straordinaria di compiuto virtuosismo espressivo che è Tendo al mio fine, il sarcasmo che anima la sostenuta deminutio antiaulica, se ostenta a chiare lettere il rifiuto del poeta vate e del tradizionale dettato retorico, esplicita al contempo una padronanza assoluta dei canonici registri di scrittura, sì da fissarsi infine come una specialissima retorica antipoetica e/o comica che pone difficili quesiti riguardo la genesi, la definizione e il successivo percorso:
Coglierò ghirlande di rose e sentirò mùsiche di dolcissimi pifferi: e farò veder su nave grandissimi commodori e armirati, e corbe di bròccoli: e tutto saravvi: pomposi funebri, orazioni bellissime, atti inimitabili, suspir, làcrime, intenerimenti e indurimenti alterni: e se qualche mal odore torcerà lo stomaco a qualcheduno delli eroi, manderemo per sali ed aromi, da corroborarlo.
Conterò sogni e chimère, come, sospinta dal vèspero, si deforma la rosea nube del cielo: e conterò li sputi e catarri de’ cittadini nostri e saranno per avventura passato trenta nel quadro d’un piede. Discriverò architetture, colonne e finestre e talora sospingerò l’ardire mio e la fantasiosa vena infino a imaginare che le serrande chiudino e le maniglie servino a chiudere. (RR I 121)
Che Carlo Emilio Gadda non amasse il Foscolo è ormai di dominio comune, vista la notorietà del pamphlet (4) dedicato al «vispo Nicoletto», i cui «endecasillabi gocciolati dai lavacri delle Càriti» si risolvevano in accesso «trubadorico – mandrillo»; (5) mi sembra, però, che la critica, pur agguerrita, si sia finora limitata a registrare una epidermica idiosincrasia, senza chiedersi o ricercarne più opportunamente ragioni e motivazioni profonde. (6) E non la ritengo trascuranza di poco peso se si tien conto che, per l’attacco al Foscolo, Gadda fu costretto non solo a documentarsi, ma addirittura a far violenza al proprio giudizio:
sento di non poter mancare di rispetto al Poeta, all’Erudito, all’uomo; (7)
La rilettura di assai pagine del Foscolo, la costante simpatia dedicatagli da molti critici […] mi fanno dubitare della possibilità teoretica e pratica di dirne male, sia pure en passant. (Gadda 1977b: 395)
D’altro canto, affermazioni quali:
Un pigmeo come me non può parlar male del capobanda del villaggio, che sbatte i piatti (Gadda 1977b: 395)
fanno ancora riflettere sull’esistenza di cause reali, unite a spontanee insorgenze, che finirono poi per produrre la più acre e feroce scrittura antifoscoliana della nostra storia delle lettere.
Vero è che Gadda volle tentare, con successo, una liberazione attraverso la scrittura: di allontanare e rimuovere da sé, in maniera definitiva, il vero fantasma letterario e demone culturale del suo percorso di uomo e di artista, Gabriele d’Annunzio; operazione, questa, già messa in atto nelle pieghe del suo miglior romanzo (La cognizione del dolore, di cui mi occuperò più avanti), ma non riuscita appieno proprio perché in quelle pagine maggiormente premeva l’urgenza di esorcizzare altri fantasmi, incubi mai totalmente estromessi dalla coscienza gaddiana: la villa paterna in Brianza (la «fottuta villa di Longone», secondo la ben nota ed aspra definizione), (8) la figura materna. (9) è Foscolo, quindi, l’autore finalmente deputato a metafora/catarsi di un dannunzianesimo (10) di cui tenterò ripercorrere le tappe salienti. Ma si può fin d’ora anticipare che, in un ideale percorso parallelo, mentre d’Annunzio seppe presto liberarsi dei suoi scrupoli (se mai ne ebbe) ed assumere una misura camaleontica («la mia anima visse | come diecimila»), (11) Gadda, «il convoluto Eraclito di via San Simpliciano», (12) secondo amò definirsi, non seppe e non poté farlo: ché lo coartavano i principi inculcatigli dalla «famiglia padreterna»; di qui i turbamenti ossessivi e le manie, sfociate necessariamente in nevrosi. (13)
Da quel che mi è dato ricostruire, gli esordi gaddiani conducono ad una tentata dimensione di lirico alla quale non dovette essere estranea la formazione liceale se, ancora in età avanzata, si vantava di conoscere a memoria i Carmina di Orazio, (14) un poeta cioè dal forte temperamento civile, il prototipo più illustre del poeta vate che, per l’incidenza avuta nella linea Carducci-d’Annunzio, serve a spiegare con chiarezza come la cultura di Gadda si formasse in sintonia con quella della Nuova Italia, e come la personalità del nostro – lo vedremo – avesse fortemente a risentire, proprio tramite l’esperienza della prima guerra mondiale, del fallimento dei miti risorgimentali, cui lo portarono inizialmente ad aderire la collocazione sociale e familiare nell’ambito delle idee della destra storica (A. Guglielmi 1963: 1051). Di tali esordi poetici – a meno che il fondo Gadda non riservi ulteriori, diverse sorprese – risulta punto fermo una lirica del 26 febbraio 1915, particolarmente interessante per il mio assunto. (15)
Dedicata ad una sorta di genio personale, il divino ed umano Ariel, rivela sì immediatamente l’ascendente ed il culto shakespeariano della musa gaddiana, (16) ma chiama in causa in maniera inequivocabile d’Annunzio; infatti, se il leggiadro spirito dell’aria che aspira alla libertà si identifica con la gioia della natura deriva da The Tempest, (17) Ariel fu pure il nome con cui d’Annunzio amò firmarsi – anche per l’omofonia con Gabriel – nell’epistolario a Barbarella Leoni, a cominciare dal 1889. (18) Ancora, nei versi gaddiani è esplicita la misura withmaniana, seppure in funzione meramente esterna: e non è un mistero che, a partire dal 1892, d’Annunzio fosse fortemente suggestionato dal modello di Leaves of Grass, sì da arricchirne la propria produzione in palesi imprestiti lessicali e in alcuni richiami metrici, come dato riscontrare nelle Odi navali. (19) Ma ciò non sarebbe comunque sufficiente a comprovare un effettivo rapporto Gadda-d’Annunzio se non fosse il contesto della poesia a darne sicura riprova.
Poco dopo l’esordio dimesso e cadenzato («O mio buon genio, divino ed umano, aereo Ariel»), immagini e linguaggio, seppur amplificati nel ritmo lungo del verso, e chiaramente demandati a funzione ironica, assumono marcata connotazione dannunziana, sulla scorta della Laus vitae:
e ti chiedo che il mio cuore sia franco
Che sia duro il polso e il bicipite, e guizzante la mano
se non addirittura di Alcyone, almeno riguardo l’oscillazione di gruppi di parole in chiave squisitamente ritmica:
Fà che mi piaccia il discutere a lungo, con animazione,
Su quello che ci vorrebbe e che nessuno vuole,
Su quello che bisognerebbe fare e che nessuno fa,
Su quello che vorrebbero dare e che nessuno dà
[…]
Fà ch’io impazzisca di furibondo e divino entusiasmo […] al sentire i discorsi de’ miei concittadini,
Fà ch’io mi crògioli nel brodo di lasagne della loro eloquenza come nel bagno d’erbe riccamente aromatiche;
[…]
Allora il mio bicipite potrà fendere il bellissimo flutto senza che il cuore mi tremi di rammarico e di disgusto
[…]
Il tono dissacratorio non tragga, però, in inganno; perché, se la parodia del d’Annunzio lirico della stagione delle Laudi è inconfutabile, è pur vero che si tratta soltanto di un motivo letterario all’epoca molto diffuso e già abbastanza trito, sull’esempio della reazione programmatica condotta dalle Avanguardie storiche, che aveva trovato più efficace e graffiante realizzazione nella poesia di un Gozzano: (20) motivo stanco, quindi, e atteggiamento ormai di maniera, facilmente comprensibile in chi si avviava a muovere i primi passi poetici con la necessità di mostrarsi à la page con la codificata moda del tempo. E non si dimentichi che si era alla vigilia del conflitto mondiale, cioè alle soglie estreme di un evento che rappresentò per Gadda, volontario e interventista, l’esperienza centrale e determinante di tutta l’esistenza; il ritorno di d’Annunzio dalla Francia, il trionfale «maggio radioso» di infiammati discorsi ed entusiastiche accoglienze popolari coinvolsero anche lo studente del Politecnico milanese. (21) Comunque si vogliano giudicare l’ammirazione istintiva per il Poeta soldato e i giovanili fervori militareschi e nazionalistici, (22) resta decisiva una diretta testimonianza gaddiana, più volte riproposta in scritti successivi:
Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. Ho partecipato con sincero animo alle dimostrazioni del ’15, ho urlato Viva D’Annunzio, Morte a Giolitti […] in guerra ho passato alcune delle ore migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblio e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità. (Castello, RR I 142)
Mi sembra ce ne sia abbastanza per non limitarsi a spiegazioni basate su motivi tardorisorgimentali, sul condizionamento esercitato dalle tradizioni liberal-borghesi della famiglia, ma che si possa invece aggiungere un effettivo entusiasmo superomistico, questo sì giovanilmente mutuato dalla Laus vitae (libro su cui, fra l’altro, Gadda diede sempre giudizi positivi). E aggiungerei ancora un’altra testimonianza, certamente più pregnante:
Vigili angosce dominarono la mia guerra, una cieca e vera passione, fatta forse (giudicandola dal punto di vista della raffinatezza italiana) di brutalità, di bestialità, di retorica e di cretinismo: ma fu comunque una disciplina vissuta, la sola degna di esser vissuta. (Castello, RR I 136)
Quindi, un vero e proprio mito della guerra, unica forma e mezzo per affermarsi pienamente nella dignità di uomo; mito che racchiude in sé (come mostra l’incompiuto romanzo La meccanica) altrettanti miti vitalistici della forza, della grandezza, della salute fisica, della gioia di vivere; miti che è troppo riduttivo ricondurre, meno compromissoriamente, alla nostalgia eroica carducciana (Baldi 1972: 59); anche se di certo non la escludono, anzi la amplificano proprio nella matrice dannunziana. E non deve stupire il fatto che, nella formazione gaddiana, tali autori riuscissero a coesistere persino con l’insegnamento del Manzoni; (23) ma la lettura di d’Annunzio, ultima in ordine di tempo, restò più ferma (almeno in quegli anni) proprio perché indissolubilmente legati vi risultavano la risonanza e il messaggio degli avvenimenti vissuti, cifra non solo per la loro interpretazione ma per la misura stessa del conoscere. Infatti, prescindendo dal compiacimento senile per certa aneddotica di guerra del Gadda romano, (24) i due unici riferimenti da me al momento rintracciati fanno vedere come letteratura e vita rappresentassero veramente tutt’uno:
25 settembre 1916 […] in questi giorni avevo da leggere i due articoli del D’Annunzio, pubblicati sul Corriere intitolati: «I morti del mare». Sto leggendo, svogliatamente, il primo volume del Guerra e pace, di Leone Tolstoi […].
Il capitano De Castiglioni è ciò che il D’Annunzio chiamerebbe un Ulisside: (vedi l’incontro della nave d’Ulisse, nel Laus vitae). Il capitano De Castiglioni mi aveva confermato la vittoria di Gorizia, il cospicuo numero d’armi, di prigionieri, di cannoni presi. (Giornale, SGF II 625, 588)
Alla luce di tutto ciò, mi pare che la critica abbia poco insistito su questo tipo di rapporto, e non abbia saputo o soprattutto voluto cogliere l’importanza del modello dannunziano, forse sviata dall’attenzione privilegiata alle risoluzioni stilistiche e macaroniche che anticipavano il Gadda più noto, quello cioè dei grandi romanzi. Ma, a ben vedere, è appunto nei maturi capolavori che si può cogliere il risultato finale, deviato in originale percorso, di una fallita omologazione alla figura splendida del guerriero e del vate dovuta ad una personalissima crisi esistenziale cui di fatto concorsero il crollo dell’ideale militaristico, il mutamento in peggio della società italiana nell’immediato dopoguerra (esemplare è ancora La meccanica, e terribilmente laceranti si propongono molte pagine della Cognizione); ma direi soprattutto la morte del fratello, che finì per rappresentare nella psiche gaddiana il referente di ogni tipo di caduta di valori, il trauma determinante per una lettura totalmente in negativo del reale e del sociale, e non soltanto una dolorosa mancanza nell’ambito degli affetti familiari. (25) Perciò i grandi romanzi offrono parallelamente esempio di una catarsi della scrittura riguardo altri due miti: nella Cognizione, infatti, la figura del fratello avrebbe avuto pietoso congedo, per barlumi, unitamente a quella della vecchia madre, mentre, insieme all’assillante incubo-totem della casa brianzola, sarebbe stato del pari esorcizzato – stavolta tramite acre parodia – il d’Annunzio, lemure aggirantesi senza pace nello stravolgimento comico del Vittoriale, Villa Giuseppina, la casa del malaugurio; nel Pasticciaccio, invece, l’uomo ormai libero ma irrimediabilmente solo con se stesso, Gadda/Ingravallo, scapolo, e filosofo di un’interpretazione del reale come intreccio di concomitanze, «gliuommero», avrebbe dato l’addio anche alle ultime, superstiti parvenze di ciò che doveva/poteva essere, e non era stato, attraverso la morte di Liliana Balducci, moglie ideale ma sposa senza figli.
Pertanto, è quanto mai necessario fornire alcuni elementi a sostegno di un’interpretazione di Gadda come dannunziano mancato, la cui incapacità di assurgere al modello si risolse in incapacità di affrontare e ridurre a propria misura e somiglianza il magma del sociale; in questo senso, il nevrotico ed ossessionato misantropo Gonzalo Pirobutirro d’Eltino era l’unico possibile approdo alla straniata dimensione del superuomo: il fallimento, la diversità, l’alienazione emarginante. Spiace, perciò, rilevare che proprio l’evidenza in tale personaggio di una natura egocentrica fortemente esclusiva sia stata artatamente ricondotta ad archetipi classici, trascurando invece la palmare genesi e filiazione dannunziana; (26) di conseguenza, parlare di un Gadda che detestava tanto in d’Annunzio il cliché del poeta vate e veggente, ma lo ammetteva a denti stretti (Ferrero 1972: 34) non ha senso qualora si prescinda dall’ottica appena accennata.
io non sono e non sarò mai un poeta laureatus: del resto, mi scampi Dio da tutte le lauree, salvo che dal mio brevetto di ingegnere (Giornale, SGF II 806)
è una breve annotazione risalente al periodo della prigionia e sembrerebbe suonare come sentenza definitiva. Ma più chiaramente lo scrittore si espresse poco più tardi, una volta tornato alla vita civile, in una pagina di nitida analisi dei propri problemi esistenziali:
sento che i più cari legami si dissolvono, che il maledetto destino vuol divellermi dalle pure origini della mia anima e privarmi delle mie forze più pure, per fare di me un uomo comune, volgare, rozzo, bestiale, borghese, traditore di se stesso, italiano, «adatto all’ambiente». Tutto ha congiurato contro la mia grandezza, e prima d’ogni cosa il mio animo, debole, docile, facile ad essere preso dalle ragioni altrui; poiché in tutti, anche nei miserabili, v’è un po’ di ragione, o almeno la logica della realtà. Se la realtà avesse avuto minor forza sopra di me, oppure se la realtà fosse di quelle che consentono la grandezza, (Roma, Germania), io sarei un uomo che vale qualcosa. Ma la realtà di questi anni, salvo alcune fiamme generose e fugaci, è merdosa: e in essa mi sento immedesimare ed annegare. (Giornale, SGF II 863, miei corsivi)
Chi parlava così non era certo un Andrea Sperelli («Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita di un uomo d’intelletto sia opera di lui», d’Annunzio 1968: I, 37), né tantomeno il suo alter ego Stelio Effrena («Io assisteva in me medesimo alla continua genesi d’una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio»), (27) ma ne presupponeva il modello, facendosi colpa della personale impotenza a realizzarlo. Infatti, la pagina gaddiana continua più violenta:
Quando imparerò il disprezzo degli altri? Quando avrò per me quella meravigliosa forza d’istinto che consiste nel sentire, dell’uomo che ci sta presso, la rivalità, non l’affinità? Io sento la simpatia e l’affinità, guardo con occhio amico ogni porco che passa. (Giornale, SGF II 863)
E qui, ancora, sarei portato a vedere il confronto, coscientemente negativo, con espliciti esiti dannunziani della Laus vitae, con una delle sequenze più sprezzanti e paradigmatiche di tutto il libro:
E una volontà risplendente
«Taci» gridò «taci bestia
da macello e da soma!
Porta su le tue schiene il peso
di colui che ti doma
e poi senza gemito spira
sotto il coltello tagliente.
Silenzio! Silenzio! Sol degno
è che parli innanzi alla notte
chi sforza il Mondo
a esistere e magnificato
l’afferma nelle sue lotte
e l’esalta su la sua lira.
Taci tu, cosa da mercato,
ingombro gemebondo!»
E ogni lagno si tacque,
ogni vil bocca ebbe il bavaglio. (28)
Ma la rinuncia non fu che temporanea: cadute prematuramente le speranze di una piena realizzazione nel lavoro, l’ingegnere accantonò definitivamente le velleità poetiche ma continuava caparbiamente a cercare se stesso nella misura del romanzo, senza peraltro perdere di vista d’Annunzio. Del che abbiamo sicura conferma: il Comandante, ormai prigioniero nella gabbia dorata del Vittoriale, aveva smesso i panni militari e, sulla scorta di lontane suggestioni mistiche, preferiva quelli più dimessi del poverello d’Assisi, colto da una sorta di raptus francescano (29) e Gadda puntualmente annotava ed ironizzava sul «vecchio porcone D’Annunzio» che «si traveste da Santo Francesco»; eppure si affrettava ad aggiungere:
Ma la personalità del D’Annunzio è più complessa di quel che non paia e forse più ingenua e perciò più nobile di quel che non paia. E allora bisogna andar cauti nei giudizî. (30)
è una nota del progettato Racconto italiano di ignoto del novecento, abbozzo di romanzo iniziato a scrivere nel 1924 e che vive ancora di impianti e tensioni dannunziani: (31) tant’è che il protagonista, Grifonetto Lampugnani, avrebbe dovuto concludere la sua vicenda superomisticamente, con un assassinio per amore, dopo averla tragicamente vissuta nel conflitto tra la sua anima forte e l’ambiente sociale. (32) Anche la nuova struttura letteraria sembrava però impossibilitata ad assecondare le istanze di una volontà attiva di esistere ed affermarsi; ce lo testimonia un nuovo tentativo – altro romanzo incompiuto, il già ricordato La meccanica –, dove fra le pieghe del racconto spunta l’ennesimo riferimento:
l’immagine femminea di Zoraide risfolgorava per meravigliosi romanzi: un dannunziano in ritardo ne avrebbe cavato seduta stante uno sproloquio di capolavoro. (RR II 471)
Chi vuol essere, dunque, l’ipotetico dannunziano in ritardo se non lo stesso Gadda che, in un contemporaneo saggio filosofico, Meditazione milanese, ci offre il modo non solo di verificare quali fossero all’epoca le sue idee riguardo d’Annunzio, ma anche di cogliere con esattezza la capillare frequentazione di lettura con la produzione delle Laudi? Al fittizio critico e interlocutore che gli rimproverava appunto il suo dannunzianesimo –
In complesso gabellate come vostra filosofia del Nietzschanesimo e del Dannunzianesimo rancido. Ricordate il primo verso di «Maia»: «Gloria al latin che disse: “Navigare è necessario, non è necessario vivere”» e la inscrizione o sigla d’annunziana delle laudi, e tutto il libro dell’«Elettra», che conoscete quasi per intero a memoria – (SVP 697, miei corsivi)
l’autore risponde con decisione ed incisiva lucidità di giudizio, teso concretamente a riscattare dal dannunzianesimo la figura eroica e la dimensione del combattente quale coerente svolgimento della poesia dell’Ulisside e dell’impegno civile:
è merito certo del poeta questo suo anelito verso la potenza e il lavoro, e la gloria e la navigazione, questo sdegno del poltrire e del permanere. Il suo motto di altri anni più tardi è «per non dormire» (33) – e sebbene nella sua vita, come fan tutti del resto, sia stato molto indulgente verso sé stesso: e abbia, come pochi sanno, saputo ben pettinare e ravviare e ungere ancora di poetici balsami l’arruffata chioma delle sue diverse marachelle, giustizia gli va resa quanto allo spirito eroico. Giustizia al fante del Veliki Hrib e del Faiti Hrib.
E neppure – poco più tardi –, infittitisi i rapporti con Solaria e con la cerchia degli amici fiorentini, animatori di tale rivista nonché autori di una ben caratterizzata svolta nella cultura italiana degli anni Trenta, avrebbe saputo completamente affrancarsi dal magistero dannunziano. Sono lì a documentario le pagine del libro che gli dette vera fama di scrittore, Il castello di Udine:
«Voglio un’altra avventura», disse l’anima […] «Voglio un’avventura mediterranea! Troppo abbiamo negletto la culla della civiltà! Voglio Eschilo, voglio Nausicaa, voglio le Sirti, voglio Scilla, voglio Cariddi, voglio i venti Sicani, voglio l’Imetto, voglio l’Eretteo!»; (RR I 182)
come si possono non avvertire, di primo acchito, il ritmo, il tono, lo slancio medesimo della Laus vitae, l’anelito ad un viaggio che permettesse allo scrittore e all’uomo di recuperare le radici e le origini della propria anima così da sentirsi finalmente realizzato e pacificato? Fu uno degli ultimi conati –
Inseguito dalla crisi, (quando è cominciata? quando cambierà nome?), il mio spirito venturoso è pur sempre in cammino … –
prima della definitiva scelta o resa, dell’atroce convincimento del male invisibile. Ma era il tempo, ormai, della Cognizione, della più spietata e lucida autoanalisi del nostro Novecento letterario, dell’esplorazione delle turbe psichiche condotta fino in fondo, alla scoperta della verità inconfessabile.
Avanti, però, di fermarsi su questo testo, è opportuno rilevare come proprio nell’anno della pubblicazione su Letteratura del primo tratto del nuovo romanzo (1938), Gadda cogliesse occasione per ridefinire il rapporto con d’Annunzio, di attuarne il distacco non senza averne salutato l’uscita dal mondo con pagine di compostezza esemplare e di dignitoso tributo alla memoria. Mi riferisco allo scritto recensorio della biografia dannunziana dell’Antongini (34) che era stata accolta poco benevolmente dalla critica, e segnatamente da C. Alvaro ed E. Falqui: un’occasione che Gadda non volle mancare, una sorta di necessario, pacificato sgravio di coscienza ma anche di pubblico onore delle armi al modello inarrivato e inarrivabile. (35)
L’aviatore del Carso, il trasvolatore di Vienna, il liberatore di Fiume, il poeta delle Laudi non mendicherà la nostra ben dosata reticenza. Perché avere tanta paura, noi, per Lui, che mai non ne ebbe? […] Gabriele D’Annunzio è vissuto. Pacate registrazioni biografiche non possono offenderlo, né offendere alcuno. Certo è che né Lui né alcuno, e nemmeno l’amor di patria, deve essere adoperato a modello di falsità. Egli rifiuta il titolo del novissimo feudo, quello di una inesistente (nel caso suo) «beauté de l’âme». Egli è D’Annunzio, non è Cartesio, non Pascal. (36)
Per certi versi, questo tributo di stima chiudeva veramente i conti, a tal punto che mai Gadda, quando in seguito si ritrovò a parlare degli autori amati o imitati, fece più il nome di d’Annunzio: Dante, Boccaccio, Ariosto, Cervantes, Shakespeare, persino Salgari; mai il poeta delle Laudi. (37) Soprattutto, però, il Cervantes, ultimo arrivato ma determinante per il tratto chisciottesco di Gonzalo, per il picaresco, per il travestimento spagnolesco del paesaggio e dell’ambiente della Cognizione.
Nella Brianza camuffata da Sudamerica, nel mondo strapaesano di Lukones, la spocchia borghese e lo status dei nuovi arrivati hanno bisogno di sentirsi realizzati e mostrarsi in concreto nella villa; appunto il tema ossessivo della dimora paterna, della «fottuta casa», ha una sua grottesca anticipazione nelle prime battute del libro, chiamando in causa abbastanza scopertamente d’Annunzio, il Vittoriale e Garibaldi. In poche pagine, dunque, si ritaglia una breve vicenda che non interessa soltanto nella sua tessera autonoma di colore locale, di segmento storico – culturale del milieu lombardo – creolo fantasticamente ricostruito. (38) Protagonista è un poeta appena morto, il Vate, il cantore nazionale dei valori e dell’epopea risorgimentale:
in quel giorno si celebravano a Terepàttola le esequie di Carlos Caçoncellos [sic!], il grande epico maradagalese che era venuto a mancare due giorni prima, piombando nella costernazione il mondo letterario;
Carlos Caçoncellos […] fu l’aedo della Reconquista […] il cantore di gesta del ciclo maradagalese del libertador?; (RR I 588-89)
sono evidenti, quindi, accanto alla scoperta deminutio ironica implicita nel nome, la considerazione ed il privilegio accordati ad un aspetto ben individuato e precipuo della produzione dannunziana, quella del libro di Elettra, in cui di fatto risalta epicamente la figura di Garibaldi e meglio che altrove la componente tribunizia del poeta abruzzese. (39) Di tale liaison, autorizzata dallo stesso d’Annunzio soprattutto alla luce della strumentalizzazione propagandistica cui egli aveva sottoposto l’immagine dell’eroe (basti pensare all’Orazione per la sagra dei Mille, pronunciata dallo scoglio di Quarto il 5 maggio del 1915, appena pochi giorni prima che l’Italia entrasse in guerra), Gadda si serve unilateralmente: infatti, per il «libertador, il generale Juan Muceno Pastrufacio» che «batté gli “antichi” conquistadores», (RR I 589) ci sono sempre parole e termini di apprezzamento e calda stima; (40) per d’Annunzio/Caçoncellos, invece, un progressivo sarcasmo, legato al suo declino senile nel Vittoriale («Villa Giuseppina»), ridotto in compagnia di una serva (Giuseppina anch’essa ) (41) a coltivarsi l’orticello:
Da alcuni anni il Vegliardo aveva in affitto la villa, dove soleva trascorrere la maggior parte dell’estate […] educando rose e amaranti, e pomidoro (42) […] ma rifiutandosi di adibir cure al pollaio […] i cui coccodé lo avrebbero sicuramente incomodato nella elimazione de’ suoi dodecasillabi eroici e di alcuni tetrametri giambici. (RR I 589)
Occorre intanto puntualizzare che il doppio onomastico, serva/villa, oltre che adibirsi a sottolineatura comico/parodica, rapprende e concentra in un preciso obiettivo la sinfonia omofonica della corale theoria di personaggi femminili del romanzo: Giuseppa, Giuseppina, Peppa, Beppa, Peppina, Pina, Pinina (e, ironia del caso?, Giuseppina si sarebbe poi chiamata la governante del Gadda romano); se consideriamo il ritorno del medesimo nome in più enunciazioni per la figlia del dottor Higueroa (Pepa, Pepita, Giuseppina), cioè dell’amazzone al volante (sic!), moderna Luigia Palla che allusivamente si propone a minaccia del rabbioso celibato di Gonzalo, (43) il quadro assume certo miglior profondità e spessore: ché l’idea-villa, altrove solo parodiata come status symbol economico («Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi; di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi», RR I 584) e letterario («Niente Capponcina» avrà a dire di sé Gadda in un icastico curriculum vitae), (44) viene qui ripresa e fornita in un’ottica di tutela del mondo degli affetti, di tempio cui sono preposte solo stravolte e gelose officianti (la serva per Caçoncellos, la madre per Gonzalo). E questo nella metafora di un referente immediato a carenza e ripulsa di un ricostituendo nucleo familiare, comunque traumaticamente avvertito dal protagonista, del pari proiettato come violazione del privato anche nella sfera del personaggio parodiato: infatti, per chi aveva tenacemente rifiutato il matrimonio ed una nuova famiglia, (45) nella volontà di conservar gelosamente ed esclusivamente le reliquie dolorose della memoria e i martoriati lacerti del già vissuto, c’è solo rabbia inane («…. Dentro, io, nella mia casa, con mia madre: e tutti i Giuseppi e le Battistine e le Pi…. le Peppe…. Via, via! fuori…. fuori tutti! Questa è, e deve essere, la mia casa…. nel mio silenzio…. la mia povera casa….», RR I 639) e terrificante Cognizione nell’incubo (Gonzalo ucciderà la madre; Gadda venderà la villa); d’altronde, per il poeta Carlos (sic!) la morte non sarà porto di quiete ma squallida assenza e impotente condizione di fronte alle profanazioni della casa, della sua memoria civile.
Morto, dunque, Caçoncellos, comincia nella villa il suo culto ed inizia parimenti la sequenza misteriosa dei furti delle sacre reliquie:
l’idolatria del pubblico per l’Estinto (di cui si diceva avesse scritto da dugento mila dodecasillabi, e ventitre mila tetrametri giambici) vietava […] di «rimuovere anche soltanto uno spillo» […] dal come lui stesso l’Estinto li aveva lasciati […] ed ecco però che nel frattempo erano venuti a mancare misteriosamente le ciabatte, una pera di gomma, e lo spazzolino da denti (46) […] di certo involati da un qualche ammiratore e fanatico raccoglitore di cimeli […]. Il che, dalla stampa de izquierda, fu subito recato a colpa della «ignavia borghese dei proprietari» e della loro «ottusità mercantile nel confronto dei più alti valori dello spirito». D’altro lato i giornali repubblicani menavano già una campagna di quelle, perché la Giuseppina avesse a divenire il sacrario del Poeta, e delle sue memorie; e vi fossero adunati tutti i suoi cimeli, fra cui la lenza, e, quel che più conta, i suoi manoscritti, di cui s’erano pubblicati una cinquantina di volumi; ma la gran parte giacevano inediti presso le varie case editoriali del Maradagàl, che stentavano, dicono (e stentano ancor oggi), a trovar loro uno sbocco sul mercato librario. (RR I 590)
Era il congedo più esplicito, un prendere le distanze dal Poeta in maniera irreversibile, dopo aver a lungo covato e ansiosamente vissuto la speranza di emularlo, ma soprattutto la definitiva condanna della nuova società, dei nuovi miti insorgenti: un sentire d’Annunzio ormai fuori del tempo, e irrimediabilmente tramontati gli ideali eroici che aveva comunque saputo suscitare; un vederlo contestato ovvero mistificato e piegato grossolanamente a dimensioni del Fascismo, solo parzialmente superstite a dar patina e lustro di raffinatezza al nuovo potere; ed era, quindi, anche il personalissimo congedo di Gadda dal suo tempo, da una società in cui non si riconosceva – da cui, anzi, si sentiva espunto –; era pertanto il lucido avviarsi all’isolamento, alla profonda scollatura con la repubblica delle lettere che non avrebbe mai più saputo ricomporre, neppure negli anni del successo. (47) Valgano, perciò, le amare riflessioni di Gonzalo come testimonianza diretta di un rammarico gaddiano per la mancata simbiosi col vasto pubblico – intesa, naturalmente, non come aspirazione all’aureola fulgente della fama letteraria, bensì come sostanziale verifica di un mutamento in meglio della società, pronta a riconoscere non solo l’utilità, ma la vitale necessità della presenza dello scrittore nel proprio tessuto connettivo:
Così solo a leggere: o peggio ancora, a scrivere! Ma cosa diavolo legge, poi! cosa scrive?…. Le sue memorie?…. Ma quelle aspetti un po’ a scriverle quando avrà novant’anni! […]
Fantasticava che la patria maradagalese lo incuorasse a perfezionare quel suo scarabocchio di romanzo:
e te molesta incita
di poner fine al Giorno
per cui, cercato, a lo stranier ti addita.
Ma sapeva benissimo che se ne fregavano tutti, nel modo più completo, e che il romanzo, legato a dei personaggi veri e a un ambiente vero, era stupido quanto i personaggi e l’ambiente. Stai fino! C’era altro da fare e a cui pensare, nel Maradagàl e in tutto il Sudamerica a quei lumi di luna. (RR I 623, 731) (48)
Le successive metafore della Cognizione (il Vate che riappare, malaugurante fantasma, a terrorizzare i polli che non ci sono più, ad aggirarsi per la Villa «senza però toccare né favellare alcunché», RR I 592) non sono altro che il correlativo di un fallimento della poesia, e del poeta per antonomasia, nei suoi scopi ed impegni primari: lo stimolo e la guida corretta e illuminata al sentire e all’agire civile della nazione. Al proposito, ci soccorrono di nuovo le riflessioni dell’hidalgo:
Caçoncellos […] diceva che Vergilio è un coglione: perché Palinuro è una bugia, e i ludi navali una retorica da leccapiatti […] Mentre i suoi dimetri terepattolesi erano il mistero, il domani!…. Io ho dato espressione immortale ai più moderni ideali del mio popolo! Io sono disceso in fondo alle anime.… sì…. a Villa Giuseppina! […] dacquava i fiori con un annaffiatoio buco, che glie ne pisciava metà sulle scarpe. (RR I 637)
Una volta approdato a tali posizioni, resta pochissimo nel percorso gaddiano da poter ricondurre all’assunto dannunziano – ove si escluda beninteso il sarcastico proporsi del pretesto foscoliano cui accennai all’esordio; di fatto, era ormai un cammino in tutti i sensi diverso, segnato da amarezza, da sfiducia integrale e da negativa coscienza dell’impossibilità all’uomo di dar ordine, anche e soprattutto conoscitivo, alle cose: c’era stata l’assunzione del pasticcio, definita disgregazione del reale rappresentabile solo come groviglio, riproponibile in arte soltanto col ricercare la confusione delle lingue o dipanando la concomitanza/coesistenza di molteplici ed infinite espressività lessicali. Certo, brevi relitti dell’antico rapporto sarebbero affiorati di tanto in tanto, sterili frutti di sbiadita attenzione, superstiti residui d’abitudine, nel bene e nel male; e si potrebbe citare un giudizio fortemente negativo sul Fuoco, espresso alla fine degli anni Cinquanta, che finisce per coinvolgere gran parte dei personaggi di romanzo o di teatro della creatività dannunziana:
Direi che in D’Annunzio è assai alta la percentuale dei personaggi vuoti, inespressi: dei fatti e delle notazioni insignificanti. Gli stessi protagonisti, nel romanzo e nel dramma, sono talora più vicini al pupazzo che all’eroe […]. Molti dei pupazzi dannunziani rompono quello che si potrebbe definire il pomposo silenzio della pagina, o della riga, col solo suono del loro nome: lasciandosi chiamare o citare in scene dai fasullissimi colleghi o dallo stesso corègo. La onomastica del D’Annunzio (Donatella Arvale, Stelio Effrena) è altrettanto fatua della onomastica ellenica del Foscolo: tira ad affumare in d’ôna quai manera il candore della pagina, il vuoto torricelliano della scena. (La battaglia dei topi e delle rane, SGF I 1175)
Dove Gadda sembra dimenticare, per un attimo, che personaggi delle sue Novelle s’erano pur chiamati Elena e Violante (Una buona nutrizione), Elettra (Socer generque) o come la Carla (sic!) di Prima divisione nella notte:
fece partire dalla finestra aperta sul viale […] due delle migliori tragedie del Poeta. «Più che l’amore» e «La Gloria». (Prima divisione, RR II 883)
Inoltre, l’omaggio all’autore delle Faville, prima ancora di finir relegato discretamente nella postfazione esplicitativa del titolo e delle ragioni di quell’aggregato di piccole gemme della scrittura quale risulta essere Il primo libro delle Favole, (49) era stato offerto più evidente nel gioco della cifra, nello pseudonimo di Aligi da Ca’ de l’Ormo in cui l’autore si era narcissicamente celato: (50) che non è altro, infatti, se non l’anagramma di Carlo Emilio Gadda, più tardi espunto e, nell’ambito della rimozione dannunziana, sostituito in altri scritti dal più noto, oggi, Alì Oco de Madrigal – nato probabilmente dal perdurare delle suggestioni spagnolesche della Cognizione. (51) Comunque sia, è ben magro bilancio.
Ciò che invece resta è un supremo atto di onestà intellettuale e di rigore morale, in verità molto alto se si consideri che è racchiuso fra le pieghe di un feroce libello; nell’opera, cioè, in cui più manifestamente Gadda volle uscire allo scoperto, furiosamente, in Eros e Priapo:
Presidente del Centro Ovidiano di Studi e Ricerche, SulmonaDe Madrigal ama la su’ patria fino ad ammalarsi di dolore e di bile: non è idolatra […] né della patria, né del poppolo, né di alcun cittadino in particolare (e. gratia non dei Giuseppi, non di Gabriele): pur notando nel popolo e le qualità buone e le abilità di mestiere e le sofferenze grandi e talora (non raramente) la dignità e generosità del carattere, e pur avendo forti simpatie istintive per la gente e per il linguaggio del popolo (vecchi operai, stradini col badile a mano, spazzini pubblici, vecchi cocchieri o marinai, contrabbandieri comaschi: ortolane, pescivendole, ostesse, lavandaie milanesi, mondarisi di Lomellina, spigolatrici e vendemmiatrici del Chianti, ecc.): pur riconoscendo al singulo (p.e. ai singuli Giuseppi, a Gabriele) meriti grandi o grandissimi, con fraterno o filiale e vero e commosso affetto. (52)
Direttore dell’Istituto Nazionale di Studi Dannunziani, Pescara
![]() |
![]() |
Note
* Lascio qui totalmente inalterato l’impianto originario del saggio, che mi permetto di ritenere provocatoriamente anticipatore di un percorso degli studi gaddiani poi meglio chiaritosi nella sua decisiva importanza. Fermo restando il mio convincimento della sua immutata sostanziale validità, vanno segnalati i più importanti contributi che si sono susseguiti sull’argomento, aggiungendo tasselli e profondità al già definito mosaico generale: Zollino 1992: 635-45; Zollino 1993: 119-25: Zollino 1998a; Turolo 1995: 90-95; Rinaldi 1996b: 57-95; Italia 1996: 34-46; Italia 1998: xlviii-lxiii.
1. «Il telefono non era uno strumento del quale Gadda si servisse volentieri: lo infastidiva lo squillo (“Maledetto! Maledetto!”), si impazientiva in attesa del “pronto” (“Dove siete? Al cesso?”; “Rispondi, rispondi, anima della merda!”) e anche il doversi ricomporre era un nuovo trauma: “Scusami se ti telefono a quest’ora. Prima di tutto i miei auguri che metterò per iscritto, per doveroso ossequio”» (Cattaneo 1973: 11 sgg.).
2. La risposta dello scrittore fu una stravagante variazione sul tema: «un violoncello è uno strumento barocco; un contrabbasso, meglio che andar di notte; un fémore, coi relativi condili, è un osso barocco; idem un bacino […] i fagioli, le zucche, i cocomeri oblunghi sono altrettante scorribande, verso il barocco, della entelechia delle zucche e dei cocomeri quali natura tuttavia li elàbora» (L’Editore chiede venia, RR I 760).
3. Cito, a soccorso, un esempio: «Nella lindura e nella splendidezza della monolingua immortale vivono eternamente lindi, eternamente splendidi, i poeti monolinguistici del severo Ottocento, quali il Foscolo, il Manzoni stesso, il Carducci: a lasciar d’altri millanta. Nel loro dettato poetico “no l’è fregol de peciàt”» (La battaglia dei topi e delle rane, SGF I 1164).
4. Fu Anna Banti, nel 1958, a chiedere a Gadda una «bizza» sul Poeta per la rivista Paragone: uscì nel n. 116 (agosto 1959), col titolo Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo; rappresentata per la prima volta a Roma dalla Compagnia del Porcospino, nel teatrino di via Belsiana, il 16 febbraio, fu edita da Garzanti in aprile.
5. Cfr., nell’ordine, Il guerriero, SGF II 387; Accoppiamenti giudiziosi, RR II 918; Pasticciaccio, RR II 271.
6. Finalmente Gibellini 1982: 26 sgg. fornisce accurata documentazione e pieno approfondimento del complesso rapporto, giungendo a conclusioni che ritengo definitive, appunto perché «nel Gadda lettore, come nel Gadda scrittore, le ragioni dello stile soggiacciono a ben più profonde pulsioni; […] l’odio verso ciò che contrasta ogni “pensata e libera parola” risponde a un’istanza insieme etica e conoscitiva: il dovere della cognizione, la verità del dolore» (63).
7. Così scriveva Gadda, il 6 apr. 1958, a Piero Bigongiari (Gadda 1977b: 396; i testi completi sono ripubblicati in Gibellini 1982: 34 sgg.); ma già anni prima: «La divina poesia del Foscolo ha sciolto alle Càriti i tre inni immortali. Il discrimine tra poesia e non-poesia è stato da lui vittoriosamente superato col prendere della non-poesia e col farne della poesia!» (Conforti della poesia, SGF I 965; è solo un caso che nello stesso saggio, p. 968, vengano accomunati Leopardi e d’Annunzio?). C’è da aggiungere che Gadda aveva lasciato cadere la richiesta di un articolo in occasione del centenario della morte del Foscolo. Cfr. lettera a Carocci del 14 set. 1927: «Sei stato molto buono a voler fare il mio nome a Vigilie letterarie. Testa mi ha infatti scritto. Ma per il Foscolo non ho in pronto nulla e non potrei onestamente inviare qualcosa» (Gadda 1979a: 22; mentre nelle Edizioni «Solaria» uscì nello stesso anno Il dramma del Foscolo di Bonaventura Tecchi).
8. L’espressione è riportata in un profilo dettato dallo stesso Gadda (A. Guglielmi 1963: 1052).
9. Sull’idea del matricidio come tema ossessivo nella produzione gaddiana, da Novella seconda alla Cognizione, cfr. specialmente Gioanola 1977: 50-55. Diversamente, un legame/denominatore comune, che andrebbe approfondito, è l’emergenza della figura materna di contro alla cancellazione di quella paterna in Foscolo, d’Annunzio e Gadda.
10. La scelta foscoliana è facile da intendere guardando alla lezione costante che Manzoni esercitò su Gadda, il quale ebbe a scrivere dei Promessi sposi: «romanzo che dice di nuora (Spagna) perché di suocera si possa intendere (Austria)» (Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, SGF I 1176). Sta di fatto che negli scritti gaddiani le citazioni dei/dai due poeti non sono mai concomitanti, ma è almeno sintomatico il processo di osmosi Foscolo/d’Annunzio nelle pagine di più insistita satira foscoliana prima del Guerriero (la nitida messa a fuoco è in Gibellini 1982: 30 sgg.).
11. Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi, in Versi d’Amore e di Gloria (Milano: Mondadori, 1968a), II, 16.
12. Castello, RR I 115; e così scriveva Gadda a Carocci: «Il mio indirizzo milanese è Via San Simpliciano 2 – una delle più squinternate della vecchia e catapecchiata città» (Gadda 1979a: 29).
13. Di fronte ad Andrea Sperelli, «Non potendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi ad una superiore forma dominatrice, l’anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme» – Il piacere, in Prose di romanzi (Milano: Mondadori, 1968b), I, 105 –, un uomo addirittura impossibilitato a liberarsi del proprio albero genealogico: «Pare che alla mia famiglia padreterna appartenesse quel canonico Ripamonti autore delle Historiae Patriae, di cui il noto scrittore lombardo Manzoni loda il bel latino. Talora, nei momenti rari di bontà e di rettitudine, mi par di sentire in me una voce consona con la sua, (sebbene il mio latino sia di molto inferiore al suo) un civile fervore, una umana comprensione, un retto giudizio, una vivace intenzione verso le cose e la vita. Ma tal altra tanto sono stanco e privato d’ogni gioia che mi par d’essere già nell’ombra del nulla» (Meditazione milanese, SVP 778). Per gli sviluppi che se ne possono trarre, cfr. rispettivamente A. Asor Rosa, La cultura, in AA.VV., Storia d’Italia (Torino: Einaudi, 1975), IV, 2, 1086 sg.; e Gioanola 1977: 8 sgg.
14. Cattaneo 1973: 57 («io Orazio lo so a mente»).
15. Sintomaticamente riscritta, e pubblicata insieme alla prima redazione (Gadda 1963e: 7 sgg.), nell’anno medesimo della prima edizione in volume della Cognizione che si concludeva con un’altra poesia, Autunno, anch’essa in ultima redazione e parimenti fondamentale per la formazione culturale di sostrato che è possibile evincerne (cfr. Gorni, 1973: 292-325). Seguo il testo primitivo, così come ripubblicato in Seroni 1969a: 10 sgg.
16. Cfr. Giornale di guerra e di prigionia, SGF II 1123: «è un capolavoro e mi procurò dei momenti di esaltazione spirituale pari alla mia passione per lo Shakespeare».
17. Il rapporto è inequivocabile, soprattutto se si considera che nel medesimo dramma di Shakespeare è presente un personaggio di nome Gonzalo, il che, salva la fonte manzoniana dei Promessi Sposi, non può essere una semplice coincidenza per il lettore della Cognizione.
18. E. De Michelis, Ariele e la bellezza, in D’Annunzio a contraggenio (Roma: Ateneo, 1963), 232 sg. e n. 6.
19. E. De Michelis, D’Annunzio e le arti, in De Michelis 1963: 228; e E. Mariano, Suoni e significati ermetici in «Alcione», in AA.VV., D’Annunzio e il simbolismo europeo. Atti del convegno di studio, Gardone Riviera, 14-16 settembre 1973 (Milano: Il Saggiatore, 1976) 324.
20. Cito una sola campionatura per tutte, la Preghiera al Buon Gesù perché non mi faccia essere dannunziano, in G. Gozzano, Poesie, a cura di E. Sanguineti (Torino: Einaudi, 1973), 323 sg.
21. A dimostrazione di come il fascino della «parola» dannunziana fosse destinato a rimanere indelebile, sta un giudizio del Gadda maturo: «Resosi defunto anche Gabriele D’Annunzio, la orazione è alquanto decaduta nel gusto del pubblico. La “Orazione per la morte di Giuseppe Verdi” recitata da Gabriele al Teatro Dal Verme di Milano non potrebbe essere utilmente rifatta al microfono per la morte di Arnold Schoenberg» (Norme per la redazione di un testo radiofonico, SGF I 1084).
22. Mi limito a due sole campionature: «La sua giovanile ammirazione per D’Annunzio piuttosto che una vera accettazione della retorica dionisiaca può essere spiegata, in senso più generico, come l’infatuazione di un giovane frustrato ed umiliato per il mito di una figura vigorosa che sembra dominare la realtà» (Dombroski 1974: 22); «risulterà anche chiaro come il nazionalismo ed il militarismo di Gadda siano totalmente alieni da tendenze dannunziane, irrazionalistiche e antiliberali; proprio perché nostalgicamente attaccato alla dignità di un passato borghese e liberale, alle tradizioni risorgimentali della sua classe e della sua famiglia» (Baldi 1972: 12).
23. «Il Carducci, prosatore e poeta, è stata la mia lettura per molti anni dell’adolescenza, dopo il Manzoni e prima del D’Annunzio. I tre nomi stanno fra loro come tre schegge d’una bomba, lo so: e tuttavia le cose andarono così» (Intervista al microfono, SGF I 505).
24. «Non gli piaceva D’Annunzio nella sua guerra comoda del ’15-18 e affermava che i soldati lo consideravano iettatore e al solo accennarne si toccavano le stellette. Del resto “amava circondarsi di decori funebri: di urne, di lampade votive”» (Cattaneo 1973: 46).
25. Il rapporto col fratello, e il suo costante ritorno nelle pagine di Gadda, meriterebbe una trattazione autonoma. Basti qui rimandare frettolosamente a Giornale passim e alla seconda parte della Cognizione. Cfr. inoltre Gioanola 1977: 22 sgg.; Papponetti 1983: 71 sgg.
26. è quanto si riscontra nella pur penetrante e decisiva analisi di Pietro Citati: «La violenza autolesionistica assume, nelle pagine della Cognizione, un suono curioso. Qualsiasi denigrazione Gadda compia di se stesso, si trasforma, tra le mani di questo straordinario Narciso, in una apologia. Senza volerlo, egli fa il vuoto attorno a sé: spopola il mondo: con un gesto infastidito allontana i noiosi fantasmi quotidiani. Ad ogni riga, sottolinea la propria presenza: si eccita, inscena il grandioso spettacolo dei propri odi e del proprio dolore, come se al mondo esistesse soltanto l’eccezione inimitabile della sua vita. Ha bisogno, anche quando soffre, di salire sopra un piedestallo plutarchiano» (il corsivo è mio) (Citati 1963: 17).
27. Il fuoco, in d’Annunzio 1968b: II, 579; passo che Gadda aveva ben presente se è citato in I tre imperi, SGF I 938.
28. Perché siamo nati?, in Laudi (d’Annunzio 1968a: II, 262 sg.).
29. Cfr. G. Bolino, I furori religiosi di Gabriele D’Annunzio, in Rassegna dannunziana 3 (1983): xliii sgg.
30. Racconto, SVP 481-82. Tale giudizio positivo è confermato da altre affermazioni; infatti, nell’inedito Annotazioni per il secondo libro della Poetica, Gadda scriveva: «Il D’Annunzio acre e marchionale del “Piacere” – del “Laus vitae” – che in epoca di prima democrazia […] dipinge il verdiccio pelo del bertone – del gran demagogo – il D’Annunzio ha un senso, una vendetta, uno sprezzo, un’anima, sia pure superficiale ma certo nitida e ferma. È un meraviglioso riferimento espressivo» (Gadda 2003a: 20); ampliando Racconto, SVP 563-64 («Oggi c’è una sola opera buona in cui credo: la mitragliatrice. […] L’Italia è ridotta a un popolo di fumatori d’oppio comandato da tre o quattro sciacalli. Ma io adoro la mitragliatrice. Ha letto il Laus Vitae, lei? “è il bertone ecc.”»), che avrà a sua volta esiti narrativi in Cognizione, RR I 735-36 sg., dove Gonzalo sogna se stesso infine giustiziere, imbracciando la «macchinetta dei piselli, quella che aveva riportata di trincea»: «Oh! che bella romanza, che manduline, che ccanzuna, che marechiare, nella casa liberata! disinfettata!».
31. «Se la rappresentazione viene fatta “ab interiore” cioè vedendo attraverso la visione del personaggio (intendo “interior” l’animo del personaggio) come per es. il “Piacere” del D’Annunzio, è evidente ecc.» (Racconto, SVP 462).
32. «Vorrei quindi rappresentare nel romanzo la tragedia di una persona forte che si perverte per l’insufficienza dell’ambiente sociale» (Racconto, SVP 397; cfr. pure G. Gramigna, Quello che rivelano i quaderni di Gadda, in Corriere della sera, 23 marzo 1983, p. 15); e in una nota costruttiva del 26 mar. 1924: «– Egli la uccide? O l’aveva uccisa prima dopo il colloquio? O era morta? Bisogna chiarire bene questo punto e non cascare nell’esagerato o nel poliziesco – Vedere eventualmente il Trionfo della Morte del D’Annunzio» (SVP 400). Inoltre, l’assunzione dannunziana del nome del protagonista risulta precisata da uno scritto posteriore di molti anni: «potrebbe far pensare a Simonetto Baglione diciottenne in arme nella “maschia Peroscia” di Gabriele D’Annunzio […] o a Grifonetto “il figlio d’Atalanta, senza elmo; come il sole che l’abbronza bello”» (Il cetriolo del Crivelli, SGF I 1185).
33. Diversamente, poi, in Cognizione, RR I 659: «“Per non dormire…” Ogni pretesto è buono, in villa! in villa!, ai papaverati sùccubi della noia».
34. T. Antongini, Vita segreta di Gabriele D’Annunzio (Milano: Mondadori, 1938).
35. Tangibile riprova mi sembra il fatto che, pubblicando due anni dopo un articolo di particolare originalità sul rapporto fra il mondo della tecnica, il linguaggio e le forme della poesia, Gadda non ebbe di meglio da citare e lodare se non l’Inno ad Hermes macchinatore (Preghiera ad Erme, in d’Annunzio 1968a: 104 sgg.; cfr. Tecnica e poesia, SGF I 244); e nonostante abbia sempre mostrato (e scritto) di considerare inconciliabile il lavoro di ingegnere con le aspirazioni e l’attività letteraria, memorabili restano tuttora parecchie sue pagine che, come queste appena citate, vivono delle «due tensioni». Anche in tale specifica misura, c’è possibilità di verificare la successiva rimozione dannunziana: «L’ingegnere progettista non è, beninteso, un eroe dannunziesco intento a rimirar sé del continuo dentro allo specchio della propria esasperata vanità. No, non vede sé, vede l’opera, vede “la cosa che dovrà essere”, il filo dell’atto, degli atti, che discende dalla conocchia del pensiero» (Lettera a Leonardo Sinisgalli, SGF I 1071).
36. Grandezza e biografia, SGF I 831; particolare curioso è che nelle pagine conclusive della recensione si chiamino in causa A. France e il suo segretario Brousson, autore di Itinéraire de Paris à Buenos Aires, libro di cui Gadda aveva progettato anni addietro una recensione per Solaria: scrivendone allora a Carocci, chiariva alcuni suoi giudizi ricorrendo ad un aneddoto dannunziano (Gadda 1979a: 67).
37. «Cosa vuol che rubino in questa casa della miseria? […] il mio Cervantes? […] Per potermi centellinare in santa pace il mio Ariosto, in letto, il mio Boccaccio» (Cognizione, RR I 650); «Il condiscepolo Alì Oco De Madrigal mi ha confidato di aver avuto per modelli narcissici il Corsaro Nero, Dante (a lungo), “el famoso Ariosto” a lungo, Giulio Cesare […] lo Shakespeare; più tardi il Cervantes, il più grande degli inventori europei, il monco di Lepanto» (Eros e Priapo, SGF II 335).
38. L’episodio presenta, infatti, nascoste diramazioni sino alla fine del romanzo e fa da pendant-anticipazione al tema ossessivo della profanazione e della violenza subite dalla villa/sacrario di famiglia e dalla Signora, madre di Gonzalo. È questo un aspetto del libro che andrebbe evinto e verificato secondo il seguente abbozzo di percorso: d’Annunzio (la madre, la Duse), il Vittoriale (Museo dei cimeli; conservazione della memoria della madre e della Duse); le donne del Vittoriale (la Bàccara, la corte dei fàmuli ecc.); Villa Giuseppina (colpita dai fulmini, profanata dai ladri di reliquie/souvenirs; vi riappare il fantasma del Vate, «jettatore porco»): Gadda (la madre e l’orrore del figlio per il matrimonio), Villa Pirobutirro (in cui Gonzalo vorrebbe viver solo con la madre e con le memorie pacificate); le serve e il peone; la villa soggetta ai «monsoni» delle ipoteche; la profanazione da parte del ladro aggressore.
39. La notte di Caprera, in d’Annunzio 1968a: 390 sgg.
40. Soccorra per tutte la presenza di un suo ritratto dagherrotipo nella camera da letto di Gonzalo: «Vigeva a mezzo busto nella penombra, con il poncho, e due cocche alla spalla manca d’un fazzolettone sudamericano: e in capo quel suo berretto, tra familiare e dogale, cilindrico […]. La bionda capellatura […] scendevagli armoniosa alle spalle e quivi giunta si ripigliava dolcemente in una rotolatura nobilissima […] tutte le gote e il disotto dei labbri s’infoltivano d’una generosità maschia del pelo, d’un vigore popolano ed antico» (RR I 620-21).
41. Il nome potrebbe celare anche un’allusività funebre e iettatoria se rapportato alla Pinina del Gôepp («Giuseppina Voldehagos maritata Citterio, ch’era la moglie nana dell’affossatore principale e vestita sempre di nero, o in riguardo alla professione del marito, o forse perché beneficiaria dei vestiti a lutto smessi d’alcune sue impenitenti benefattrici» – Cognizione, RR I 580).
42. «Amaranti educavano e viole» (U. Foscolo, De’ sepolcri, v. 125).
43. Quello dei rapporti con l’altro sesso è trauma tipicamente gaddiano; mi limito ad indicarne due variazioni: il capitano Delacroix di Socer generque e il commendator Angeloni nel Pasticciaccio. Ben diversi, certo, gli apparivano gli «ossedimenti della femminilità» nella vita del d’Annunzio (Grandezza e biografia, SGF I 826).
44. Cfr. la nota biografica di retrocopertina nelle edizioni Garzanti, alla fine degli anni Cinquanta.
45. «Ho avuto, nel corso del trentennio, 256 proposte, e allusive, di fidanzamento matrimonioso; ma la mia “virtù” ha resistito a tutte. Francamente, non ho le forze fisiche e psichiche sufficienti ad andare vispoteresescamente incontro alle gravi responsabilità di una nuova famiglia. La famiglia paterna, o materna che fosse è stata più che sufficiente a instaurare in me il paradigma e la definizione di ciò che s’intende per “famiglia”» (Gadda 1983c: 69).
46. Lo spazzolino da denti non è presenza casuale dell’invenzione gaddiana, ma correlativo oggettivo di proprietà violata; cfr. Accoppiamenti giudiziosi, RR II 902-03: «E d’un oggetto o d’un bene o d’una patata o d’un quadrupede di sua personale pertinenza soleva ad ogni buon conto pensare: “Questo cavallo e questa carrozza di mia propria privata privatissima personale proprietà!” Cinque pi, sicché: una di fila all’altra. Registrava a sera nel mastrino il valore contabile di un acquisto fatto, premettendo al nome dell’oggetto o dello strumento acquistato il possessivo “mia” seguito dalle cinque pi. Ad esempio: “Da Moroni, via Manzoni: mia p.p.p.p.p. spazzolino da denti: L. 1,75” […]. E aveva più volte intrattenuto un giurista ultrasettantenne, fumatore di virginia, circa la possibilità pratica di far inserire nello Statuto Albertino il seguente articolo: “La proprietà privata è sacra e inviolabile”».
47. Quando, pubblicato il Pasticciaccio, il successo arrivò, Gadda non se ne mostrò soddisfatto proprio perché ne colse subito l’effimero e la componente mondana: «il mio libro mi ha messo in un mare di seccature, di flashes, di perditempi d’ogni genere. Sono diventato una specie di Lollobrigido, di Sofia Loren, senza avere i doni delle due impareggiabili campionesse» (Gadda 1983c: 61).
48. Proprio questo passo mostra una sconcertante sintonia con posizioni foscoliane, soprattutto nel ricorso al Parini (cfr. U. Foscolo, De’ sepolcri, 70-77).
49. «codeste favole ciò è picciole fave o vero minimissime favuzze o faville»; «le favilline mia» (Il primo libro delle Favole, SGF II 65).
50. Le favole della ragione, in Il Mondo (Firenze) 1, n. 3 (3 maggio 1943): 9.
51. «Il Manzoni stesso ha subito il fascino dello spagnolo giusto e dello spagnolo sbagliato» (La battaglia dei topi e delle rane, SGF I 1174). Sul magistero del primo «gran lombardo» e sulla presenza del modello dei Promessi Sposi nella narrativa gaddiana cfr. Arbasino 1964b: 38 sgg. e Nava 1965: 339 sgg. (ma in quest’ottica è ancora tutto da esaminare l’impianto del Pasticciaccio).
52. Eros e Priapo, SGF II 328 sg., che è misura più contenuta e consolidata di una pagina scritta in precedenza, a caldo, a pochi mesi dalla morte del d’Annunzio, e che fa da rovesciato pendant alla contemporanea parodia della Cognizione: «Egli appartiene anche alla storia (civile, militare, chi ami queste qualifiche); alla storia del costume, alla storia della psicologia umana, e, perché no?, a una storia morale dell’Italia e del mondo. Egli appartiene alla nostra curiosità di uomini a cui piace di conoscere la vita da Lui vissuta, non i gratuiti accomodamenti che d’una vita ipotetica il bene opinante agiografo può combinare, sul manichino della edificazione pubblica» (Grandezza e biografia, SGF I 828; mio corsivo).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
© 2003-2025 by Giuseppe Papponetti & EJGS. Previously published in Gadda - d’Annunzio e il lavoro italiano (Roma: Fondazione Ignazio Silone, 2002), 9-33.
Artwork © 2003-2025 by G. & F. Pedriali. Framed image: photograph of Gadda in the garden in Longone, Archivio Effigie.
The digitisation and editing of this file were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.
All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.
EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.
Dynamically-generated word count for this file is 9925 words, the equivalent of 29 pages in print.