Gadda e l’astrazione narrativa

Carla Benedetti

1. La  finzione prima

Certi romanzi contemporanei sembrano chiudere il mondo dentro a un cubo di cemento. Per spiegare concretamente cosa intendo, inizierò da un esempio contrario: da una forma narrativa non astratta ma improntata a un acuto sentimento della complessità e retta da una tensione all’inseparato. Molti dei grandi romanzi del passato potrebbero servirci da punto di partenza, perché questo tipo di astrazione narrativa è cosa del nostro tempo. Ma tra i tanti esempi possibili ne prendo uno non troppo lontano: un romanzo di Carlo Emilio Gadda scritto alla fine degli anni Trenta e uscito in volume nel 1963. Da qui poi lo sguardo si sposterà su esempi contemporanei. Lo scelgo per diverse ragioni, che si chiariranno più avanti. Ma una posso dirla subito.

La cognizione del dolore, che lessi a diciannove anni su suggerimento di una mia insegnante, mi lasciò uno strascico curioso: altri romanzieri contemporanei che mi capitò di leggere dopo mi parvero artificiosi – persino Alberto Moravia, che pure ha una scrittura piana, solitamente considerata funzionale alla narrazione. Al contrario, di Gadda si dice spesso che egli carichi la pagina di eccessive notazioni, biologiche, storiche, filosofiche, tecniche, fin quasi a far naufragare la storia narrata. Quindi, tra i due avrebbe dovuto semmai apparirmi più artificioso il secondo. Allora credevo che la mia impressione dipendesse dalla lingua, molto ricca in Gadda, assai semplificata in altri narratori contemporanei. In quegli anni, del resto, tutti celebravano l’autore della Cognizione del dolore per il suo originalissimo impasto linguistico che si allontanava dalla lingua media (1) – e anche l’insegnante che mi introdusse alla sua lettura me l’aveva presentato in quella chiave: uno scrittore espressionista, autore di mirabili pastiche, trasgressore di galatei linguistici. Poco importava che fosse anche un narratore. E se gli concedevano di aver scritto romanzi era per constatare che si trattava di anti-romanzi. Anch’io fui condizionata da quell’interpretazione critica, che del resto domina ancora oggi le storie letterarie. Ma col tempo mi divenne evidente che non poteva essere quella la ragione del fascino di quel romanzo né soprattutto del senso di artificio che mi trasmettevano altri. Se fosse stata solo una questione di lingua il modo di narrare di Moravia, ad esempio, avrebbe dovuto apparirmi inespressivo, banale, ma non artificioso. Oggi me lo spiego così.

Nella Cognizione del dolore tutto accade in un intreccio di chimismi, di attività di cellule, di vita animale e vegetale, di fulmini e di altre forze inanimate della materia. L’aria e lo stesso spazio sonoro dentro a cui parlano i personaggi è zeppo, non solo di parole ma anche di tutto «il crepitio infinito della terra». Tutto è colmo. Persino il silenzio, persino la luce che avvolge ogni cosa nell’estate. Ecco un piccolo esempio. Siamo nel terzo tratto del romanzo e il protagonista sta parlando con il medico fuori della sua casa di campagna. È estate, è mezzogiorno, la luce è al suo grado massimo d’intensità, le campane suonano l’ora.

Intanto, dopo dodici enormi tocchi, le campane del mezzogiorno avevano messo nei colli, di là dai tegoli e dal fumare dei camini, il pieno frastuono della gloria. Dodici gocce, come di bronzo immane, celeste, eran seguitate a cadere una via l’altra, indeprecabili, sul lustro fogliame del banzavóis: anche se inavvertite al groviglio dell’aspide, molle, terrore maculato di tabacco. Vincendo robinie e cicale, e carpini, e tutto, le matrici del suono si buttarono alla propaganda di sé, tutt’a un tratto: che dirompeva nella cecità infinita della luce. Lo stridere delle bestie di luce venne sommerso in una propagazione di onde di bronzo: irraggiàrono la campagna del sole, il disperato andare delle strade, le grandi, verdi foglie, laboratorî infiniti della clorofilla: cinquecento lire di onde, di onde! cinquecento, cinquecento! (RR I 625)

Cinquecento lire è la somma che don Francisco Pirobutirro, padre del protagonista, aveva donato alla chiesa per fabbricare le nuove campane. E queste, a ogni rintocco, riaccendono il risentimento del figlio per quella esorbitante beneficenza, non dettata da devozione ma dal bisogno di marcare uno status sociale, e quindi tutta intrisa di ipocrisia – il peggiore dei peccati secondo Gadda. (2) L’ipocrisia del padre si estende così alle campane stesse, qui viste come bestie pazze che si lanciano alla «propaganda di sé» (in un altro passo vengono chiamate «bronzi ebefrenici»). Cinquecento lire di onde di bronzo, ipocrite, che lacerano lo spazio fino a coprire il verso delle cicale («lo stridere delle bestie di luce»).

In questo breve passo c’è in piccolo il nucleo tragico dell’intero romanzo. È il conflitto che oppone il figlio al «consorzio» umano costruito dai padri, da loro decantato come il migliore dei mondi, ma che in realtà è una società inficiata di male. Un conflitto quindi di natura sociale e familiare, che però qui esplode in uno spazio tutto gremito di altre vite, non solo umane, ivi compresa la vita vegetale che si riproduce in continuazione nei miliardi di laboratori della clorofilla ospitati dalle foglie. E tutti questi elementi, sociali e «naturali» sono tenuti assieme, in un unico grembo, non separati e ripartiti tra primo piano e sfondo. Anzi, quello sfondo di carpini, robinie, cicale, aspidi, che probabilmente in altre narrazioni non sarebbe che il fondale immobile della vicenda, qui si fa pulsante, portatore di movimento. O per meglio dire, portatore di un contro-movimento, che oppone resistenza al suono bugiardo delle campane (e al poco senno dei padri) rendendolo così conflittuale e tragico. Le onde sonore «sommergono», «vincono» e in qualche modo oltraggiano la vita circostante. La sottrazione dello sfondo all’inerzia di una mera scenografia d’ambientazione per le vicende umane è uno dei tratti più tipici del modo di narrare di questo scrittore solitamente considerato poco narrativo.

La pulsazione dello sfondo, per uscire dalla metafora, non è che un allargamento della cornice con cui si inquadrano gli eventi. Essi vengono colti in un orizzonte talmente ampio da poter prendere dentro, in funzione attiva, anche quel «contorno» di altre vite e di forze inanimate che invece una più stretta cornice separerebbe dall’evento-figura per farlo diventare una semplice quinta. Appunto quel fondale di convenzione che, nei modi narrativi oggi più diffusi, viene alzato dietro alle storie degli uomini, separandole così dal «profondo abisso del mondo» (3) in cui pure sono immerse. Su tale abisso, che è l’unico vero sfondo, non fittizio, non illusorio (d’ora in avanti lo chiamerò sfondo, mentre all’altro riserverò il nome di fondale), le vicende umane s’intrecciano a quelle dei vegetali, degli animali (tarli, cicale, mosche, formiche, libellule), delle forze inanimate della natura (il fulmine, ad esempio, che entra in scena nel romanzo in posizione preminente), e la storia culturale dell’uomo non resta separata da quella naturale.

L’allargamento si verifica spesso in Gadda anche sul piano temporale. Il «disperato andare delle strade», ad esempio, che compare nel passo citato, richiama il tempo lunghissimo della collettività umana, che si è stratificato e condensato in quei cammini, tracciati e percorsi da generazioni di uomini, su quella porzione di terra, distesa sopra «la curva del mondo», nella solitudine del cosmo infinito, sotto lontane stelle appese «alla luminaria glaciale dell’eternità». (4)

Questa vertigine dello sfondo è una della facce del «senso del complesso» (5) che si respira nell’opera di Gadda. La narrazione ha sempre, in ogni momento, a che fare con il tutto. Ma non nel senso, sciocco, di un racconto che pretenda di dominare la totalità delle relazioni dentro ai propri nessi lineari e di necessità limitati – come vuole uno dei fraintendimenti più comuni di Gadda (6) –, bensì nel senso di un’intuizione non astratta del mondo, di una percezione che non separa ciò che è profondamente unito: un tutto che in realtà è un inseparato, che tiene esplosivamente assieme anche ciò che non riusciamo a dominare dentro alla concatenazione della storia. In questo senso potremmo anche parlare di narrazione panica (di un panteismo di derivazione spinoziana). Anche quando si inquadra un piccolo dettaglio, una minima briciola del moto e dell’essere – una formica, un fulmine, un uomo – c’è attorno alla figura come una cassa di risonanza in cui vibra l’«inviluppo della totalità», incluso il mistero di ciò che ci sfugge.

Una tale insolita pienezza del narrato di Gadda è stata per lo più letta dai critici come antitetica alla narrazione: o perché lirica o perché digressiva, in entrambi i casi un inciampo per l’arte narrativa. Anche Moravia espresse un’opinione analoga in un’intervista del 1990, in cui riconosceva a Gadda un acuto senso del comico, una grande capacità di scrittura, ma anche una debolezza di specie narrativa dovuta alla sua tendenza a perdersi in digressioni. (7) Io credo invece che quello di Gadda sia un altro modo di narrare, diverso da quelli che hanno avuto maggiore diffusione nella seconda metà del Novecento. Non si tratta di lirismo (8) né di espressionismo, e nemmeno semplicemente di realismo, ma prima di tutto di un modo di narrare adeguato – nel senso in cui Spinoza parlava di «idee adeguate» – alla nostra condizione di viventi dentro al caos della vita nell’universo.

Tutta la vicenda della Cognizione del dolore si svolge in estate dentro a una luce accecante. La villa di Gonzalo ci viene presentata come immersa in una «salamoia di cicale e di luce» (RR I 624). L’insolita espressione ricorre altre volte in Gadda, per esempio riferita al campo gravitazionale e al mare dentro a cui stanno i pesci. (9) Come dobbiamo leggerla? Come una figura tesa a innalzare l’espressività del passo? Certamente, da un punto di vista tecnico-retorico è una metafora che accosta espressivamente due elementi in attrito: da un lato una cosa nobile e impalpabile come la luce, dall’altro il liquame oleoso e triviale in cui si conservano le olive. Ma da un punto di vista bio-chimico, che in Gadda è spesso quello che comanda sugli altri, «salamoia di luce» è anche una definizione adeguata del mezzo in cui siamo tutti immersi, insetti, piante e uomini. Siamo davvero inzuppati nella luce, che ci avvolge e ci preserva. Tutti i chimismi delle cellule sia animali sia vegetali ne dipendono. Senza lo strato gassoso che avvolge la terra saremmo immersi nel buio del cosmo e neanche i suoni ci sarebbero.

Ma se è vero che fuori da quel pieno di luce e di gas gli uomini non potrebbero né respirare né vedere né parlare, così come i pesci non potrebbero sopravvivere fuori dall’acqua, perché un racconto dovrebbe farne astrazione? Lo stesso vale per la «salamoia gravitazionale» che ci tiene attaccati alla crosta terrestre. Perché un narratore non dovrebbe, mentre racconta i fatti degli uomini, farci sentire che il loro sistema nervoso è immerso in quella più vasta condizione? Sarebbe come se una sardella ci raccontasse la sua giornata facendo astrazione dall’acqua in cui boccheggia. O se un lombrico si mettesse a narrare le vicende di altri lombrichi tacendo del terriccio in cui sono conficcati, lui compreso, e ne uscisse fuori una storia di figurine che pensano, vogliono, agiscono, si scambiano il buon giorno e la buona sera, tutte ripulite di terra, sia di fuori che di dentro.

Così le figurine umane di tanti romanzi contemporanei, che si muovono in uno spazio-tempo oltremodo semplificato, senza batteri né attriti né pidocchi né scariche elettriche, e a cui sono state tolte molte delle relazioni con l’universo, con i fatti fondamentali della vita biologica e con i loro misteri. L’artificiosità di certi romanzi, che il romanzo di Gadda per contrasto mi aveva consentito di percepire, sta proprio in questo palcoscenico artificiale che non corrisponde alla reale situazione degli uomini nell’universo. È questa la finzione prima su cui molte narrazioni contemporanee allestiscono la storia e le storie, con le loro concatenazioni causali semplificate, che contemplano solo le relazioni sociali, psichiche, economiche. Questa finzione preliminare riguarda lo sfondo ed è per lo più ignorata dalle teorie del racconto, di solito tutte concentrate sulla seconda, quella della costruzione della storia – l’unica a essere comunemente chiamata e riconosciuta come fiction.

2. Lo sfondo aperto

Charles Darwin osservò a lungo i lombrichi, e scrisse un saggio sorprendente in cui sosteneva che senza l’azione indefessa di questi animaletti invisibili, che rivoltano la terra in continuazione, ingoiandola e riportandola in superficie attraverso le loro deiezioni, e così sminuzzandola e areandola, il mondo non sarebbe quello che conosciamo. E quindi anche la storia dell’umanità sarebbe stata diversa. Il saggio fu scritto da Darwin poco prima della morte. Ne riporto qualche passo:

Poiché ero stato indotto a tenere nel mio studio per diversi mesi vermi in recipienti riempiti di terra, iniziai a interessarmi a loro e desiderai scoprire fino a che punto agissero coscientemente e quanto potere mentale mostrassero. Ero tanto più desideroso di scoprire qualcosa su questo argomento, in quanto, per quel che ne so, sono poche le ricerche condotte su animali posti così in basso nella scala dell’organizzazione e così scarsamente provvisti di organi di senso come i lombrichi […]. Fui portato a concludere che tutto il terriccio vegetale dell’intero paese è passato molte volte, e passerà ancora molte volte, attraverso il canale intestinale dei vermi. Il termine «terriccio animale» sarebbe allora per certi versi più appropriato di quello comunemente usato di «terriccio vegetale». (10)
Quando contempliamo una grande distesa d’erba, dovremmo ricordarci che la sua regolarità, che tanta parte ha nella sua bellezza, è principalmente dovuta al fatto che tutti i dislivelli sono stati lentamente smussati dai vermi. È straordinario pensare che tutto quanto il terriccio di superficie di un qualsiasi prato è passato, e passerà ancora, nel giro di pochi anni, attraverso il corpo dei vermi. L’aratro è una delle più antiche e preziose invenzioni dell’uomo, ma prima che esistesse la terra veniva regolarmente arata, e continua a essere arata, dai vermi. C’è da dubitare che ci siano molti altri animali che hanno giocato un ruolo così importante nella storia del mondo come queste creature così poco organizzate. (Darwin 1997: 192)

Un’analoga attenzione per le più piccole forme di vita che modificano il dato natura – esattamente come fanno gli uomini con le loro tecniche e scienze – la troviamo in Gadda. Quando ad esempio scrive, da ingegnere elettrochimico, del ciclo naturale dell’azoto, non trascura di ricordare l’azione di alcuni microbi, i batteri di Winogradski, che sotto terra compiono la riduzione dei nitrati: «Oh! le care creature! sono dei veri e propri ossidatori: sono gente che fa della chimica sintetica sotto terra: sono a loro volta degli artificiosi falsari della natura pura, come un qualunque ingegnere, come un qualunque chimista» (L’azoto, SVP 70).

Non è solo un’attitudine da naturalista a spingere Gadda a questa osservazione. C’è nel suo modo di percepire, e di narrare, una particolare sensibilità per ciò che accomuna i viventi. La prospettiva da cui si osservano gli uomini si dilata al punto da comprendere dentro di sé, come membri della stessa classe, condizione umana, animale e vegetale. Ogni vivente gli appare come un elaboratore di mondo. Si sprigiona così all’intuizione non tanto l’analogia tra l’uomo, l’animale e il vegetale, ma la proprietà che realmente essi hanno in comune, quella di essere fatica bio-chimica, vita strappata pezzo a pezzo al caos e all’entropia. Con le parole di Leopardi potremo quindi dire che anche qui c’è un occhio più propenso a vedere l’uomo in natura che non in società. O meglio, a vedere anche l’uomo in società ma dentro al più vasto orizzonte della storia naturale – poiché tutto è natura nella storia degli uomini e persino nella loro tecnica.

Una centrale telefonica automatica; una stazione radio; un palcoscenico moderno costituito dalle più artificiose disposizioni meccaniche, fotogenetiche, elettriche: non sono men reale natura che il sulfuroso vulcano, o l’arido greto del torrente, o lo sterco delle bestie quadrupedi, o bipedi. Quei fatti della invenzione son fatti e son dunque natura: ché la mente disegnatrice è natura e la storia degli uomini tutta è natura. (Meditazione, SVP 876-77) (11)

Simili prospettive, radicalmente anticulturaliste, sono in attrito con le astrazioni consolatorie della cultura moderna. E infatti anche Gadda, come Leopardi, ma con esiti suoi propri, spesso comici, tende a ritorcere quel tipo di percezione contro le ideologie del tempo, per smascherarne le semplificazioni e l’ipocrisia.

Certi principi di Gadda (quel suo insistere sul «senso del complesso», sulle relazioni che si dipartono da ogni grumo di vita e in generale la sua critica dell’astrazione) sono stati per lo più avvicinati dai critici come le bizzarrie epistemologico-metafisiche di uno scrittore-filosofo, delle quali si doveva tener conto per intenderne la poetica, ma senza riviverli dall’interno nelle loro motivazioni profonde: come quando si descrive con cura un magnifico artefatto di cui non si conosce l’uso, non si sa più a cosa serva. (12) Eppure quelle «stravaganze» filosofiche di Gadda sono cariche di radiazioni benefiche per il pensiero e l’arte narrativa. Nel loro scrigno si custodisce, oltre che una critica potente a certe modalità astrattive che si sono diffuse nella narrativa tardomoderna, anche un meraviglioso antidoto, una felice alternativa – mai sviluppata fino in fondo nemmeno da Gadda stesso. Forse solo nella Cognizione del dolore egli ha dispiegato appieno ciò che aveva intuito. (13)

3. L’astrazione narrartiva

I miti, le favole, le leggende, i cicli degli eroi e tutte le storie narrate dagli antichi erano molto più intrecciate a quelle degli altri viventi e più aperte al mistero di ciò che ci sfugge, di quanto non lo siano le nostre. Le credenze animistiche del resto frenavano l’astrazione antropocentrica e il restringimento del mondo «naturale» a mero fondale. Con ciò, ovviamente, non sto suggerendo di tornare alle credenze arcaiche, ma solo mettere in evidenza la storicità del fenomeno, e sottolineare come anche nella nostra cultura vi siano correttivi all’astrazione sia del pensiero sia del racconto. (14)

L’astrazione narrativa non appartiene infatti a tutta la storia del romanzo né alla narrazione in quanto genere. Omero, Rabelais, Cervantes, Goethe non raccontavano storie in quella maniera astratta che oggi viene comunemente considerata la più funzionale alla narrazione. Non narravano così neppure i grandi romanzieri dell’Ottocento, Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Zola. E nemmeno Proust, Kafka o Musil.

A partire dalla seconda metà del secolo scorso si riscontra un forte impoverimento nei modelli romanzeschi dominanti – come se la narrativa avesse incominciato a essere usata molto al di sotto delle sue potenzialità d’intreccio sperimentate lungo i secoli. L’impoverimento riguarda soprattutto lo spazio-tempo e il rapporto tra la storia narrata e lo sfondo. Nel modello impoverito il narratore si comporta come un operatore d’astrazione. Dal groviglio astrae arbitrariamente delle porzioni di realtà, e così allestisce, per la storia che si appresta a narrare, un palcoscenico idealizzato: una bolla senza atmosfera né gravità come quelle in cui si simula lo spazio cosmico per le esercitazioni degli astronauti. Tutto quell’intreccio di chimismi, di vita non solo umana e di forze della materia rotante nello spazio del cosmo e nei suoi tempi lunghissimi è stato tagliato via. Il mondo si è semplificato: come se la realtà fosse quella cosa piccola, tutta già nota e dominabile che ci si immagina ci stia di fronte o attorno – quando, per esempio, si loda negli scrittori la capacità di darcene una «rappresentazione realistica».

Un tale impoverimento era già visibile nella narrativa neorealista: e fu proprio Gadda a coglierlo sul nascere e a criticarlo, in un breve saggio del 1950 intitolato Un’opinione sul neorealismo. Proprio in quel tipo di narrativa che si proponeva come un ritorno alla realtà, quasi una «pittura dal vero», egli vedeva invece all’opera le forbici dell’astrazione: quelle che ritagliano e separano il sociale dal biologico, la storia culturale dalla più vasta storia naturale, la vita umana da quella degli altri viventi sul pianeta, gli eventi concatenati dal caos della vita dell’universo. Tanto che la «realtà» di quei romanzi non era ai suoi occhi che il «morto corpo della realtà».

Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia. (SGF I 630)

è tipico dell’astrazione narrativa chiudere sfericamente gli eventi e gli uomini dentro involucri che non esistono, separandoli dal tessuto di relazioni in cui sono inviluppati e dal mistero in cui sono immersi: «nudi noccioli» giustapposti e infilati come «grani di un rosario».

E poi, cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini (Spinoza direbbe modi): mi valgono in una aspettazione, in un’attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati. Mi sembra che aspettazione e mistero non emani dalla catena crudamente obbiettivante della cronaca neorealista. Nella «poetica del neorealismo», quale mi si è rivelata da alcuni esempi, direi che ogni fatto è (cioè riesce ad essere) nudo nocciolo, è (cioè riesce ad essere) grano di un rosario. (SGF I 629)

La sensibilità per la complessità, la tensione alla «più vasta ragione», l’acuta percezione del caos in cui siamo immersi, portano Gadda a una profonda avversione per quella narrativa che già allora si andava specializzando nella concatenazione orizzontale di piccole strutture progressive dentro a uno spazio-tempo semplificato – quella che oggi viene sentita come «realistica» e quasi come la sola concepibile. Sul metro di questo modello semplificato molti critici hanno poi misurato il presunto fallimento di Gadda come narratore. Egli è stato certamente un narratore poco ortodosso, ma solo rispetto a questa nuova ortodossia tardo-novecentesca e occidentale, che ha generalizzato una concezione e una pratica molto depotenziata dell’arte narrativa.

Astrarre – scriveva Gadda – è ritagliare una parte dal «mostruoso groviglio della totalità». (15) Quanto più il pensiero astrae tanto più ha l’illusione di dominare il suo oggetto, ma tanto meno è in grado di esprimerne la complessità. L’astrazione è ovviamente un’operazione di cui il pensiero non può fare a meno per poter elaborare delle sintesi, (16) ma se da operativa e provvisoria diventa stabile e viene spinta oltre un certo grado può diventare perniciosa. Per esempio ragionare di sviluppo come se non vi fossero limiti fisici del pianeta e delle sue risorse. La modernità non ha prodotto solo «disincanto» o distrutto illusioni, ha anche approfondito certe astrazioni creando rappresentazioni del mondo chiuse e rendendo stabili le separazioni tra ciò che non può essere separato.

Quelle strutture romanzesche impoverite si sarebbero poi diffuse nella maniera dilagante che possiamo constatare oggi. La drastica potatura della pianta del romanzo, che in passato aveva ramificazioni e infiorescenze assai più ricche e complesse, è certamente legata agli schematismi di pensiero prodotti dalla modernità occidentale, e in particolare a ciò che qui ho più volte chiamato «astrazione separante», che diversi pensatori e scrittori moderni hanno tuttavia criticato. Ma alla potatura ha contribuito anche l’industria internazionale della fiction, che ha compiuto una sorta di selezione (non naturale) tra le forme romanzesche possibili. Quelle strutture lineari e semplificate sono state favorite sopra altre, spacciate per «naturali», come se fossero connaturate al genere, e privilegiate e fomentate dal circuito del libro, fino a essere considerate oggi quasi come le uniche capaci di arrivare a un pubblico.

Diversi scrittori e lettori provano un’avversione per quel modello impoverito di narrazione, ma fanno fatica a individuare il vero «colpevole». Spesso accusano il genere invece che il modello, se la prendono con la «dittatura del romanzo» che avrebbe messo in ombra altre forme di scrittura narrativa «non d’intreccio». Ma il romanzo non ha responsabilità alcuna. E tanto meno l’intreccio. Gadda, ad esempio, amava l’intreccio. Come scrive nelle note compositive del Racconto italiano di ignoto del Novecento: «Che l’intreccio non sia di casi stiracchiati, ma risponda all’“istinto delle combinazioni”, cioè al profondo ed oscuro dissociarsi della realtà in elementi, che talora (etica) perdono di vista il nesso unitario» (SVP 460). E a se stesso, romanziere esordiente, ricorda di tenere presente «l’“intreccio” dei vecchi romanzi, che i nuovi spesso disprezzano». Perché «in realtà la vita è un “intreccio” e quale ingarbugliato intreccio!» (SVP 460). (17)

La distinzione che invece occorre fare è tra un modo astratto e impoverito di costruire intrecci (figurine che si muovono in un mondo a sfondo chiuso, tratti grafici su una superficie bianca) e uno che invece tira dentro la complessità della nostra situazione nello sfondo aperto del caos della vita.

Esistono tanti modi di mantenere lo sfondo aperto in un racconto, e quello di Gadda, basato su di una sorta di pieno fenomenico da cui si districano le vicende umane, non è che uno, il suo tipico. In altri romanzieri al posto del pieno può persino scoppiare, al contrario, una sorta di vuoto, come nella narrazione senza fondale di Dostoevskij. Ma ciò che fa la caratteristica di un modo di narrare non astratto è l’assenza del fondale, la rottura della finzione prima: la proiezione delle vicende umane su di una dimensione più vasta, dentro a un intreccio più vasto, aperto all’impensato, al non ancora compreso.

Scriveva ancora Gadda: «Il trascurare qualunque fatto della vita o del mondo è menomazione della potenza e della certezza nella prossima sintesi che di questa vita o di questo mondo si farà» (Meditazione, SVP 842). Ciò che è avvenuto dopo, nei novant’anni che ci separano da quella frase, ha ulteriormente approfondito la menomazione, separando ancor più il pensiero e i modi di narrare dal «profondo abisso del mondo». Quale sarà la prossima sintesi che di questa vita o di questo mondo si farà?

Mentre feroci oligarchie transnazionali stanno affamando e distruggendo intere popolazioni, mentre la temperatura del pianeta si sta alzando, mentre un futuro prossimo atroce si prospetta per milioni di uomini e di animali, l’industria internazionale del libro e dell’intrattenimento produce, diffonde e propina a milioni e milioni di lettori storie di figurine che camminano nel più astratto palcoscenico, nella più grottesca finzione mentale consolatoria che la civiltà dell’uomo abbia mai costruito.

Università di Pisa

Note

1. Andava in questa direzione la lettura di Gianfranco Contini, che subito fece scuola. Lo stesso Pasolini la fece propria negli anni Cinquanta, salvo poi abbandonarla nel saggio del 1963 Un passo di Gadda, per andare oltre quel mero «referto descrittivo» dei «pastiche linguistici del Gadda vulgato» (Pasolini 1999: 2395-403).

2. Come scrive Quevedo in Il mondo com’è, tradotto da Gadda stesso, dall’ipocrisia «nascono e di lei si alimentano le sette maialerie capitali. Ira, gola, superbia, avarizia, lussuria, accidia: e menzogna non ne parliamo: e i tradimenti, e gli scannamenti: e tutto il resto» (SVP 272).

3. «Voglio solo affacciarmi da un certo parapetto al profondo abisso del mondo» (Meditazione milanese, SVP 657).

4. Le parole tra virgolette sono altre citazioni dalla Cognizione del dolore (RR I 680, 745).

5. Il «senso del complesso», che Gadda chiama anche «sensazione della complessità» o «coscienza della complessità», è una delle idee centrali della Meditazione milanese (SVP 842, 845 e passim).

6. Si è spesso attribuito a Gadda un’aspirazione al dominio della totalità, la pretesa di «collegare tutte le storie in una», di formulare un «sistema di sistemi» che integri tutti gli altri, un’«enciclopedia del possibile» – come ad esempio scrisse Calvino sotto l’influsso del saggio di Roscioni su Gadda (La macchina spasmodica [1969], Calvino 1995: I 253). Sono idee, queste, non solo estranee a Gadda (e in generale al pensiero della complessità), ma addirittura indicate esplicitamente da lui stesso come errori del pensiero, da emendare. Su questo fraintendimento, dovuto probabilmente al fatto di aver avvicinato il pensiero di Gadda attraverso il paradigma strutturalista allora dominante negli studi letterari, rimando al mio Gadda e il pensiero della complessità (Benedetti 2004a).

7. «Un difetto di specie narrativa secondo me in Gadda è che si perde nelle digressioni. Ma forse non è un difetto. Basta pensare infatti alle continue digressioni di Sterne nel Tristram Shandy. È un carattere» (A. Moravia – A. Elkann, Vita di Moravia, Milano: Bompiani, 1990, pp. 198-99).

8. A leggere come lirica la densità del narrato di Gadda è stato Gianfranco Contini: cfr. ad es. l’Introduzione alla Cognizione del dolore (Contini 1989: 15-35).

9. «… il nostro sistema nervoso pieno di ragione e d’istinti, immerso nella salamoia gravitazionale come una sardella è nel mare» (Libello, SGF I 95).

10. C. Darwin, The Formation of Vegetable Mould, Through the Action of Worms, with Observation on their Habits [1881], trad. M. Graffi, La formazione del terriccio vegetale per l’azione dei vermi, con osservazioni sui loro costumi, in Il Cefalopodo 3 (1997) [nuova serie del Piccolo Hans], 91.

11. Per l’influsso spinoziano su Gadda, rimando a Benedetti 2004a.

12. Anche lo studio di Roscioni, che per primo rivelò ai lettori, quando ancora la Meditazione milanese non era stata pubblicata, l’esistenza di un pensiero di Gadda, e quindi le motivazioni di certe sue soluzioni narrative e stilistiche, ne dette una descrizione tutta interna alla poetica dello scrittore, senza farlo vibrare in una cassa di risonanza più ampia, sia filosofica che letteraria. Cfr. sopra n. 6.

13. Leggendo altre sue opere narrative si ha a volte la sensazione che egli sia stato fermato da qualcosa, come una pianta spuntata in mezzo a una palude, dove anche la sua proposta di «riforma dell’intelletto» di ascendenza spinoziana, è caduta completamente nel vuoto.

14. La narrazione di Gadda, con la sua propensione a vedere attività ovunque, nelle foglie (i «laboratori infiniti della clorofilla»), persino nel letame, pare a volte sorretta da una sorta di animismo biochimico – dove alla divinità si è appunto sostituita la biologia, la chimica, la fisica. Si legge nella Meditazione milanese: «“la simpatia che la molecola di H2SO4 ha per quella di NH3 è addirittura un fatto della materia. Ma io vorrei sapere come si fa questo fatto”. Il critico: “Siete un naturalista, un panteista, che vede attività dovunque, anche nel letame...” Rispondo: “Il quale si converte in vita, se le attive radici del frumento lo categorízzano”» (SVP 827).

15. «Troppo poveramente si schematizza, troppo arbitrariamente si astrae dal mostruoso groviglio della totalità: e ragionando così sulle parti (cioè su regioni logiche) si addiviene a conclusioni logicamente regionalistiche che il giudizio di ricorso alla corte suprema della realtà totale respinge ordinandone la cassazione» (Meditazione milanese, SVP 842). Sono le stesse pagine in cui Gadda parla del «senso del complesso», cfr. sopra n. 5.

16. Scrive Primo Levi: «Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”: senza una profonda semplificazione il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell’evoluzione, e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale [...]. Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. È un’ipotesi di lavoro, utile in quanto si riconosca come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi» (I sommersi e i salvati, in Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino: Einaudi, 1997, II, 1017-018).

17. Sulle possibilità romanzesche sperimentate nei secoli, silenziosamente attive nella pratica moderna del romanzo, si veda T. Pavel, La pensée du roman(Paris: Gallimard, 2003).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1

© 2011-2023 Carla Benedetti & EJGS. Supplement no. 9, EJGS 7/2011-2017. Previously published in Disumane lettere. Indagini sulla cutlura della nostra epoca (Rome-Bari: Laterza, 2011), 23-35.

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