Two extracts from
«C.E. Gadda. Topazi ed altre gioie familiari»

Elio Gioanola

Chi ha ucciso Liliana Balducci?

Si può chiedere al teorico dell’«impossibile chiusura di un sistema» (SVP 741) di chiudere, quando si faccia romanziere, quel particolare sistema che egli stesso ha ideato col progetto romanzesco? Che Gadda abbia voluto, fortemente voluto, chiudere il sistema-romanzo è fuori dubbio, altrimenti «avrebbe a priori escluso nella costruzione dei suoi romanzi quella conclusione cui ha sempre, anche se vanamente, mirato» (Roscioni 1975: 92, n. 1). Il proposito di essere «conandoyliano» è enunciato fin dai tempi di Novella seconda (RR II 1317) e la scelta del modello è ben significativa se rinvia a quel sistema narrativo che è il giallo, il cui senso sta proprio nel ricondurre la mancanza iniziale (chi è l’assassino?) alla non-mancanza finale (l’assassino è questo). In questo senso il romanzo poliziesco rappresenta, in pieno Novecento, la continuità rispetto alla narrativa tradizionale di impianto realistico, presupponendo la fiducia nella conoscibilità oggettiva delle cose: non per nulla il detective, e quello conandoyliano in particolare, è un logico rigoroso, che risale dagli effetti alle cause, o dagli indizi alle conclusioni, lungo una serrata concatenazione sillogistica. Noi conosciamo bene le propensioni gaddiane per la cultura positivistica, ma sappiamo anche che il suo determinismo è aperto in tutte le direzioni e rinvia a una causalità non esauribile. E poi «qualcosa rimane sempre di inspiegato», e a ciò che si sottrae alla conoscenza, aggiunge Gadda, può essere dato il nome di noumeno, o del Dio spinoziano, o della monade leibniziana (che ha sempre qualche finestra aperta, è stato detto molto bene). È persino superfluo ripetere quanto l’intento della cognizione, perseguito con fede costante, sia sempre intimamente frustrato dall’irriducibilità del pasticcio, non trattandosi di un rapporto tra interiorità ed esteriorità, tra io conoscente e realtà da conoscere, come nella classica dislocazione della cultura razionalistica e positivistica, ma di un conflitto tra istanze interne del soggetto medesimo: «Dal pasticcio della mia personalità devo trarre un sistema di riferimento preciso – nitidissimo» (Gadda 2003a: 18). Applicato all’esperienza romanzesca il conflitto, che poi è la fonte stessa di quell’esperienza, prevede senz’altro la volontà di chiudere il racconto, ma «restano due fatti indiscutibili. Il primo è che per Gadda il libro esige una chiusa e il pasticcio deve essere sbrogliato; il secondo è che la chiusa non c’è, e che il pasticcio rimane tale» (Roscioni 1975: 92).

Il Pasticciaccio, come si sa, è il libro che più di tutti ha suscitato molte discussioni e opposti pareri circa la sua compiutezza. La presa di posizione di Roscioni in proposito sembra non lasciare dubbi circa la mancanza di conclusione della vicenda:

Gadda è lungi dal voler insinuare che i nodi non si sciolgono, e che l’opera debba rimanere «aperta». Anche se di fatto non ha voluto o saputo concluderla, anche se chi legge resta con l’impressione che il narratore abbia perso il filo del racconto, come un giocatore di scacchi che, dopo aver cercato di prevedere il maggior numero possibile di mosse, affaticato dal calcolo sposti la prima pedina che lo liberi dal compito di ulteriormente riflettere e decidere. Salvo costruire, a posteriori, una giustificazione per quello che è stato semplicemente l’effetto della propria stanchezza. (Roscioni 1975: 91)

C’è però una dichiarazione dell’autore che sembra tagliare la testa al toro, confermando la chiusura dell’opera e la soluzione dei nodi:

La narrazione è condotta in modo che i lettori vengano frastornati, non più e non meno degli indagatori, degli atti stessi della investigazione regolamentare, obbligatoria. Lo snodarsi impreveduto del groviglio è simultaneo col bagliore folgorante che illumina al commissario protagonista la realtà dell’epilogo. Il nodo si scioglie a un tratto, chiude bruscamente il racconto. Dilungarmi nei come e nei perché ritenni vano borbottio, strascinamento pedantesco, e comunque postumo alla fine della narrazione. Smorzerebbe in tentennamento l’urto repentino, a non dire il trauma, della inattesa chiusura. (SGF I 1215)

Non solo dunque la chiusura è dichiarata, ma se ne sottolinea la particolare efficacia, dal momento che la rivelazione balenata al commissario Ingravallo eviterebbe lo «strascinamento pedantesco» del racconto e metterebbe fine di colpo ai frastornamenti a cui i lettori, non meno che gli indagatori, sono stati sottoposti. Roscioni, a fronte di questa dichiarazione sembra tentennare, perché è persuaso, giustamente a mio avviso, dell’impossibile, trascendentale, chiusura del sistema e che, per conseguenza, la mira tenacemente perseguita di dare conclusione ai romanzi sia restata vana: mentre, d’altra parte, le parole di Gadda sembrano non permettere dubbi circa lo scioglimento finale del nodo. Il critico, dopo avere ricordato che nell’edizione del Pasticciaccio su Letteratura la colpevole del delitto era chiaramente indicata e dunque il giallo era dato per risolto, sembra voler rispondere al dilemma con una distinzione: «Gadda, dieci anni dopo, ha alterato, o ha dovuto alterare, il piano del libro. Il quale finisce ora in modo diverso da quello originariamente proposto, e alquanto enigmatico per il lettore; ma, si badi bene, solo per il lettore, perché il commissario Ingravallo e il narratore sanno benissimo come sono andate le cose» (Roscioni 1975: 91). In apparenza questa distinzione ha l’aria di un escamotage inteso a salvare capra e cavoli. Com’è possibile, infatti, che per il commissario e il narratore le cose si risolvano e restino invece enigmatiche per il lettore? Se Ingravallo capisce chi è l’assassino, perché non dovrebbe capirlo chi legge di quel «bagliore folgorante» che illumina all’improvviso la mente dell’indagatore? In realtà la situazione è davvero complicata e non risolvibile, a mio avviso, con un sì o con un no: il fatto è che Gadda ha voluto e non ha voluto, contemporaneamente, chiudere il sistema, preso nei lacci di una specie di doppio vincolo che gli impediva di dire la verità, sia che avesse dato un nome al colpevole, sia che non glielo avesse dato, perché nel primo caso avrebbe tradito la ragione di fondo della sua scrittura, nel secondo la realtà del genere romanzesco scelto. La folgorazione di Ingravallo è un bel colpo di teatro, che permette di dire e non dire: l’escamotage è piuttosto di Gadda che del critico debitamente frastornato.

Ancora in una tarda intervista lo scrittore dichiara a proposito del Pasticciaccio: «Io lo considero finito, letterariamente concluso. Il poliziotto capisce chi è l’assassino e questo basta» (Gadda 1993b: 172). Eppure c’è più di una dichiarazione dell’autore medesimo ad attestare il proposito e il progetto di un secondo volume del romanzo, al quale la vera soluzione verrebbe rimandata. Per esempio, in un’intervista del dicembre 1957 a Paese sera Gadda dice: «Il momento più importante sarebbe stato omesso dall’attuale volume per non rompere la suspence, e sarebbe riservato a un eventuale seguito, che ci sarà senz’altro (se non crepo prima)» (Gadda 1993b: 68). Il «momento più importante» si riferisce, indubbiamente, alla rivelazione dell’assassino quale emerge dal famoso capitolo quarto di Letteratura, espunto dall’edizione del ’57, ma l’intenzione di «non rompere la suspence», senza dubbio valida per il libro appena pubblicato, viene estesa ad un seguito annunciato come sicuro; il che significa, se capiamo bene, che il finale del volume attuale non rompe per niente la suspense in quanto il colpevole non viene identificato; e se il «bagliore folgorante che illumina» la mente di Ingravallo significa, per lui e il narratore, la soluzione del caso, la conclusione «in apocope drammatica» rivela, per ammissione dello stesso autore, «il rifiuto del finito» e dunque il rinvio ad altre possibili soluzioni, da rinviare al promesso secondo volume. Infatti, a due anni di distanza, leggiamo: «Sto lavorando – ma da diverso tempo – al secondo volume del Pasticciaccio» (Gadda 1993b: 58); ancora, nel 1962, lo scrittore dà addirittura testimonianza, inverificabile, di un lavoro già pressoché compiuto: «Il séguito, nella stesura grezza, è già scritto ed è già sistemabile in un racconto seguito e pubblicabile, in certo senso: soltanto la tematica è tale da mettermi in difficoltà di ordine pratico rispetto all’ambiente in cui vivo» (Gadda 1993c: 150).

Sull’intricata questione così Alba Andreini si esprime: «Se il romanzo era finito oppure no, restò un enigma, e si parlò più volte di un misterioso seguito. La questione dello scioglimento del giallo, intesa come eventuale continuazione del libro in un secondo volume, balzò così in prima pagina e anche oggi si riaffaccia periodicamente, connessa alla leggenda di una minuta irreperibile» (Andreini & Tessari 2001a: 282). La stessa Andreini riporta il brano di una lettera a Livio Garzanti del settembre ’57 in cui, riferendosi a Il palazzo degli ori, il trattamento cinematografico che «incrocia le sue sorti al processo evolutivo del Pasticciaccio» (Andreini 1988: 141), Gadda dice: «Questa vecchia sceneggiatura (in parte diversa dal romanzo) affaccia la soluzione dell’enigma poliziesco che sarà materia del secondo volume» (Andreini 1988: 145). Ancora una volta il romanzo è dato come mancante della soluzione né crediamo che si tratti soltanto, per questo rinvio ad una prossima puntata, di una promessa quasi dovuta all’editore che aveva avuto il merito, davvero cospicuo, di indurre l’autore a consegnare finalmente il manoscritto del Pasticciaccio quale oggi abbiamo, facendogli, tra l’altro, ottenere quel riconoscimento del pubblico sempre mancato fino a quel momento. Giorgio Pinotti, comunque, fornisce altri importanti dettagli sulla vicenda dei rapporti tra autore ed editore in merito ad una possibile continuazione del romanzo in un secondo volume, o su un’integrazione da apportare in un’eventuale seconda edizione, sempre in vista di uno svelamento del colpevole del delitto (RR II 1152-155). In ogni caso, l’illuminazione di Ingravallo non è decisiva ai fini di un oggettivo scioglimento dell’intreccio, indipendentemente da qualsiasi sollecitazione editoriale. Si può ipotizzare che lo scrittore abbia in mente diverse possibili soluzioni e che nessuna lo soddisfi particolarmente, per cui ad un certo punto, svanite le possibilità di dare un seguito alla vicenda, può dare per buona quella che è ricavabile dall’agnizione del commissario: per Gadda, dice Arbasino, «non esiste già la Stesura Definitiva, bensì, fra le tante fasi successive, o strutture aperte o in progress possibili, una fase o struttura o stesura più giusta, per l’autore, provvisoriamente» (Arbasino 1977: 342-43). È evidente che bisognerà trovare una ragione di questa sostanziale indecidibiità.

La maggior parte dei critici che si sono interessati del Pasticciaccio e dell’opinione, appoggiandosi sulle dichiarazioni dell’autore in proposito, appena citate, e sull’autorevolezza di un interprete come Roscioni, che il romanzo sia incompiuto, analogamente a tutte le altre prove narrative e soprattutto alla Cognizione. Notevolissimo peso ha anche, in tale direzione, il giudizio dell’interprete principe dell’opera gaddiana, Gianfranco Contini:

Il Pasticciaccio è, anche nell’ultima edizione, un libro incompiuto; ma, precisazione ben più importante, un libro, se non proprio così impostato intenzionalmente, accettato deliberatamente come incompiuto. Se la fine sia stata soltanto abbozzata o non abbia proceduto oltre la concezione mentale è cosa del tutto secondaria di fronte a questa accettazione, che Gadda difese (per la verità senza troppa fatica) contro le insistenze editoriali. (Contini 1989: 45-46)

Tra l’altro, l’incompiutezza costituirebbe anche una prova dell’appartenenza dello scrittore all’area propriamente novecentesca della narrativa, che ha fatto dell’opera aperta uno dei fondamenti strutturali d’opposizione rispetto alle armonie compositive del romanzo ottocentesco (a cui Gadda guarderebbe con impotente nostalgia). Per Guido Guglielmi la mancata conclusione del romanzo è una vera e propria «marca strutturale» e dunque «alla fine l’oscurità che grava sul delitto è altrettanto spessa che all’inizio» (Guglielmi 1986: 240). Anche un lettore d’eccezione come Italo Calvino giudica il Pasticciaccio «un romanzo poliziesco [che] resta senza soluzione» (Calvino 1995: I, 718). Recentemente un critico gaddiano di lungo corso come Robert Dombroski ha sostenuto l’inconclusività della narrativa dello scrittore, e in particolare dell’ultimo romanzo, sulla base di un elaborato concetto di neo-barocco, per il quale non esiste alcuna possibilità di «mettere in ordine il mondo»: «Il lavoro [dell’investigatore] è destinato a non concludersi mai dal momento che la sua filosofia, al pari di quella del narratore, dilata all’infinito la struttura del mondo» (Dombroski 2002a: 22); il Pasticciaccio presenta «un tale incremento del garbuglio da rendere effettivamente impossibile la soluzione e la conclusione» (105).

In generale negli ultimi anni, che registrano una grande ripresa degli studi gaddiani, l’opinione critica mostra di avere virato nettamente a favore della conclusività dell’ultima grande opera dello scrittore. Così è per la Andreini, che ha prodotto le migliori indagini filologiche e interpretative sulla connessione tra il primo Pasticciaccio, Il palazzo degli ori e l’edizione definitiva del romanzo. Secondo il suo parere, «mentre punta, con il modulo dell’indagine, alla specificità del genere, Gadda lo incrina togliendogli in P. [l’edizione del ’57] il suggello dell’epilogo tradizionale […]. Con questo vuoto si spiega la caduta del finale, ridotto ad un lampo di sagacia intuitiva» (Andreini 1988: 88). Insomma, mancherebbe il finale inteso in senso tradizionale ma non la soluzione, e dunque l’intuizione di Ingravallo è da considerare valida anche per il lettore capace di intenderla: «La necessità fiscale di mettere punto alla lavorazione del Pasticciaccio si riscatta insomma nel rifiuto del convenzionale termine della trama», ma «nonostante questo deliberato effetto fuorviante non siamo però di fronte all’incompiuto», che sarebbe tale soltanto per l’editore, «desideroso di trattative per la continuazione», quando invece «Gadda insiste nel ripetere che il romanzo va considerato finito». Siamo al polo opposto rispetto all’opinione continiana della necessaria incompiutezza.

Nel Palazzo degli ori l’assassino di Liliana Balducci è esplicitamente indicato nella persona di Virginia Troddu e, nelle lettere all’editore, Gadda esprime il timore che tale indicazione pregiudichi la suspense ottenuta nel romanzo appena pubblicato e tolga ogni interesse ad un eventuale secondo volume: infatti il settimanale Settimo Giorno, sulla scia del successo ottenuto dal Pasticciaccio, aveva proposto la pubblicazione del vecchio trattamento cinematografico, scritto molto probabilmente tra il ’47 e il ’48 su proposta del regista Antonioni (ma la cosa non ebbe seguito). Questo testo, in rapporto alla semplificazione e necessità di conclusioni richieste dal mezzo filmico, rendeva del tutto patente ciò che traspariva già fin troppo chiaramente dall’edizione di Letteratura, dove un’assatanata Virginia, la serva sadica e di tendenze omosessuali diventata amante di Remo Balducci, appariva inequivocabilmente indiziata del delitto. La scomparsa nell’edizione ’57 del capitolo quarto, in cui appunto si addensavano sul capo della diabolica Virginia le indicazioni di colpevolezza, obbedirebbe alla necessità, dichiarata dall’autore stesso, di conservare la suspense, in obbedienza alla regola primaria del genere giallo. Questo almeno in apparenza, perché poi le ragioni profonde del mantenimento delle attese vanno cercate nell’invincibile riluttanza a chiudere il sistema.

A questo punto ci si può interrogare sui motivi della scelta di un genere che è il modello stesso della chiusura narrativa, non potendosi dare romanzo poliziesco che lasci insoluto il caso aperto con la presenza di un assassinio. Se si rimane sul piano della logica e si fa ricorso al principio di non contraddizione, il problema sembra del tutto irrisolvibile. Infatti, parteggiando per l’incompiutezza del Pasticciaccio, si dà per scontata la secondarietà della scelta del genere letterario, dando invece per sicuro che il romanzo sia perfettamente concluso, si rischia di appiattire sulle regole di quel genere una ricerca narrativa drammaticamente aperta, al di là di ogni intenzione di assegnarle forme concluse. Un esempio del primo caso è fornito da Dombroski, che dice: «La scelta di scrivere un giallo può spiegarsi da un lato con la predilezione dell’autore per i romanzi polizieschi, dall’altro con la circostanza più contingente del delitto Stern» (Dombroski 2002a: 104-05), cioè del fatto di cronaca nera che pare avere fornito uno spunto per l’ideazione del romanzo. L’esempio più rigoroso e articolato del secondo caso è fornito dai saggi di Amigoni, sostenitore della stretta coerenza e conclusività dell’intreccio narrativo.

Non credo che la scelta del giallo si possa spiegare, come vuole Dombroski, con ragioni di simpatia per il genere o con motivazioni contingenti, come non credo che il Pasticciaccio possa essere assimilato, pur salvaguardando la sua originalità, alla casistica di un preciso genere letterario. Si pensi alla posizione di un personaggio come Ingravallo: come detective si trova davanti a un «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo» (RR II 16) e la sua funzione istituzionale sarebbe quella di sbrogliarlo. Però, se lo sbroglia, sarebbe un qualunque Sherlock Holmes o Maigret, malgrado tutte le marche ideologiche e psicologiche in contrario; se non lo sbroglia dichiara il fallimento, insieme, del suo proprio ruolo e del sistema narrativo che lo contempla. La scelta del giallo dunque sembra avere, per un verso, il carattere di una necessità ineludibile, per un altro, quello dell’infedeltà obbligata. Non si può dimenticare che l’esordio di Gadda, con La passeggiata autunnale, è già nel segno del giallo, con tanto di delitto e di depistaggi nella ricerca del colpevole, ma è impossibile pensare, per le caratteristiche del racconto, che il giovane scrittore si sia volutamente rifatto a quella specifica tipologia narrativa. In principio c’è un assassinio, e il «pasticcio di sangue» che lo connota e definisce, quindi inevitabilmente si pone la necessità della ricerca, o dell’indicazione, di un colpevole. In tutte le prove romanzesche gaddiane, incondite o più o meno elaborate, c’è un delitto, nel Racconto italiano come in Novella seconda, nella Cognizione come nel Pasticciaccio: la scelta del giallo è secondaria rispetto a questo vero e proprio a priori narrativo, anche se certamente quella tradizionalmente più idonea alla situazione delittuosa proposta. Il pasticcio, come abbiamo già avuto modo di considerare, è in prima istanza il pasticcio di sangue di un assassinio, solo secondariamente rappresenta un nodo di problemi da risolvere per causas. E preferibilmente, per non dire quasi sempre, l’assassinio si configura come un matricidio.

Giancarlo Leucadi trova, non senza qualche buona ragione, che la trama del Pasticciaccio richiami quella del Diario di una cameriera di Octave Mirbeau, in cui compare la figura di una serva che, diventata amante del padrone, si fa complice del furto dell’argenteria di casa e del delitto conseguente, materialmente eseguito dall’uomo a cui è legata. Il rinvio a quest’opera serve al critico per ribadire la sua convinzione circa la positiva soluzione del caso contemplato nel romanzo gaddiano: «Dunque, la soluzione del caso è inscritta nella trama del Pasticciaccio. Il palazzo degli ori, dramma derivato dalla matrice del romanzo, e Il diario di una cameriera, palinsesto della trama romanzesca, sbrogliano l’intreccio degli indizi accumulati nel testo» (Leucadi 2000: 152). È quindi cosa certa, per Leucadi, che a uccidere Liliana sia stata Assunta, la serva che viene a prendere il posto di quella troppo scoperta colpevole che risultava, precedentemente, la Virginia Troddu. Leucadi specifica poi che «la qualità del delitto compiuto da Tina» è quella «a suo modo, di un matricidio» (153) un matricidio davvero sui generis, bisogna dire, se è vero che viene compiuto a danno di chi è soltanto una «madrina», vocata alle adozioni per mancanza di figli propri, nei confronti della quale non esistono legami veri, di una condivisa storia formativa e affettiva.

Per Dombroski, il dominio barocco della descrizione, con le sue potenziali aperture all’infinito, «agisce volgendo in pastiche quanto era stato progettato come racconto poliziesco, e perciò conforme, in quanto tale, a precise leggi di ordine e di equilibrio», per cui «gli elementi dell’intreccio […] vengono piegati a continue connessioni secondarie che finiscono per rendere instabile una struttura apparentemente organica, convertendola in aggregati incoerenti» (Dombroski 2002a: 19). Appare evidente che, in una simile prospettiva, l’individuazione dell’assassino, previsto dalle regole del giallo come esito necessario di una macchina di rigorosa coerenza, diventa un problema secondario. Al polo opposto rispetto a una simile interpretazione si pone Ferdinando Amigoni, per il quale il Pasticciaccio ha invece una sua precisa coerenza e funzionalità, registrabile già nel precisissimo uso del tempo-spazio (cronologia e topografia), con il quale Gadda «cerca sollievo nell’insensato debordante reale nella precisione senza scampo del cronometro» e nella «precisione millimetrica» dell’«organizzazione spaziale» (Amigoni 1995a: 43-46 passim); il Pasticciaccio è tutt’altro che un insieme di «aggregati incoerenti» e le «connessioni secondarie» non solo non rappresentano stagnazioni dispersive della vicenda, ma convergono all’incremento delle attese, perché siamo in presenza di un vero «romanzo a suspense», che richiede per ciò stesso una conclusione, non potendo abbandonare il lettore a se stesso «dopo avergli confezionato con cura un inappellabile vuoto»: in simile caso «la delusione sarebbe tanto più beffarda quanto più a lungo differita» (Amigoni 1995a: 61)

Convinto e agguerrito sostenitore della conclusività del romanzo, Amigoni contesta l’opinione contraria di Roscioni: «Si ha l’impressione che si operi qui un eccessivo appiattimento del leggendario Gadda nevrotico ossessivo sul romanziere» (Amigoni 1995a: 62). Si ha l’impressione, possiamo ripetere, che si tratti della solita pregiudiziale antipsicologistica, con il parallelo appiattimento sulle dominanti narratologiche, di grande importanza ovviamente, quando non si pretenda di fare dell’opera un puro meccanismo autoregolato e di avvalersi magari di uno strumento in sé impuro come la psicanalisi per depurati giochi di semplice pertinenza linguistica (ho sempre il sospetto, quando trovo come sottotitolo di testi interpretativi di un’opera letteraria lettura freudiana, che in realtà di freudiano non ci sia molto). Nel caso specifico, la nevrosi ossessiva di Gadda non è una leggenda ed essa incide in modo determinante sul romanziere, facendolo essere (fatta salva l’alta quota del non analizzabile talento creativo) quel particolare tipo di romanziere che egli è, impossibilitato a tenere fede alle regole narrative deliberatamente scelte per ragioni che hanno a che vedere, in modo vincolante, con un immaginario alimentato da una turbatissima condizione interiore. Per Amigoni la pertinenza psicanalitica del Pasticciaccio è un fatto tutto culturalistico, per cui Gadda si avvarrebbe delle cospicue letture freudiane come ingredienti, abilmente sfruttati, per la costruzione dei personaggi e delle situazioni del romanzo, rielaborando «nella scrittura narrativa suggestioni provenienti da un ambito fortemente differenziato come è quello della psicoanalisi» (Amigoni 1995a: 10). Per fare un esempio, piuttosto estremo, il personaggio di Liliana Balducci sarebbe «il prodotto poetico di un lavoro d’incastro di tre tasselli freudiani: l’invidia del pene, il narcisismo, e la malinconia» (Amigoni 1995a: 63). Che ci siano questi ingredienti è indubbio e l’accurata e competente ricerca del critico sull’argomento dà esiti persuasivi, ma che la poesia di Liliana, cioè la sua verità di personaggio drammatico, sia il risultato di un incastro di tasselli psicanalitici mi sembra eccessivo: continuo a pensare che Liliana sia molto più il «prodotto» di certe ossessioni del suo creatore, di indubbia pertinenza psicanalitica, che non di un lavoro di collage su materia freudiana.

è chiaro che facendo prevalere, nell’ideazione e formazione del romanzo, le ragioni costruttive, accentuando l’intervento della volontà progettuale e delle programmatiche decisioni di mantenimento della suspense, la chiusura della vicenda è inevitabile, in quanto discende dalle convergenze messe in opera lungo il percorso del racconto: «Al di là dei progetti d’autore è lo stesso tessuto del romanzo a indicare, anche se in modi alquanto ellittici, la soluzione finale» (Amigoni 1995a: 129). Ritengo che la compiutezza del sistema è più nell’intenzionalità del critico che nella realtà del romanzo, anche perché, al di là della presenza o meno di una soluzione finale, non mancano incongruenze anche vistose, del tutto improbabili in un romanzo poliziesco tipico, dove anche il minimo particolare è funzionale al movimento complessivo dell’intreccio e al suo scioglimento. Perché mai un autore, a cui si fa credito della massima sorveglianza compositiva, lascerebbe una traccia tanto vistosa del taglio operato con la resezione del tratto quarto dell’edizione in rivista? Infatti l’attuale capitolo sesto si riattacca direttamente alla materia del terzo tratto, senza che l’autore si accorga di avere mantenuto un collegamento con la parte abolita: «mentre tuttavia durava nella stanza numero quattro la riferita confabulazione dei tre, di poi registrata ad atti come “quinto interrogatorio Balducci”» (RR II 139). Chi legge il romanzo nell’attuale edizione, infatti, non ha la minima notizia di questa «confabulazione dei tre», che sarebbero poi Balducci Ingravallo e Fumi, impegnati appunto nell’interrogatorio avvenuto nel tratto cassato. Ma l’incongruenza più vistosa, proprio in rapporto alla funzionalità e coerenza del racconto, è rappresentata dall’accenno al «polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida» (RR II 67-68), davvero impensabile in un contesto che preveda, con lucida consequenzialità, la colpevolezza di un assassino-donna. C’è da aggiungere che tale accenno non c’era nell’edizione di Letteratura, essendo là prevista come colpevole una donna. Amigoni pensa che si tratti di un «elemento frastornante», inserito volutamente dall’autore come ipotesi avanzata dagli esperti della scientifica, ma in un giallo che rispetti, se i frastornamenti e i depistaggi sono necessari strumenti per complicare la vicenda e mantenere la suspense, non si può arrivare alla contraddizione, che farebbe deragliare la trama fuori dei binari della probabilità. Credo sia più realistico pensare ad un’incertezza (non vincibile, come si vedrà) dell’autore circa l’assegnazione della colpevolezza che non di una deliberata mossa frastornante (i frastornamenti del Pasticciaccio sono di altra natura, gli alluci dei Due Santi, il sogno di Pestalozzi, la gallina guercia della Zamira e cose del genere).

In un saggio molto brillante, poi passato nel volume La più semplice macchina, Amigoni interpreta la risposta dell’Assuntina all’urlo di Ingravallo «Fuori il nome! […] Sputa ’o nome» come un’ammissione di colpa. La ragazza infatti, che grida «No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» (RR II 276), metterebbe in atto il meccanismo freudiano della Verneinung, cioè della negazione, per il quale il no, dettato dalla coscienza, copre e rivela un sì legato alle pressioni dell’inconscio. «Gadda ci invita a leggere il grido dell’Assunta “no, nun so’ stata io!” come se ella confessasse: “Sì, so’ stata io!”. Non si può certo far dire a un testo tutto ciò che si vuole; sembrerebbe necessario fargli dire, in alcuni casi, esattamente il contrario di quello che dice» (Amigoni 1995a: 129). Non so se, in questo caso, l’invito a leggere in questo modo il grido dell’Assunta venga più da Gadda che non da Amigoni, ma si deve dire che l’interpretazione del critico è argomentata con buone ragioni e intelligente uso dell’importante concetto della Verneinung. Le ultime righe del romanzo non sono certo tali da indurre ad un’interpretazione univoca:

Egli non intese, là pe llà, ciò che la sua anima era in procinto di intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi. (RR II 276)

è un finale di straordinaria abilità nell’evitare di prendere posizione, lasciando al lettore di pensare quello che vuole. Può darsi che il grido della Tina voglia dire esattamente quello che dice, non sono stata io, l’esecutore materiale del delitto è stato quello che pensi tu, commissario, l’Enea Retalli, io sono stata solo sua complice: «ciò che conta», dice Dombroski, «è che la narrazione non fornisce a questo punto alcun elemento che confermi un’ipotesi piuttosto che l’altra» (Dombroski 2002a: 112). Certo quel forse che sigilla il romanzo è un capolavoro di ambiguità. Lasciate dunque aperte le diverse possibilità, sia che l’assassino risulti questo piuttosto che quello, sia che il nome non possa essere fatto e tutto venga rinviato ad una prossima puntata, resta che l’ipotesi di Amigoni ha molte probabilità di essere la più convincente. Ma con ciò non si dice nulla di veramente importante: chiunque possa essere individuato come colpevole, nulla apporta e nulla toglie alla sostanza delle cose narrate. La stessa offerta al lettore delle diverse possibilità di scelta dimostra che, in fondo, per lo scrittore le soluzioni possono essere intercambiabili: individuare l’assassino risponde soltanto, eventualmente, ad un’esteriore obbedienza al genere narrativo prescelto. La verità sta, comunque, altrove.

Una considerazione che critici di entrambe le osservanze, quella dell’incompiutezza come quella della conclusività, hanno fatto in comune sul Pasticciaccio verte sulla natura velatamente matricida del delitto. Pietro Citati in un articolo di Repubblica dice: «L’assassinio di Liliana è una tragedia sacra: un matricidio, come quello che aveva aleggiato sulle pagine della Cognizione: un delitto erotico, dove Liliana si concede volontariamente allo stupro dell’assassina; un’irruzione alla luce delle furiose forze infernali, che stanno nascoste sotto la superficie della nostra vita e poi vengono alla luce come le nere Erinni di Eschilo» (Citati 1996). Parlando del sogno di Gonzalo, ma estendendo la considerazione anche all’ultimo romanzo, Federico Bertoni così si esprime sull’argomento: «Non c’è dubbio che qui […] si tocchi uno dei punti nevralgici dell’universo gaddiano, che si giunga cioè a lambire l’intricata costellazione di desideri, rimorsi, alibi e censure che gravita intorno al nodo tematico del matricidio, tanto ricorrente e centrale (tra Novella seconda, la Cognizione e il Pasticciaccio) da assumere senz’altro un ruolo paradigmatico, da vero e proprio spettro dell’immaginario» (Bertoni 2001: 130). Si è detto dell’indicazione in questo senso di Giancarlo Leucadi, che rileva anche la somiglianza della Tina, la supposta assassina, con l’Elettra del racconto Socer generque, entrambe serve particolarmente elettrizzanti ed entrambe propense a versare spinaci sulla tovaglia: «epifanie dell’erotismo femminile, ma anche figure del mito matricida: Elettra è un nome che starebbe bene anche a Tina. Nate nello stesso anno, parenti strette, quasi gemelle, le due cameriere hanno nomi che, invertiti, svelerebbero la filigrana del giallo del Pasticciaccio: storia di un matricidio sui generis» (Leucadi 2000: 153).

A dire la verità è stato Ferdinando Amigoni il primo a mettere in relazione Assunta ed Elettra, in base al sema comune degli spinaci (e la madre dell’ultima nipote di Liliana si chiama Irene Spinaci). Se Gadda avesse chiamato Elettra la serva dei Balducci, dice il critico, avrebbe commesso un lapsus in base al quale un lettore informato della tragedia classica poteva già capire chi era l’assassina. Ma basta il quasi lapsus dell’interscambiabilità, via-spinaci, tra le due serve a riportare «colui che se ne avvede a quell’Elettra che permette e anzi legittima l’incontrollato scatenamento delle pulsioni sadiche contro la madre» (nel Pasticciaccio c’è anche un Oreste, sia pure nelle vesti comico-grottesche di un nipotino Valdarena dai grandi dentoni gialli). «Siamo dunque tornati», conclude Amigoni, «al tema del matricidio che, sempre accompagnato da un feroce, esclusivissimo amore per la madre, sta al centro dell’opera gaddiana. Rilevando per l’ennesima volta, nella scrittura di Gadda, la presenza di un’ambivalenza affettiva nei confronti dell’immagine materna […] non si afferma, come è noto, quasi nulla; forse non si attesta altro che l’appartenenza di Gadda al genere umano» (Amigoni 1995a: 152-53). La paura di cadere nella psicologia dell’autore spinge il critico devoto della testualità a dare più importanza ai dettagli della scrittura, come sono gli spinaci, che all’ambivalenza affettiva, alle pulsioni sadiche e, in definitiva all’ossessione matricida, che non possono non essere attribuiti a quel rappresentante del genere umano che è Carlo Emilio Gadda: «Rimane un fatto anche troppo noto: il fantasma del matricidio fu l’ossessione, il male oscuro di Gadda». Molto bene, da sottoscrivere pienamente, senonché Amigoni, facendo questa ammissione teme di «essere uscito dal testo per entrare nel pericoloso territorio della psicoanalisi dell’autore attraverso le opere. Certo Liliana, agli occhi di Ingravallo, è la madre (mentre, viceversa, la tragedia di Liliana consiste proprio nell’essere una non-madre), la “donna quasi velata ai più cupidi”, la “donna che non si può avere” (Saba)» (131). A questa affermazione segue, nell’edizione in rivista del saggio No, sor dotto’, no, no, nun so’ stata io!, il rinvio al mio vecchio lavoro gaddiano: «Molto su ciò ha già scritto Gioanola; tuttavia, privilegiare il desiderio occultato nel testo sulla lettera del testo stesso, porta con sé il rischio di giungere a referti esatti ma generici, astratti, inindividuali, poiché il desiderio non parla che mediamente, attraverso il tessuto letterario, appunto». (1) Mi pare ovvio che il desiderio di uno scrittore parli attraverso il testo, ed è buonissima norma considerarne le strategie di pertinenza testuale, ma è pur sempre il desiderio che parla, e il desiderio di quello scrittore. Non è questione di privilegiare una cosa rispetto all’altra, facendo del testo un pretesto per scendere nella psicologia dell’autore, ma di attivare un circolo virtuoso tra il vissuto profondo e la scrittura, nella convinzione che tra i due piani esista una consecuzione di omologie, tra loro indipendenti ma strutturalmente analoghe, per cui, nel caso specifico, la forma del «male oscuro» dà molte informazioni sulle forme della scrittura. Insomma, la psicologica quando ci vuole ci vuole, come diceva Giacomo Debenedetti.

Dunque, il matricidio. Dare un nome al colpevole del delitto di via Merulana significa individuare un matricida. Né la questione può essere risolta in via formale, nel senso che basterebbe essere in qualche maniera adottati dalla vittima, instaurando un rapporto da figlioccia a madrina, per ottenere i quarti di parentela necessari a rivestire quel terribile ruolo. Certamente né l’accantonata Virginia né la più o meno accreditata Assuntina posseggono i requisiti necessari per quella funzione, perché non hanno a che vedere, nella sostanza, con il desiderio che sorge dalle profondità del male oscuro e che esige, dunque, un’incubazione lunga quanto la vita. La loro natura di figlie è posticcia quanto la loro colpevolezza, che potrebbe rispondere alle esigenze di un comune romanzo poliziesco, non certo a quelle di una tragedia sacra del sadismo matricida qual è il Pasticciaccio. E allora si propone ancora la domanda: chi ha ucciso Liiana Balducci?

L’assassino è il commissario

Certamente l’eliminazione del capitolo quarto della prima edizione del Pasticciaccio è dovuta a necessità strutturali, nell’intento di mantenere intatta la suspense e rilanciare il gioco su una più alta gamma di combinazioni, ma bisogna anche mettere in rilievo il fatto che si trattava anche di un capitolo stilisticamente debole, non in grado di competere per forza inventiva con il resto del romanzo, sicché l’eliminazione ha finito per giovare anche alla compattezza generale dell’opera. Ma si deve aggiungere, allora, che la debolezza era in stretto rapporto con l’artificiosità delle ragioni messe in campo per fare di Virginia Troddu un’assassina. Non è stata tanto una mossa da abile giallista a guidare l’autore, quanto l’obbedienza ad una verità insfuggibile. Cosa poteva importare alle ragioni profonde della scrittura che questa serva lesbica e violenta fosse davvero l’autrice del delitto e come tale smascherata? Tanto quanto importa il fatto che lo sia, nel finale del romanzo attuale, l’Assunta. Indicare un colpevole significa muoversi in senso contrario a quello dettato dal desiderio sotteso all’invenzione romanzesca, chiudere artificiosamente quella partita infinita che non tollera chiusure, perché l’unica vera chiusura possibile rivelerebbe verità terribili.

Nel Pasticciaccio l’assassino c’è già, si tratta di farne perdere le tracce. Le operazioni di spostamento operate dalla macchina del racconto poliziesco nascondono e indicano, nello stesso momento, le matrici originarie che lo hanno attivato. Gadda vuole mandarci fuori strada, occultare i passaggi che portano al cuore delle nascoste motivazioni: scagionare il vero colpevole è molto più importante che indicarne uno di comodo. Se si pensa a quel precoce tentativo di giallo che è Novella seconda, si ricorderà che già prevedeva la costruzione di un impianto narrativo in grado di scagionare il protagonista dall’accusa di matricidio, con la modifica sostanziale della realtà del fatto di cronaca a cui il racconto si ispirava: se il tentativo rimane incompiuto è anche perché sarebbe mancato ogni autentico interesse alla ricerca dell’autore del delitto. Lo scrittore è portato al romanzo giallo perché ha bisogno di liberarsi narrativamente di un’ossessione di delitto e di colpa, attraverso un genere che fa del delitto la propria motivazione genetica, ma dislocando nella coppia detective-assassino la separatezza tra il colpevole e il suo smascheratore. Si tratta però di un’operazione destinata al fallimento se l’ossessione delittuosa e matricida abita l’immaginario profondo dell’autore che intende istituire quella canonica coppia, dovendo secondo le regole separare pasticcio e Cognizione, l’uno attribuito all’assassino e l’altra al detective. Che le due istanze non siano separabili lo sappiamo fin troppo bene, costituendo esse le polarità di una precisa costituzione psichica all’insegna dell’ambivalenza, sulla cui natura abbiamo basato tutta la nostra interpretazione. Altro dunque che l’imitando Conan Doyle! Dostoevskij semmai, con la stessa impossibilità, o mancanza di interesse, di arrivare all’individuazione del colpevole (che nei Karamazov il vero colpevole venga indicato in Smerdjakov non costituisce la soluzione del caso, essendo tutti e quattro i fratelli diversamente e ugualmente indiziabili di parricidio).

Il Pasticciaccio rappresenta il tentativo estremo di obiettivazione narrativa, con la creazione di personaggi e situazioni lontani da troppo scoperte emersioni autobiografiche, tanto che sembra difficile, per esempio, accostare il personaggio di don Ciccio Ingravallo a quello di don Gonzalo Pirobutirro. Niente di più lontano dell’attività investigativa del solerte commissario dall’otium tormentoso del solitario hidalgo, opposte le origini etniche, uno è l’italiota atticciato e di capellatura picea del centro Italia, l’altro il celta lungo e «maturo d’epa» del profondo Nord, così somigliante al suo autore. Eppure non è difficile, come testimoniano concordemente le indicazioni della critica, rintracciare nel commissario tratti autobiografici, sia ideologici che psicologici, tanto che le vistose divaricazioni non riescono ad occultare le affinità di fondo. Nemmeno Ingravallo riesce a diventare protagonista di un’invenzione narrativa veramente autonoma e anche in questo caso occorre ricordare ancora una volta l’ammonimento di Contini, secondo il quale Gadda «non dispone di vite altrui, ma solo della propria». Il cerchio dell’ossessività entro cui l’immaginario gaddiano ruota non permette in nessun modo la formazione di strutture di racconto libere da proiezioni, identificazioni e sovradeterminazioni: è così forte lo sforzo di dotare Ingravallo di tratti autonomi da creare degli avanzi autobiografici di lavorazione, irresistibilmente destinati alla formazione del personaggio del commendator Angeloni, debitamente «alto», «maturo d’epa», con tendenze omosessuali sublimate in allarmata solitudine, cupidità di prosciutti, carciofini e altre leccornie da ghiottone triste. Ingravallo, come ha fatto giustamente osservare Amigoni, è la trasposizione narrativa del filosofo della Meditazione milanese e incarna perfettamente il pensiero del «convoluto Eraclito di via San Simpliciano», ma la compromissione dell’autore col suo personaggio risulta ancora più forte se si considera il tratto dominante del carattere del commissario, la sua irrimediabile solitudine. Ingravallo è incapace di stabilire contatti umani che prescindano dalla sua funzione investigativa, vive come un orso selvatico in una squallida pensione, non ha amicizie, spende il suo tempo libero in letture «un po’ da manicomio», invidia i giovani fortunati con le donne, impossibilitato come si trova a istituire un qualsiasi reale rapporto d’amore. In questa solitudine il commissario non può che coltivare le proprie ossessioni, traducendo in solerzia indagatrice la sua mite disperazione, convinto, lui «ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi» (RR II 15), che in qualsiasi delitto, anche il più lontano da motivazioni affettive, si nascondano sempre motivazioni erotiche.

Nel Pasticciaccio, al di là di della ricca e accuratissima operazione di travestimento da romanzo poliziesco, si dà la stessa situazione riscontrata nella Cognizione, dove l’assassinio della Signora è attribuibile indifferentemente al peone come al vigilante come a qualsiasi altro, ma il vero colpevole è il desiderio del figlio. E il desiderio non può essere che di chi lo prova nel profondo di sé, come invincibile ossessione contro cui vanamente si erigono le difese della ragione indagatrice. Nessun occasionale e più o meno misterioso assassino, mosso da ragioni di vendetta o di rapina, può essere il portatore di un simile desiderio.

è un caso che Ingravallo sia in rapporti di amichevole conoscenza con Liliana Balducci e il romanzo cominci proprio con la scena del pranzo a lui offerto dalla bella e malinconica signora? Senza questo precedente, che vede coinvolta la sensibilità del commissario, la vicenda non muoverebbe un passo: Gadda, è il caso di ripeterlo ancora una volta, non saprebbe che farsene di un qualsiasi detective che entra in azione davanti a un anonimo cadavere, sia pure orribilmente trattato dalla mano omicida. L’investigatore deve necessariamente trovarsi in una situazione emotiva che lo implichi profondamente e lo responsabilizzi davanti al «pasticciaccio». Se, considerate le dominanti di fondo dell’universo gaddiano, è soltanto il desiderio a poter uccidere, questo desiderio non può essere se non di chi è coinvolto affettivamente nella vicenda.

Mancano quasi del tutto notizie sui precedenti della conoscenza tra don Ciccio e Liliana e la situazione è costruita essenzialmente su dati affettivi, la malinconia della donna da un lato, la trepida ammirazione del commissario dall’altro. Ecco appunto: «La padrona [aveva] un tratto così cordiale, un tono così alto, così nobilmente appassionato, così malinconico! Una pelle incantevole» (RR II 19); «La signora Liliana pur con qualche sospiro mal rattenuto (a giorni) sotto le trasvolanti nubi di tristezza, era, era una desiderabile donna» (26). E Ingravallo trasale e sospira, segretamente ammirando: «L’apparizione lo aveva beatificato» (37). Subito appare evidente che nell’ammirazione del commissario per quella «donna quasi velata ai più cupidi» (26) vengono a cadere le motivazioni direttamente sessuali. Liliana dichiara la propria inattingibiità proprio in quella specie di alta, e dolce, malinconia in cui si esprimono le frustrazioni della mancata maternità e le represse tendenze omosessuali. Le mire erotiche di don Ciccio prendono semmai la strada della serva di turno, quella Tina con «certi occhi! un davanti! un didietro! Da sognarseli di notte» (18), mentre alla padrona, dal nome simbolo dell’illibatezza, sono riservate le altezze del sentimento sublimato, con tutto il corredo delle inibizioni dell’estasiato ammiratore:

Gli bisognò reprimere, reprimere [le tentazioni suscitate dall’Assunta]. Facilitato nella dura occorrenza dalla nobile malinconia della signora Liliana: il di cui sguardo pareva licenziare misteriosamente ogni fantasma improprio, instituendo per le anime una disciplina armoniosa: quasi una musica: cioè un contesto di sognate architetture sopra le derogazioni ambigue del senso. (RR II 20-21)

La scena del pranzo è dominata da queste correnti di erotismo variamente tabuizzato che, in sostanza, mettono in primo piano le profonde impotenze affettive del commissario, lacerato, come tutti i protagonisti gaddiani, tra degradazione e sublimazione della sessualità, senza nessuna possibilità di conciliazione tra nuda pulsione, indirizzata alle serve, e amor de lohn, destinato alle belle castellane, abitatrici di sognate architetture. Che poi queste castellane, o madonne dei filosofi, ispiratrici d’amore e, insieme, figure dei divieti, siano rappresentati più o meno trasposte della Madre è un dato su cui si è sufficientemente discusso e che è largamente recepito dalla critica. Liliana è senza dubbio l’ultima, riconoscibile malgrado le vistose trasposizioni, incarnazione della Madre e quindi è l’oggetto vero delle mire distruttive in quanto rappresenta l’amore frustrato e la causa di tutte le proibizioni e impotenze. A ben considerare, l’incontro tra Liliana e Ingravallo assume anche l’aspetto di un incrocio speculare di tabù, nello scambio reciproco di un’assoluta incapacità di amare che alimenta le tensioni sadiche e autodistruttive. Ingravallo trova nella sua incantevole ospite la sola donna che si deve amare, ma questa donna è l’emblema dell’eros impossibile e convoglia su di sé le cariche dell’odio represso. Proprio questa donna che si deve ma non si può amare, e che a sua volta non è capace d’amore, sarà oggetto di un violenza orrenda. Ingravallo per mestiere porta sugli «affari tenebrosi» la sua tendenza a considerare le «concause affettive (anzi erotiche)» (RR II 23), astraendo da coinvolgimenti personali e facendosi puro indagatore del pasticcio, ma in questa occasione egli è direttamente coinvolto nei fatti su cui è chiamato a indagare e i «quanti di erotia» in gioco nel delitto sono propriamente i suoi.

Quando dunque, nel primo capitolo, il caso, o il destino, sembra accostare disinteressatamente don Ciccio e Liliana, si creano le premesse per il necessario accostamento d’ufficio del commissario al cadavere dell’assassinata: la conoscenza personale che lega il poliziotto alla donna non è un ingrediente emotivo volto ad arricchire le armoniche narrative, ma ne è il precedente indispensabile. Liliana muore perché Ingravallo la conosce: da quando essa è entrata nella sua orbita si è subito venuta a trovare nelle condizioni della vittima. Il commissario è un autentico portatore di destino e il destino, o il caso, dice molto bene Amigoni, «è uno dei nomi dell’inconscio» (Amigoni 1995a: 128). La sua scienza degli uomini (e delle donne), corroborata dalla lettura di «libri strani», la sua volontà di sbrogliare il pasticcio o groviglio o gnommero, sono un tentativo di esorcismo razionale del suo desiderio profondo: l’acutezza dell’investigatore si alimenta dei fantasmi del potenziale assassino.

Quando lo Sgranfia gli dà l’annuncio dello sgozzamento della Liliana, la reazione è in qualche modo abnorme:

Ingravallo, pallido, emise un mugulo strano, un sospiro o un lamento da ferito. Come se sentisse male puro lui. Un cinghiale co una palla in corpo. «La signora Balducci, Liliana… » balbettò, guardando negli occhi lo Sgranfia. Si tolse il cappello. Sulla fronte, in margine al nero cresputo dei capelli, un allinearsi di gocciole: d’un sudore improvviso. Come un diadema di terrore, di dolore. Il volto, per solito olivastro-bianco, lo aveva infarinato l’angoscia. «Andiamo, va’!» Era madido, pareva esausto. (RR II 57-58)

Una reazione davvero esagerata, anche considerando la conoscenza della vittima e l’ammirazione per lei: «mugulo», «lamento di ferito», «terrore», «angoscia», «sudore improvviso» sono espressioni che dicono di un turbamento profondo, che supera la soglia di una normale emozione. È vero che la conoscenza lasciava trasparire una condizione di alto e segreto innamoramento, ma sappiamo abbastanza della qualità di un simile innamoramento, saturo di impotenza, per pensare ad un disperato contraccolpo emotivo per un possibile oggetto d’amore perduto. Con una battuta tanto innocente nelle intenzioni quanto di fatto maligna, lo Sgranfia dice, prima di fare il nome dell’assassinata: «Ma scusi… so che lei è un po’ parente». Ingravallo reagisce brusco: «Parente, ’e chi?» (RR II 57), come se, da un lato, bastasse quel riferimento a fargli sospettare dell’identità della vittima, dall’altro fosse in ballo un coinvolgimento personale che lo allarma altamente. Che d’altra parte, una volta rivelato il nome, il legame mostri davvero di essere parentale, e in quanto tale carico di segrete pulsioni sadiche, è dimostrato dal tipo di reazione che abbiamo appena verificato.

L’orrendo pasticcio di sangue della Liliana assassinata mette in scena, in tutta la terribilità della sua evidenza, le motivazioni e responsabilità di quella violenza sadica che sta sotto il delitto. Si tratta di uno sgozzamento, perpetrato con l’impiego del coltello, figura ossessiva nell’opera gaddiana, cui lo scrittore attribuisce invariabilmente significazioni sadico-sessuali:

Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se qualcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne […]. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte di una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero… […]. Le calze incorticavano il modello delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile […]. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte. Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. […] Palesava come delle filacce rosse, all’interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. (RR II 58-59)

La descrizione di quel cadavere insanguinato, in quella «posizione infame», è lunga, insistita, particolareggiata, ambiguamente tesa tra fascino e repulsione: una scena di scannamento e insieme di tentato stupro, di violenta deflorazione (lei ha il nome del giglio): per un delitto a scopo di rapina, il trattamento della vittima è davvero connotato dal sormontare dell’erotia. Non è una fortuita e, in fondo, banale circostanza delinquenziale che ha messo di fronte Liliana e l’assassino, ma il destino-desiderio da sempre incombente su di loro. Che poi, proprio al centro della risentitissima descrizione, ci sia un’improvvisa e diretta intrusione autobiografica, l’unica in tutto il romanzo, assolutamente avulsa dalla macchina del racconto (e il giallo non ammette la minima deroga alla funzionalità) non può che accrescere la sensazione di un turbato coinvolgimento autoriale in quella scena: «Er sangue aveva impiastrato tutto il collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma!)» (RR II 59). Apprendiamo qui che il commissario è stato alla prima guerra mondiale e ha combattuto nelle stesse località in cui s’è venuto a trovare il suo autore, con grande dolore della povera mamma. La sovrapposizione è perfetta in modo sorprendente, ma il pianto dell’anima è di chi ha perso, in quella guerra, rispettivamente il fratello e il figlio prediletto, cioè Gadda e sua madre. Se per un attimo autore e personaggio si identificano è perché in quel pasticcio di sangue anche Liliana e la Madre sono state identificate e irresistibilmente quel delitto-stupro ha mostrato, al portatore dell’empio pensiero (al suo delegato narrativo pro tempore), il suo vero significato, quello del matricidio.

Il delitto appare come la conseguenza sanguinosa di una rapina e, sotto questo aspetto, riprende in chiave tragica l’immediato precedente della rapina Menegazzi, comicamente connotata. Ancora una volta sono di mezzo l’oro e i gioielli e sappiamo come Liliana sia addirittura considerata un «cofano di gioie». Abbiamo detto abbastanza sul tema per doverlo qui riprendere, ma giova ricordare che i gioielli, di per sé, non costituiscono mai il movente puro e semplice di un atto delinquenziale, carichi come sono di significazioni simboliche a tonalità sadico-anale. Nel caso di Liliana i gioielli, l’oro, i soldi (è una vera e propria donna di denari) sono anche senza dubbio il segno di una sessualità regressiva, che non conosce sostanzialmente la possibilità di costituire un vero oggetto d’amore: la sua «omoerotia sublimata» (RR II 107) è il contrassegno di una sostanziale intransitività erotica. Domina in lei quella «tensione al rientro» che costituisce la morale del «generone», cioè della tribù dei Valdarena: rientro dei valori, ma anche conversione all’indietro dell’affettività, per cui, mentre le zie fremono d’indignazione al pensiero che quel «caprone» di un Balducci si sia preso in moglie quel tesoro (in tutti i sensi) di ragazza, Liliana per parte sua nulla concede al marito al di là, forse, degli stretti e stentati doveri matrimoniali («se voleveno bene…»). Se non riesce ad avere figli è proprio in ragione del risucchio all’indietro dell’«unità gamica estromessa» (90): le adozioni delle serve e nipoti non hanno affatto il carattere di una decisione volta a rimediare alla mancata maternità fisica, ma valgono solo a «ingannà la disperazione», per cui «adottava “provvisoriamente”, adottava pe modo de dì» (130). Lei adotta femmine, ma vuole un bambino, un maschio, e vuole un Valdarena, come confessa agli inquisitori il bel Giuliano, campione della razza: se fosse stata libera dalle convinzioni religiose, Liliana «avrebbe amato pazzamente» il cugino, perché la sua ansia di maternità significava voler dare un figlio al padre, in una circolazione endofamiliare chiusa all’altro. Liliana è dunque ricca, di beni come di eros potenziale, ma la sua è una ricchezza difficile da spendere, che allontana anziché avvicinare, che accende i desideri senza soddisfarli; in qualche maniera è obbligata a scegliere la modalità del dono per tentare di comunicare con le persone che le stanno attorno. E tale modalità, dagli evidenti risvolti erotici, appare scoperta nei rapporti col bel cugino: il possibile, e vietato, rapporto amoroso viene intrattenuto attraverso sostituti, e sostituti non in senso metaforico, ma metonimico, di contiguità, perché il denaro non assomiglia al sesso, ma è sesso, nella sua forma arcaica e intransitiva:

era molto più naturale e molto più semplice […] che invece di regalargli lei, a quel bel guappo lì […], le catene d’oro dei morti… bambini, dalle catene d’oro, non ne vien fuori di sicuro… era più presto fatto se si faceva regalare lei, da lui, invece, un qualche altro ninnolo un po’ più adatto allo scopo. (RR II 120)

Ma qui, di naturale e di semplice, non c’è proprio niente. Non per nulla i doni al cugino sono oro, gioielli, pietre preziose, non «carta frusta e schifosa piena di miseria e di peste» (o biglietti da mille «novi novi»). Ingravallo, sulla scorta delle sue letture «da manicomio», è in grado di interpretare fino a un certo punto questa tendenza al dono, «quel buttare, quel dissipare come petali al vento tutte le cose che più contano»: si tratta della «psicosi tipica delle insoddisfatte, o delle umiliate nell’anima» (RR II 105), una vera e propria «follia malinconica» (130). Ma in fondo non c’è rapporto d’opposizione tra il donare e l’introitare, tra avarizia e prodigalità, in quanto entrambe le tendenze si ricollegano alle antiche fissazioni anali. Liliana dona e con questo copre e rivela il suo desiderio: i pranzi offerti a don Ciccio, le lenzuola alle serve, i gioielli al cugino, i lasciti testamentari un po’ a tutti sono momenti diversi, a diverso livello d’intensità emotiva, dell’antico rituale del dono delle feci, complementare a quello, altrettanto gratificante, del trattenerle.

Verissimo dunque che tra Liliana e il suo assassino ci sono i gioielli, ma nel senso che abbiamo indicato e non solo come plausibile richiamo per una rapina finita in un sanguinoso incidente sul lavoro. Ci sono i gioielli come c’erano i brillanti tra la Madre della Cognizione e la «cagione malvagia operante nella oscurità della notte»: in entrambi i casi i preziosi sanciscono la qualità erotico-sadica dell’omicidio, facendosi segni di una minorità, di una devianza, di un’impossibilità, per le quali il desiderio senza mete né appaganti né sublimanti è condotto a farsi scatenamento violento. L’assenza di un reale rapporto di parentela tra l’ispettore e la vittima permette, mediante la definizione delle rispettive e reciproche impotenze amorose, la ipostatizzazione trascendentale del rapporto figlio-madre: davvero Liliana, proprio per non essere diventata una madre in senso fisiologico, è una madre assoluta e assolutamente perfetta, mentre, per parte sua, Ingravallo si specchia in lei leggendovi la storia della propria condizione di figlio abbandonato a un destino di solitudine invalicabile.

Se la personalità di Liliana è «strutturalmente invida al maschio» e per questo lei si sente «dimenticata da Dio» (RR II 107), si potrebbe dire, sulla base dei rilievi sparsi in materia nel romanzo, che la personalità di Ingravallo è strutturalmente invida alla femmina, per cui egli si sente in uguale misura abbandonato da Dio, a differenza di quei bei giovani, paini o signorini, che con le femmine se la sbrigano tanto felicemente. La comune intransitività affettiva dei due personaggi è causa alimentatrice delle propensioni aggressive o autoaggressive e il loro incontro è un autentico richiamarsi di anime in pena, su cui incombe la tentazione della morte. Entrambi, coerentemente alla loro condizione di narcisi tristi, si mostrano soggetti a imperative istanze superegotiche, il commissario letteralmente identificato col suo dovere di funzionario di polizia dalle propensioni speculative, senza tracce di una vita privata, Liliana dedita ossessivamente alle pratiche religiose, con tutto il corredo delle osservanze, astinenze, rituali. Come in un gioco di riflessi tra specchi affrontati i due protagonisti si scambiano i segnali dei reciproci deficit esistenziali, delle rispettive malinconie e impossibili possibilità. La tormentosa impotenza ad amare sviluppa in lei, in funzione complementare rispetto alle latenti valenze sadiche nel protagonista maschile, una forma di vera e propria voluptas moriendi: «Una strana ebbrezza al distacco dalle cose, e dai loro nomi e simboli: quella voluttà del commiato che subito distingue le coscienze eroiche oltreché le menti a insaputa loro suicide: quando uno, non anco messosi al viaggio, magari, di già si ritrova con un piede su la battima, alla riviera di tenebre» (104); e anche: «Già l’anima tendeva a una sorta di espatrio dal paese inutile verso materni silenzi» (105). Don Ciccio e Liliana sono due creature forzosamente angeliche, portatrici dell’autentica possibilità ma, insieme, di una vocazione alla morte per assoluta incapacità di realizzarla: il loro amoroso accostamento susciterebbe le eccelse musiche delle sfere, come la certezza della sua impossibilità, invece, scatena le pulsioni distruttive. Il destino, appunto, che fa di queste due anime che impotentemente si cercano una vittima sacrificale e un angosciato e non affatto innocente indagatore del delitto. Ma il destino, lo sappiamo, è il desiderio che agisce nel buio, la «cagione malvagia» che si scatena contro il simbolo incarnato di tutte le inibizioni, che si arma nelle tenebre e colpisce con sadica voluttà colei che si lascia colpire come in una tragica offerta di sé:

Una cerea mano si allentava, ricadeva… quando Liliana aveva già il cortello dentro il respiro, che le lacerava, le straziava la trachea: e il sangue, a tirà er fiato, le annava giù ner polmone: e il fiato le gorgogliava fuora in quella tosse, in quello strazio, da paré tante bolle de sapone rosse: e la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo, lùf lùf, a mezzo metro de distanza, […] Non aveva potuto, non aveva osato afferrare il tagliente, o fermare la determinazione del carnefice. Si era conceduta al carnefice. (RR II 68)

Come sa Gonzalo che a uccidere la madre, chiunque possa avere compiuto materialmente il delitto, è stato il suo proprio empio pensiero, la stessa cosa sa don Ciccio. L’intera struttura del romanzo poliziesco è stata messa in piedi non per inseguire e smascherare un colpevole, ma per nasconderlo, e questa è la negazione stessa del genere giallo. Può forse un detective scoprire se stesso come il vero assassino? E se, obbligato dalle regole del genere, arriva a identificarne uno, cosa mai può importargliene? Il desiderio matricida è propriamente il suo e questo vale tanto a giustificare l’impianto di una macchina narrativa di grande complessità quanto a decretarne la forza drammatica e il fallimento.

Università di Genova

Note

1. Amigoni 1991: 36-55; il saggio, con qualche taglio, è confluito in Amigoni 1995a.

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