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I giardini dell’ingegnere
Maurizio Rebaudengo
Per comprendere i confini entro i quali si muoverà l’indagine sul topos del giardino in Gadda, è utile ricorrere alla definizione estetica data da Rosario Assunto in un articolo pubblicato nel 1981 su Città e società:
Giardino è Natura in quanto tale, come l’ha modellata l’Uomo per esprimere in essa il proprio spirito; servendosi delle diverse e convergenti tecniche dell’agricoltura, dell’idraulica, dell’architettura e della scultorea fabbrilità, allo scopo di fare dell’ambiente naturale un luogo in cui il vivere e il contemplare faccian tutt’uno. Il luogo, diciamo della contemplazione vivente: che gode di per sé come vita autocontemplantesi nell’oggetto soggettivizzato. (1)
Il giardino è incompatibile con qualunque programma di consumo o destinazione d’uso – se non, peggio, di riuso –, privato o pubblico che sia. Costituisce la cristallizzazione di una forma della natura stabilita dal rapporto tra idea del paesaggio e la sua realtà. È cioè, come afferma Assunto, «un paesaggio, il cui essere coincide con la sua contemplabilità»: quel luogo al tempo stesso forma reale del paesaggio e da esso separata, perché tra giardino e paesaggio intercorre un rapporto di continuità ed esclusione.
Nel giardino coincidono il piacere vitale, poiché la vita può godere di sé nel momento stesso del suo viversi, e il godimento estetico, disinteressato, poiché la natura diventa opera d’arte, non soggetto di interpretazione o modello di artistica mimesi. Nell’universo teorico gaddiano il giardino è la concrezione dell’«istinto della combinazione», enucleato nel Racconto italiano di ignoto del novecento: luogo in cui sussiste «l’equilibrio» come «affermazione cosciente della combinazione tra una polarità morale» (SVP 407) – il piacere estetico disinteressato – e l’abnorme, da intendersi come immoralità secondo il senso comune o il piacere a fini utilitaristici.
Nello specifico topiario, il giardino è luogo che permette di raccogliere ed armonizzare la varietà, di porre ordine al caos: un dilettevole caos, comunque, di gran lunga preferibile ad una uniformità imposta secondo criteri scarsamente conciliabili con il territorio su cui vengono applicati – con conseguenze, anzi, dannose –, come avviene per la robinia nella Brianza-Serruchón della Cognizione e per i larici nella favola 4 del Primo libro delle Favole. (2)
Per procedere ad una analisi minuta della presenza topiaria nell’opera del Gran Lombardo, nelle pagine seguenti si privilegerà un percorso diacronico, prestando attenzione – nei limiti del possibile – alla compresenza di luogo fisico e iconografia di Eden arcadico elaborato dall’Umanesimo cristiano. Tale percorso storico segue una traccia sollecitata da una notazione di Gadda in una recensione a Tre storie d’amore di Bonaventura Tecchi, comparsa su Il Tevere il 5 febbraio 1932, secondo la quale il giardino può essere simbolico di un percorso esistenziale:
è ovvio che un esposto biografico (il quale fosse un’analisi, non una dolce oleografia) potrebbe riuscir d’ausilio grandissimo a determinare o a commentare certi aspetti di quest’arte, così apparentemente semplice, così lontanamente motivata: potrebbe darci la chiave del giardino chiuso, che par disegnato, a travederlo dai cancelli di tenuità riposata e leggiadra, ed è sparso invece di spazi di malinconia: e piantato d’alberi, tragici e soli. (SGF I 740)
Nella poesia Viaggiatori meravigliosi, datata 1922 da Maria Antonietta Terzoli, nel resoconto di un viaggio onirico tra i luoghi fantastici compaiono i «profondi, misteriosi giardini» (Gadda 1993a: 34). La qualifica risulta generica, ma va precisandosi e modificandosi nel corso della produzione gaddiana fino agli anni ’50, passando da una dimensione di remota utopia – propria degli anni ’20 –, ad una sua sempre più convinta appartenenza alla tradizione còlta italiana – sia essa letteraria o, nello specifico, topiaria –, se non esclusivamente lombarda (dagli anni ’30 ai primissimi anni ’40), fino alla consapevolezza del suo tramonto e disfacimento, dopo il secondo conflitto mondiale.
Come si rapporta il giardino con la realtà del paesaggio, per Gadda? In uno scritto pubblicato su Le Vie d’Italia del 3 marzo 1940, quasi alla vigilia della nefasta entrata in guerra, Gadda enuncia una definizione storica di paesaggio, funzionale – certo – alle necessità celebratrici della pubblicazione, ma sinceramente condivisa dall’autore: «Il paesaggio italiano, questo elemento vivificatore e consolatore della nostra anima, è la resultante di superficie della storia geologica d’Italia, il termine al quale è pervenuta la serie delle vicende di profondità, oggi così felicemente archiviate nelle nostre cognizioni stratigrafiche» (Terreno, piogge, fiumi e impianti idroelettrici nell’atlante fisico-economico della Consociazione Turistica Italiana, SGF I 171). Il giardino, in quanto elemento del paesaggio, ne esemplifica la stratificazione storica: luogo ambito per la sua apparente immutabilità, non è in realtà esente dalla legge del «metodo» enunciata nel cap. XIV (Impossibile chiusura) della Meditazione milanese; al dato che implica «certezza e stabilità» si preferisce l’empirica evidenza della deformazione di ciò che accade, dell’evento. Le trasformazioni imposte dalla Storia al paesaggio e di conseguenza al giardino non si limitano, però, ad un repertorio fenomenico scientificamente catagolabile ed analizzabile, ma ne straziano le caratteristiche con la violenza rovinosa propria delle certezze totalitarie.
Che cosa si intende per profondità e mistero, dunque, secondo la poesia giovanile? Si fondono, nel tentativo di definire i due termini, i dati spazio-temporali: la profondità temporale del manufatto giardino è assegnata alle erme, lacerto lapìdeo di un orizzonte mitico roso e consunto dalla realtà dei fenomeni; la proiezione spaziale, invece, è operata ritraendo preferibilmente i giardini nell’ora del crepuscolo, quando il pensiero è attirato verso la remota fonte di luminosità occidua. Nella dimensione utopica originaria, infatti, lo spazio del giardino è custode del tempo: grazie alla forza vivificante del ricordo, il tempo della Storia viene sospeso entro la verzura disposta architettonicamente, per diventare crogiuolo atemporale di volti e ricordi. Nel romanzo-laboratorio Racconto italiano, in un tratto datato 26 luglio 1924, al momento di fissare i Leitmotive della Prima Sinfonia, tornano i «misteriosi giardini»; il passo risulta una stesura in prosa del concetto inespresso nei versi di Viaggiatori meravigliosi, perdendone però le connotazioni fantastiche e venendo contestualizzato nel paesaggio lombardo:
Nei giardini vi erano ornamenti e sedili, dove la persona potesse adagiarsi e l’animo riconfortarsi giovevolmente nell’immaginare tra le ombre la presente bellezza di così pregevoli artefatti.
Che fine sentire, che dolce immaginare sospinge i possessori dei giardini misteriosi a popolarne di sogni viventi il cupo profumo! Una mormorazione religiosa accompagna gli aliti della notte e certo un pensiero e molti altri verranno nella mente dei possessori. Essi accolgono talora degli ospiti che, percorsi lontani paesi, vogliono conoscere anche questo e bere questo caldo e profondo respiro. (SVP 421)
Il passo verrà ripreso integralmente in Notte di luna, pubblicato su Primato nel giugno 1942, con il significativo sottotitolo di Paese, a guisa di introduzione; Gadda avvertiva, evidentemente, che vi erano contenuti i presupposti per delineare un’idea di paesaggio, e, nello specifico, di paesaggio italiano. E sempre nel Racconto italiano, lo «Studio N.°1», vale a dire l’assassinio di Maria de La Garde, steso il 27 marzo 1924, comincia con una considerazione estetica topiaria: «La regola del giardino italiano placa nella compostezza del suo stile i drappeggi della lussuosa follia, inquadra i veli diafani ed infiniti della malinconia e della sera» (SVP 526). Connettendo, dunque, questi due momenti interni al romanzo-laboratorio, il giardino costituisce una metafora-guida nell’elaborazione del percorso di scrittura, capace di distribuire ed articolare un pantone di registri espressivi, conservando una vigile e piena sensualità, nel rispetto della tradizione.
Per precisare il cànone-giardino nelle opere degli anni ’20, è importante verificare la fenomenologia del luogo nella prima realizzazione romanzesca gaddiana, La Meccanica, testo elaborato nel 1928, e nel racconto La Madonna dei filosofi, pubblicato nel numero di settembre-ottobre 1928 di Solaria. Nella Meccanica, il giardino amplia i suoi significati ripartendoli tra i due personaggi principali, Luigi Pessina e Zoraide. Il primo, dopo aver appreso di esser tisico, parte per il fronte col macabro conforto di fare la guerra in montagna, paradossalmente fruibile come meta salubre. Durante il viaggio di trasferimento, Luigi ripensa alla vita passata e, soprattutto, alle diverse opportunità di loisir a seconda della classe sociale di appartenenza: a lui, infatti, è negata la meta della Liguria ove i «favolosi giardini», (3) nel paesaggio marino sfavillante di luce, sono spazi rubati dall’ingegno umano all’asprezza del suolo; la trincea montana, dunque, è succedanea di un utopico eden mediterraneo. I giardini diventano polo d’attrazione magnetica per l’immaginario della rigogliosa Zoraide, conscia della sua prorompente bellezza, (4) riflessa sui luoghi agognati («I giardini erano invece il suo sogno, come i fiori, come i profumi: i fiori turgidi del giugno, li ardenti profumi, che mai non s’era potuta comperare, che nessuno le aveva mai regalato», RR II 489); lasciata sola dal marito al fronte, fantastica di poter incontrare uno dei fieri e sani giovani «studenti», i borghesi ricchi dell’invidiabile connubio di salute economica e vigoria fisica. Per evadere dall’angustia del suo ballatoio, Zoraide proietta la sua fantasia in un crepuscolare orto di pace, ov’è possibile l’incontro romantico, tra le apparizioni meravigliose di pavoni ed aironi:
Avrebbero cambiato parola: o forse le avrebbe mormorato lui qualche cosa da sorriderne insieme, a tratti, guardando sopra le torri trasvolare le nubi tenui del cielo, nel fulgore dei mattini infiniti e poi mille rondini nel carosello azzurro della lor gioia, e due falchi alti sopra tutte le bandiere e le antenne: o camminando nei viali de’ folti giardini, dove legiferano con magiche strida i pavoni d’oro e di cobalto, e in sul margine paradisiaco dell’acque sogna bianco nel suo silenzio l’airone: vive i misteri delle tremanti foglie e del sole. (RR II 490)
Zoraide sogna di liberarsi da una esistenza costretta entro i vincoli della frustrante indigenza, del matrimonio, e del rispetto per le convenzioni impostele dalle ideologie così poco attente alla educazione dei sensi – il cattolicesimo della scuola e il socialismo catoniano del consorte. Ad accendere la raffigurazione fantastica è l’incontro con il giovane Franco, portatore di una vitalità ed una determinazione fisica tali da travolgere le deboli impalcature della volontà etica di Zoraide, per indirizzarla a mete romantiche e sensuali, finalmente libere («Ed era un paese senza la guerra, senza i feriti, senza l’esattore della Edison, né Giolitti, né Salandra, né il mobilio del matrimonio: e non c’era né Trieste, né “L’Avanti”, né il general Cadorna, né il gas. Pensò, sognò a lungo: e, a volte, ne’ meravigliosi sogni arrossiva», RR II 495).
Con gli anni Trenta – già a partire dalla Madonna dei filosofi – per Gadda il giardino diventa elemento insostituibile del paesaggio lombardo ed italiano, e, nella prospettiva data dal regime, mediterraneo. Durante la crociera attraverso il Mediterraneo, infatti, a bordo del Conte Rosso compiuta nel luglio del 1931 e documentata in Crociera mediterranea, lo scrittore, approdato con la comitiva in Sicilia, visita le Latomìe; il resoconto dell’escursione è leggibile in Dal Golfo all’Etna (L’Ambrosiano, 6 agosto 1931), ove l’autore introduce un elemento fino ad ora non così evidente dell’idea di giardino, e cioè il sincretismo, non meramente floreale. Le Latomìe sono poco lontane dal luogo ove avvenne la prima dei Persiani di Eschilo e dalla cripta della santa a cui fu negata la luce, Lucìa. Le Latomìe sono la testimonianza concreta di ciò che dovette essere il giardino d’Armida, e divengono pertanto, pur con una varietà arborea limitata, il luogo che libera turgori e policromìe tali da distanziarlo culturalmente sia dalla poesia civile dell’unico tragico degno, secondo Aristofane, di risalire post mortem sulla terra per guidare – sia pur solo poeticamente – la polis, sia dal rigore assoluto del martirio. Il fico, infatti, l’albero maledetto e seccato da Cristo per non avere soddisfatto la Sua fame (Mt 21,18; Mc 11,12), è florido, poiché non deve più prestare il proprio fogliame alla significazione di qualche parabola. (5)
Per tornare alla Madonna dei filosofi, Gadda si scusa nel presentare il «folto e superbo» giardino di casa Ripamonti, perché sa di «dare nel convenzionale»: esso appartiene ad una villa secentesca prospiciente un naviglio, che, seppure puzzolente, presenta il fluire delle acque, segno concreto del tempo umano, contrapposto a quello del mito rappresentato dalle erme (RR I 81). Le statue ormai corrose dal tempo costringono il passante a ricostruire la vicenda mitologica da esse rappresentata: accade, come vedremo, nel Pasticciaccio, ma già nel più antico dei testi poetici pervenutici esse risultano ornamento proprio alla villa, muti giudici delle attività umane:
[…]
Mute guardano l’erme in su le fronti
De le ville il fornir de l’aratura
E lunghi fuochi accender gli orizzonti
Donde ogni volo ai mesti dí si furaNel pomario che al colle il pendío tardo
Sparse già tutto di sue fronde molli
Poi che il greve suo dono ebbe diviso […].
(Gadda 1993a: 3)
Più coinvolgenti sono la ripresa e lo sviluppo del giardino lombardo in Ville verso l’Adda, pubblicato il 30 ottobre 1935 su L’Ambrosiano, e confluito nelle Meraviglie d’Italia del 1939, continuato nel Viaggio delle acque, apparso sul Messaggero il 3 aprile 1940, e in Dalle specchiere dei laghi, pubblicato su Beltempo nel 1941 con il sopratitolo Paesaggio, entrambi raccolti poi nell’edizione fiorentina del ’43 de Gli anni. Nel primo brano, si sottolinea l’integrazione tra le due architetture – quella edile e quella topiaria – nell’esame di due dimore patrizie in particolare, la Villa Borromeo e quella del Subaglio: la prima è governata dal razionale equilibrio illuminista tra l’elemento arboreo e i materiali che lo ordinano («la magica eleganza del secolo di lume»); nel secondo invece incontriamo «la più maliosa delle architetture di giardino» in Lombardia. Vi tornano elementi intravvisti nel Racconto italiano, contestualizzati e fissati in una sacralità musicale: la malìa è data da una:
[…] spontaneità vasta ed aperta: malinconie d’alberi, soli come apparizioni sovraterrene. La imminenza dei monti e degli strapiombi altissimi, quando screziati di neve, versa a questo prato la freschezza e quasi il presagio dell’Alpe, la purità diafana del clima elisio.
Il rosso occidente si alllungava omai sul piano, i cipressi si levavano dentro la sera: dal terrazzo verso luce pareva gocciare in quella irripetibile pausa del vivere, per sospesi attimi, la melodia lunare della «Norma». (SGF I 55-56)
Nel Viaggio delle acque si solca la pianura veneta, sui cui corsi d’acqua si affacciano i modelli architettonici della civiltà rinascimentale, dotati di giardini che interagiscono con le acque fluenti verso l’Adriatico. L’infiltrarsi ordinato e costante delle acque nella vegetazione realizza lo studiato bilanciamento tra il tempo eracliteo – costantemente attivo – e l’illusoria sospensione temporale vigente nell’artefatto hortus; a ricordare l’imperfezione derivante dalla vanitas si ergono le statue camuse, epifania velata del tempo, protese ad un’impossibile mimesi con il regno vegetale. (6)
è significativo che nel corso di questi anni Gadda avesse già elaborato e pubblicato il controcanto anticelebrativo di giardino, ove viene negata l’idea, perché vi è negata la possibilità di sostare e dunque di sospendere il tempo del negotium per riflettere: nella Cognizione del dolore, nel terzo tratto pubblicato su Letteratura nel gennaio-marzo 1939 è un piccolo spazio, opposto al parco, esaurientemente esaminato da Roscioni nella sua valenza sacrale; (7) questo spazio è violato dalla volgarità indigena che ne ignora una fruizione puramente contemplativa, non utilitaristica. Il «piccolo giardino dietro casa» è coltivato e non può né accogliere né trasfigurare i desideri del viaggiatore stanco, l’ingegner Gonzalo, e non concede l’agognato isolamento: la planimetria dettata dalla distorta smania filantropica del marchese padre nega a Gonzalo di fruire di uno spazio esente dalla bruttezza della Storia, poiché è divenuto l’impropria via d’accesso alla villa regolarmente usata, venuto meno il rispetto sacrale della proprietà: «Questo giardino triangolare, e un po’ orto, di minima estensione, con le cipolle e la vigna, e il fico, tutto frescure ed ombre il mattino, permetteva a chiunque di passare in casa dal di dietro, sospingendo il cancelletto in ferro pitturato di verde» (Gadda 1987a: 159). Gonzalo, volgendo lo sguardo a questo spazio violato, ha la tangibile conferma della decadenza della propria classe sociale e dell’impossibilità di poter finalmente trovare requie nell’unico giardino che gli interessi coltivare, e che desidera netto da ogni impropria bruttura, quello intimo:
La sua secreta perplessità e l’orgoglio secreto affioravano dentro la trama degli atti in una negazione di parvenze non valide. Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere, come specie falsa di denaro. Così l’agricoltore, il giardiniere sagace móndano la bella pianta delle sue foglie intristite, o ne spiccano acerbamente il frutto, quello che sia venuto mencio o vizzo al dispregio della circostante natura.
Cogliere il bacio bugiardo della Parvenza, coricarsi con lei sullo strame, respirare il suo fiato, bevere giù dentro l’anima il suo rutto e il suo lezzo di meretrice. O invece attuffarla nella rancura e nello spregio come in una pozza di scrementi, negare: chi sia Signore e Principe nel giardino della propria anima. (Gadda 1987a: 353-54)
Il giardino diventa pertanto orto, niente a che vedere con il biblico hortus conclusus, da cui si diparte il cànone umanistico del giardino. E non è un caso, forse, che nel Pasticciaccio compaia, connesso al secondo polo logistico del romanzo, vale a dire la locanda-antro oracolare-bordello di Zamira, «l’orto» malconcio della tenutaria («a un livello più basso che la quota stradale ordinaria, l’Appia», RR II 150), che presenta un avvilente spettacolo di degrado, coerente con l’ambiente chiuso: gli ortaggi prodotti – «poca bieta scarruffata pure lei: un qualche cavolazzo spampanato nello scirocco, intignato dalle pieridi» – non giustificano l’uso fattone, mentre il vero segno di vitalità è dato dalla presenza della ben nota «bieca gallina». All’interno del romanzo, il giardino, come inteso fino ad ora, è assente, se non per due lacerti degradati: le erme, da un lato, e il giardino pubblico, di origine rinascimentale. Apollo, «de quelli che so’ in giardino, de marmo», soggetto prediletto per i segni lapìdei del giardino, diventa il termine metaforico quasi proverbiale per significare la bellezza di Giuliano Valdarena da parte di un ormai alticcio Remo Balducci «ar Cantinone» ad Ingravallo (RR II 65); ma il giardino, fisicamente inteso, nel romanzo non c’è, se non in una degradata presenza della villa romanamente intesa: non più luogo di delizia, ma postribolo en plein air, ove la madre della Ginetta viene sorpresa in una prestazione erotica da un turista tedesco armato di Baedeker.
La guerra dissolve definitivamente il possibile e consolatorio orizzonte onirico dell’hortus conclusus e di tutto il patrimonio di tradizione ad esso connesso, religiosamente custodito e venerato. Cancellato allora il canone d’ancien régime del giardino rinascimentale destinato al godimento privato e tramontata l’eredità del razionalismo teresiano del giardino pubblico, passerella di sfoggio dell’alta borghesia, in una società di ancor difficile pratica della mésalliance, l’approdo terminale della fuga dall’urbs nella rus, il tentativo estremo di riappropriarsi di quel sogno iniziale di serenità è affidato ad un’epoca così remota da risultare quasi leggendaria: quando si poteva praticare la professione intellettuale senza preoccupazioni pratiche, sotto le mentite spoglie del clericus. Ci si riferisce ad un testo del 1959, pubblicato su Lo Smeraldo, Il Petrarca a Milano, ma, secondo una lettera a Mattioli del 24 luglio 1959, scritto anni prima, probabilmente da abbinarsi alla recensione alla Mostra leonardesca del ’39, non a caso comparsa nella prima edizione delle Meraviglie d’Italia del ’39. Petrarca a Milano, dopo l’edizione in Verso la Certosa del 1961, venne inserito nella ripresa delle Meraviglie del 1964. Gadda vi commenta l’ammirato sollievo di Petrarca, dopo i sette anni trascorsi presso la diocesi di Sant’Ambrogio, per il conforto offerto, col trasferimento nella Certosa di Gargnano, dalla rus circostante Milano, quasi un hortus paradisiaco dove esperire quelle potenzialità sensuali del creato che sono invero il messaggio dell’autore dell’Esamerone. La raffigurazione del gioco delle acque, della dovizia della flora data da Petrarca, non è puramente del canone classico, Gadda ci tiene a sottolineare, ma realtà storica del territorio lombardo dell’epoca. La ricerca dell’otium diventa cioè storicamente possibile in un passato irrimediabilmente perduto, quando il suburbio, invece di una desolata periferia, presentava il suo «spirito libero e liberatore: quello che accompagnava il mutare delle luci: vaporato, al di là dei salici e dei pioppi, dai rivoli, e dalle rogge del piano» (SGF I 397). (8)
Il violento contatto con la Storia comporta il sovvertimento del canone legato al giardino, sia letterario – il genere pastorale – sia artistico. Sono tre i testi che risultano significativi al proposito, e cioè Una buona nutrizione, uscito su Comunità nel novembre del 1948 con il titolo di Un caro figliolo, per essere raccolto quindici anni più tardi in Accoppiamenti giudiziosi; Prima divisione nella notte, vincitore ex-aequo del Premio Taranto nel 1951 e pubblicato sulla Voce del Popolo di Taranto il 13 gennaio 1951, per confluire prima nelle Novelle da un ducato in fiamme, poi anch’esso in Accoppiamenti giudiziosi; e, ultimo in ordine di pubblicazione, La sposa di campagna, pubblicato sul Giornale d’Italia della domenica il 18 aprile 1954, e confluito anch’esso in Accoppiamenti giudiziosi nel 1963, dopo una parziale revisione nel 1960 per la pubblicazione sull’Illustrazione italiana.
In Una buona nutrizione l’azione si svolge a Villa l’Alloro, nel cui giardino, tra i lauri, s’inoltra la giovane Lisa con il suo ingombrante, vorace e silenzioso corteggiatore Claudio; nel giardino si trova un gruppo scultoreo ritraente Apollo all’inseguimento di Dafne: «La inaspettata significazione della pietra, e dell’arte, non riusciva ineloquente, anzi!, per le frequentatrici, né per i frequentatori del poggio». (9) Il mito classico, nella sua forma lapìdea, è sì circondato dalla concreta conferma della perenne forza icastica – l’alloro –, ma le forme delle sculture, normalmente destinate a congelare l’Eros nella rappresentazione, svolgono una funzione opposta. Il complesso statuario, infatti, è lo stimolatore parodico delle pulsioni che dall’asettico ambiente salottiero della villa sono, di solito, pressoché assenti, se non al livello fisicamente e verbalmente basso della servitù, ed è, con i cespugli e gli anfratti circostanti, l’unica area che sfugge all’occhiuta sorveglianza della onnipresente mamma. Il giardino di Villa l’Alloro costituisce pertanto una curiosa sperimentazione di pasticcio pastorale, operata da Gadda: considerata la suddivisione dei ruoli tra i suoi residenti, la Villa presenta una singolare analogia con un modello strutturale di favola pastorale tardo-rinascimentale alla Pastor fido, il genere letterario in cui si verbalizza la nostalgia per una Età dell’oro irrimediabilmente perduta.
All’interno della dimora vi è una rigida divisione tra i personaggi del piano nobile e quelli del piano basso. Da una parte, infatti, la famiglia di Lisa, persone per le quali il tempo non scorre e resta bloccato in amabili conversari di affari di cuore. Costituita dalla madre e dalla zia, e integrata con la presenza dell’amica Elena, la confidente, essa è legata alla falsa Arcadia racchiusa dentro le mura della proprietà ed accerchiata dai lauri; (10) vive inoltre in una singolare ignoranza della Storia dopo il volontario allontanamento dell’unico elemento maschile, il marito emigrato, forse, in America. Dall’altra, la famiglia del satiro, il Baciccia, portatore dell’elemento comico, con le sue parodie in chiave bassamente erotica delle sciocche confidenze del gineceo nobile; essa è formata dalle serve/ancelle a disposizione delle signore, e da Cesare, il giardiniere partorito come visione dalle ore crepuscolari – la «domestica ma intermittente ombra» (RR II 765) –, presenza calibanico-ermetica nel suo materiale rapportarsi alla natura, che contrasta con la superstizione pampsichista dell’illusa creatura d’Arcadia, la signora Gemma, secondo cui «anche le piante hanno un’anima… lo sento… anche i fiori…».
A porre in questione questa finta Arcadia sono due personaggi: il giovane Claudio e la pittrice Violante. Il primo, pur membro per estrazione sociale della famiglia arcade, ne nega il principio fondamentale, l’articolazione del linguaggio e il suo mutismo è scambiato dalla sorda superficialità delle donne di casa per un superiore, classico distacco; (11) d’altro canto, esibisce sfrontatamente i bisogni primari, finalmente ripuliti dalle ipocrisie salottiere. La pittrice Violante è la donna che soddisfa gli ospiti delusi dall’Arcadia frivola e parolaia dell’Alloro: non tanto la guariniana Corisca, quanto la vivente incarnazione del personaggio-mito del drammaturgo da cui la pensione prende nome, Wedekind. Violante è la Lulù in Arcadia, la donna che concreta nella crudeltà espressionista il mito di Pandora, ne stravolge le regole col proprio calcolato candore, poiché è ben consapevole della Storia e, per sopravvivere, non ha per nulla bisogno di una rappattumata parodia della società classista di antico regime, destinata comunque a crollare in breve tempo.
In Prima divisione nella notte vi è un piccolo giardino, in cui memoria letteraria e cruenta realtà bellica si incrociano. Il professore di latino, ennesimo doppio gaddiano à la Hitchcock, alla ricerca di una «camera-studio» in una località costiera ligure, sfiora il litigio con la proprietaria della villa sul mare, per aver osato definire «giardino» il terreno circondante la casa, un’aspra scogliera. Il conflitto non è tanto tra la complessione isterica della donna e l’importuno aspirante inquilino, quanto nella contrapposizione tra un’idea culturale di giardino, ordinata mimesi della verità naturale, e la Natura stessa, che conceda libero sviluppo agli elementi, con il solo requisito della delimitazione di proprietà. La signora, in un’esaltata esibizione di orgoglio materno – colpa che pagherà con la tragica fine del figlio al termine del racconto –, non esita a vantare le qualità di «giardiniere» di Vittorio, capace di disporre le rocce per l’elemento artificiale del giardino, il sentiero:
«Non è un giardino, il mio!» urlò: «Non sono una donna da vivere in giardino!… chiusa in una villa», e fece una smorfia di spregio, «come un canarino in gabbia. È la casa del mare, questa: e fuori c’è il mare! C’è la natura, fuori! E gli spiriti agitati della natura!… la scogliera, le rocce…» Non bastando, le vere, (da ultimo arrivai a comprendere), ne aveva ad esse aggiunto di finte: il ragazzo aveva aiutato alcuni muratori a collocarle: imparata l’arte, ne aveva collocate alcune da sé solo. (RR II 871)
Il rifiuto della definizione «giardino» per la scogliera artificiosamente disposta comporta il conseguente rifiuto del necessario allegato, il concetto di villa. Eppure, questo luogo che fuoriesce dai canoni del giardino all’italiana, un antigiardino dunque, offre a chi è alla ricerca d’una pausa lo stesso conforto – iterato («mi piaceva», «amavo», «mi dilettavano», «veneravo») del suo antagonista, soprattutto se si pensa alle potenzialità simboliche che la poesia montaliana degli Ossi di seppia e della Casa dei doganieri ne aveva tratto:
Mi piaceva discendere nel solleone il sentiero delle rocce di puddinga, come d’un caro e caldo se pure artificioso Presepio: di cui fossi un umile pastore: il più discosto, con la sua zampogna, dalle dolorose ore del mondo. […] Sostavo lungo il sentiero, ad ogni strapiombo sul mare. Amavo le agavi e le loro spine, così truci su quella costa affocata, nella pienezza del meriggio mi dilettavano con mille forme non pensate le grasse piante spinose verde pisello, o verde sottaceto, che un giardiniere sapiente aveva inserito nella luce e nel sasso, contro il sole, davanti al cobalto del mare: veneravo l’irraggiungibile guizzo del ramarro che ogni volta, a metà del sentiero, mi traversava il passo come una folgore verde, genius loci. (12)
Il professore cerca la tranquillità e l’isolamento per poter studiare, ma trova il sogno della salute, ripresa ed epilogo del sogno di Luigi Pessina: allora il tisico fante si avviava al fronte, cosciente di un inevitabile destino tragico, data la propria estrazione sociale; qui il demiurgo del locus amoenus, Vittorio, alfiere di solare vigoria fisica, non ne godrà, cadendo nella battaglia di Capo Matapàn.
Una vittima non diretta del conflitto, ma di danni collaterali, fu Gadda – si ricordi la pericolosa prossimità di via Repetti 11 alla linea ferroviaria e, in particolare, alla stazione di Campo di Marte. Nel terzo passo ricordato, La sposa di campagna, racconta di una fuga, molto presumibilmente autobiografica, da Firenze bombardata durante la Seconda guerra mondiale: il profugo incontra un paesaggio campestre rigoglioso, ma di cui non può godere perché l’iter del personaggio è mirato al sostentamento, per ritrovarsi invece impaniato in un probabile raggiro matrimoniale, facendo scadere quindi il resoconto di un drammatico spaesamento in una commedia borghese. Il genere, però, a cui risulta più ascrivibile tale testo è la letteratura rusticale, che ebbe nella Beca di Decomano di Luigi Pulci e la Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici i testi più rappresentativi, genere che, nella linea istituita da Carducci nel famoso saggio sull’Aminta tassiana, può dirsi iniziatore di quella letteratura che fiorì nella corte estense a Ferrara. Nel suburbio fiorentino, l’avvocato protagonista – ennesimo doppio gaddiano – si deve rapportare con una realtà iconografica della rusticità prostituita dai tempi ai traffici della borsa nera: l’avvocato è la vittima del peccato originale, espulso dal Paradiso terrestre della alimentazione regolare – vero e proprio Paese di Cuccagna –, seppure acquisita in modi illeciti, ma resi inevitabili dalla Storia. E il tema della espulsione dall’Eden si completa con il negato ingresso alla Villa, il cui cancello gli viene chiuso in faccia e il cui accesso gli è impedito da un cane di demoniaca ferocia: (13)
Tutti, pensò l’avvocato, tutti, tutti! A vestirsi delle penne dell’arcangelo, a brandire la sua spada fiammeggiante, che scaccia di paradiso l’Adamo: tutti: con la protervia e col pallore crudele d’un sedicenne corrigendo, quando ha la legge per sé. Mangiavan di nascosto. Si approvvigionavano a brùzzico. Sbranavano bistecche nottetempo. Rosicchiavano mandorle: scavavano dentro i salumi nelle cantine, come topi. Friggevano alle tre di notte, allorché gli stivali ferrati della ronda erano vaniti nella notte. Avevano pane e farina. Per lui, per lui solo, i polverosi chilometri, i paracarri infiniti. (RR II 826)
Il famelico viandante vaga in un mondo di serenità primaverile, hortus terreno di completa varietà, in cui Flora si congiunge a Pomona, trovando il punto d’incontro nell’abbondanza delle piante aromatiche («i mirti, i cespi di rosmarino, ch’erano più prossimi all’erbe, al timo e al mentastro», RR II 827). Il carattere topico di eden primaverile è rafforzato poi dall’incontro dell’avvocato con le due bambine, che l’abbigliamento e i relativi addobbi richiesti dalla funzione religiosa, a cui hanno appena partecipato, rendono simili a cherubini. (14) La loro reazione e quella delle rispettive madri conferma lo status di escluso per il viandante Gonzalo, colpito dallo stigma della fame e della povertà, classificato al pari di un animale che turba la serenità d’Arcadia, il «lupo improvvisamente apparso nel giorno», mèmore di quello dell’Aminta. A Gonzalo, per essere integrato nel miraggio dell’opulento contado, non resta che ripiegare sulla assai più domestica Arcadia a disposizione nella drogheria-cornucopia della leggendaria Marianna, dove i bisogni primari (alimentari ed erotici) possono venire soddisfatti, a condizione che venga passato l’esame d’ammissione dell’inquisitrice. Il primo atto di soccorso, comunque, è offerto a Gonzalo con un poco di vin santo, versato in un bicchiere «del tempo di Zanardelli»: la storia materiale, così, prende infine il sopravvento su eventuali topoi letterari, e la vera fuga possibile, concreta, è quella del ricordo di una società definitivamente tramontata – l’Italia demo-liberale precedente la prima guerra mondiale –, sostituita dalle sanguinose ed inconciliabili contrapposizioni ideologiche che hanno condotto allo sfacelo di cui Gonzalo è vittima. La riammissione nell’Arcadia con cui si è venuti a contatto può divenire realtà, se si accondiscende a sposarne un membro, la giovane Luciana, assoggettandosi alle sue regole domestiche.
La Storia non si limita a distruggere le illusioni estetiche concesse dal cànone della tradizione, ma infierisce anche sui suoi manufatti: l’opera del Tempo sulle erme, allora, si specifica non come azione corrosiva di agenti atmosferici, ma deliberato annientamento di un’oasi-rifugio. L’8 aprile 1948 viene pubblicato su Risorgimento liberale (15) il racconto Un invito al Club del tre a cuori, ripreso successivamente nel Giornale d’Italia della domenica il 28 febbraio 1954 e nell’Illustrazione italiana dell’ottobre 1960 con il titolo Club delle ombre, con cui – previa aggiunta dell’articolo determinativo – verrà incluso nella raccolta Accoppiamenti giudiziosi. Nel racconto, la signorina, insegnante liceale di storia dell’arte, cerca di porre a contatto con l’iconografia pittorica della civiltà italica (Mantegna, Gentile Bellini, Carpaccio, Giorgione, Caravaggio, Tiepolo, Canaletto, Tiziano, Tintoretto, Correggio) la ribollente esuberanza dei suoi allievi. La diafana bellezza della signorina, custode di un segreto destino luttuoso, (16) creatura partorita da un oltremondo, degna di un aulico «ella», distintivo dalla realtà a lei estranea, è l’elemento floreale – la ninfèa – di cui il giardino del club è completamente privo. Dal luogo di un incontro inopinato – il «giardino della vasca», entro il parco, ove ella si è appartata per riflettere, gli studenti per marinare la scuola – la scena si sposta, infatti, alla realtà di un ex-giardino violata dalla guerra. La scelta di una descrizione gotica – il luogo è prossimo ad un cimitero – soddisfa l’espressione del contatto con l’orrore materiato in recenti rovine:
Il vecchio torracchione vestito d’edera venne loro incontro, sul vecchio poggio dei morti. Il sole affondava già nel padule delle nubi: s’impelagava nelle sue nuvole di porpora. Il suo splendore vaniva, di là dalle abetine e dai pruneti, oltre la remota quiete del mondo. A piè della torre, una pozza: era il frontone circolare di una bomba, un orrore spento: della mota, nel fondo, come polta in una dimenticata scodella. La folgore d’un liberatore aveva escavato in uno schianto il cratere, denudando al muro le radici. (RR II 846-47)
All’interno, la degradazione di un altro luogo topico gaddiano – il salotto – contempla una cromatica presenza floreale («un narciso, un tulipano, uno scarlatto garofano», RR II 847), presentate a mo’ di omaggio in un gioco blandamente erotico dai tre allievi alla signorina. Lei, concrezione viva di un patrimonio che la Storia ha disperso, non può che seguire l’invito di uno studente a contemplare un indefinito orizzonte, ma non leopardianamente liberatorio: «Là c’è il tempo: il tempo di tutti noi» (RR II 848).
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Note
1. R. Assunto, ***, in Città e società 11, no. 1 (1981): 7.
2. «Un botanista apprese dal carpentiere che il legno del larice era buono da finestre e da banco: e volle che fossero tutti larici intorno alla casa. Andò anche dallo speziale e disse: larici! E dal cavallaro e disse: larici! E dal mastro muratore e disse: larici! Avvenne infine che gli bisognasse una gran tavola, da disseccarvi alcuni funghi velenosi: che intendeva distinguere dai mangiativi. Gli disse, il carpentiere, che gli facesse, alla tavola, le quattro gambe di legno pero: che a tornire vien meglio. E gli sovvenne, al botanista, che nel secolo pur allora consumato, c’era un pero nel giardino. Ma i larici tenevano il suo luogo oggimai. Questa favoletta ne certifica: ogni forma dell’Essere la merita tutela nel Jardin des Plantes. E la parola d’ordine è da incuorare i dementi» (SGF II 13).
3. Forse è il caso di ricordare il passo nella sua completezza: «Il mare, ch’egli non avrebbe mai, forse, veduto. La Liguria che dicevano sfavillante di sole, con il garofano e il basilico ne’ terrazzi, con l’ulivo sul monte ed i sonanti pini d’attorno la solitudine de’ fari, sullo scoglio precipite al margine de’ favolosi giardini: con i suoi vecchî tetti embricati di tenace ardesia, con i muri squamati d’ardesia contro il piovasco» (RR II 529).
4. «Quel corpo stupendo, si era forzati ad ammetterlo, Dio lo aveva fabbricato per qualche suo piano o scopo, dove indubbiamente figurarono circostanziate tutte le ragioni della divina saggezza e avvinte poi nel nodo trionfale d’una così fulgida sintesi, che la nostra filosofia avrebbe preferito girare alla larga. A qualcosa doveva certo servire: e nell’oscura coscienza fisiologica della donna, oscura ma ferma, il qualcosa, senza troppa metafisica, diventava qualcuno. Quel corpo era per qualcuno, ne aveva, di momento in momento, la fede» (RR II 488).
5. «Il conduttore, un giovane sobrio nel commento, preciso nella dizione, con voce imperiosa ci guidò per i laberinti incantati delle Latomìe, per entro le grotte che gli antichi cavatori han praticato nella dura materia della lor terra: a proposito delle Latomìe mi sia conceduto di tirare in scena il giardino d’Armida, anche perché proprio il fico vi turge meraviglioso nella calda luce, e se ne vivifica il verde dell’arancio, quasi prèsago dell’oro, e vi respira l’oleandro, con il sanguineo dono de’ fiori, foltissimo. La malinconiosa cicala faceva più immensa e come vivente la luce» (RR I 198).
6. «Il sommesso discorrere delle correnti, alle radici dei pioppi, dei salci, la pervade come nobile pensiero: docilità che fluisce tra gli ori e i gialli, e per entro le ombrie maliose dei più alti alberi: o sotto alle chiome ricadute del salice, di cui la vena lambisce e dolcemente comporta l’ultima sfrangiatura che pur vorrebbe andare con lei, specchiando nuvole, torri»; «Di là dal fiume la villa, con romani pini: e dall’ombre di quegli archi o grotte o meditanti caverne, l’antica morsura dei licheni. E un paniere di fiori di porpora davanti la fronte e il disegno dell’edificio, e i gialli e i maceri verdi d’autunno» (SGF I 207, 209).
7. L’agitarsi notturno delle foglie costituisce un severo coro, nel valore di «simbolo di un pagano, incorrotto e religioso passato» (Roscioni 1969a: 6).
8. «Non è letteratura. Una ricca fauna selvatica, e la caccia in conseguenza, erano a quel tempo realtà. Il cinghiale era ben presente, allora, nei boschi lombardi. Con larghe radure, certo, ma dai monti di Varese e del Comasco l’abetina arrivava quasi alla Cagnola» (SGF I 397).
9. «Il dio giovane si studiava abbrancar Dafne, raggiuntala dopo l’affocata sua corsa, giovinetta mortale. Per quanto con via il naso tutt’e due, e vestiti d’edera insino all’anche e de’ suoi tremuli corimbi (nello spiro della sera), i due fuggenti, il disamato e l’amata, non ristavano dal suggerire al cuore pensieri… o al cervello… che inducevano al cuore a noncurare affatto il cervello» (RR II 771).
10. «Al di fuori, a frotte, i lauri si addensavano ad accerchiare la dimora degli uomini, a lambire i vetri verso cui tramontàno li sospinge, talvolta, e ne incurva la fronda. E si direbbero cani assai belli, e un po’ inutili dopo spenta la caccia, che si raccolgano d’attorno al padrone, annusandogli a quando a quando le scarpe, e ne affisino la sicura identità» (RR II 764).
11. «Non diceva una parola: reggeva con aria inebetita la sigaretta, tra il medio e l’indice, si conformava di buon grado a tutte le esortazioni della signora Gemma […]. La sigaretta, per mimetismo delle labbra, principiava subito a languire lei pure: e dopo un qualche minuto si spegneva. Lui seguitava a reggerla tra il dito indice e il medio, poi tutt’a un tratto si risolveva: e allora l’acciaccava pensosamente, nel portacenere: con una ruga orizzontale nella fronte. Prendeva, tacendo, tutto quello che gli offrivano. Accoglieva, nella tazza, la fettina di limone o le tre gocce di latte con un’indifferenza metafisica, con l’atarassia del filosofo […]» (RR II 773).
12. RR II 873. Si ricordi l’emozione provata da Gadda crocierista nel Mediterraneo davanti a giardini pensili delle case di Tripoli: «Muri e muriccioli bianchi divisero, dentro cinta, stupendi folti di palme: dadi bianchi le dimore (dentro i verdi giardini), sulle di cui facce il sole si ferma, bloccato» (RR I 193).
13. «Al cancello, imagine agitata della bestiaggine, ci fu di nuovo il ringhioso: […] la groppa e le zampacce d’un bianco sudicio di lana grama, in un arruffio di pelo e di festuche: la turpitudine rosa della bocca: il feroce avorio dei denti, coi quattro cavicchi per isbranar le carni a’ cristiani: il nero umido d’un naso cimurroso: gli occhi piccoli e scuri, infossati nello zelo malvagio, nella rabbia» (RR II 825-26). La dolorosa esperienza di sfollato di Gadda emerge invece nella corrispondenza a Lucia Rodocanachi: «[…] fuga, freddo, fame, tenebra, paura, miseria. La “legge” mi obbliga ora a dividere l’alloggio e le suppellettili e i mobili con degli sconosciuti: l’essermi allontanato dalla bombardata casa mi ha valso questo» (Gadda 1983d: 154, lettera 12 luglio 1945).
14. «[…] due bambine, coronate i capelli biondi e castani d’un serto di fiordiligi azzurri, di gialli ranuncoli e di margherite: con alucce d’argento, alle spalle, e il vestitino rosso, le scarpette di vacchetta bianca» (RR II 827).
15. Sull’importanza della lettura di Risorgimento Liberale per la gestazione del Pasticciaccio si veda Andreini 1988: 156.
16. «[…] il sùbito fiore della ninfèa, che si dice scaturito dalla notte; nell’incanto della sua tristezza, con lo sguardo rivolto ad un oltremonte remoto, di là, di là dai giochi e dai castelli di rovaio, e dalle sconosciute frontiere: dietro alle quali erano andati, i giovani, insino a non averne più saluto, né ricordo, verso il nulla. […]: le sue mani eran bianche, i lunghi diti fini si acuminavano nelle piccole unghie di madreperla… o di cera» (RR II 845-46).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-06-X
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framed image: after a detail from Vittore Carpaccio, Meeting of the Betrothed Couple and the Departure of the Pilgrims, 1495, Venice, Accademia.
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