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Le scorribande dell’entelechia:
sulla Cognizione del dolore
Cristina Terrile
«i fagioli, le zucche, i cocómeri oblunghi sono altrettante scorribande, verso il barocco, della entelechia delle zucche e dei cocómeri quali natura tuttavia li elabora»
Nello pseudodialogo fra l’Editore e l’Autore aggiunto in appendice all’edizione einaudiana della Cognizione, Gadda, opponendosi a chi addebita il barocco del suo romanzo ad una tendenza espressiva o ad una volontà dello scrivente, obbietta che barocco non è Gadda, ma sono le «singole trovate di una fenomenologia a noi esterna» (RR I 760), indipendenti dalla «nostra responsabilità mentale e pragmatica». Ora, la natura e la storia, prosegue Gadda, cioè il «succedersi di tentativi di ricerca, di conati, di ritrovati, d’un Arte e d’un Pensiero che trascendono le attuali nostre possibilità operative, o conoscitive, avviene fàccino a loro volta un passo falso, o più passi falsi: che nei loro conati, vale dire nella ricerca e nell’èuresi, abbino a incontrare la sosta o la deviazione “provvisoria” del barocco, magari del grottesco» (RR I 761). Barocco è il violoncello, si legge in una nota all’Appendice, come barocco è il contrabbasso; il femore è «osso barocco», come la gobba del dromedario e «le trippe del pretore Mamurra». E la nota conclude: «i fagioli, le zucche, i cocómeri oblunghi sono altrettante scorribande, verso il barocco, della entelechia delle zucche e dei cocómeri quali natura tuttavia li elabora» (RR I 760). Il barocco, il grottesco si annidano insomma nel «fegato macchinatore della universa realtà» (RR I 761), rimasto impigliato nella sua ricerca, intrappolato in successivi culs de sac, e albergano nelle cose, nei luoghi, negli spazi, nelle persone, definendosi fra le possibilità compatite del divenire come «scorribande» dell’entelechia.
La Cognizione del dolore sorge in effetti, più di qualunque altra opera gaddiana, nel cuore di una dissociazione, di un incepparsi del conatus che, smarrito il «nesso unitario», (1) rimane fuori dal flusso dell’ininterrotto procedere. Il fatto che, nell’appendice al romanzo, i passi falsi della natura e della storia siano definiti, al tempo stesso, come scorribande dell’entelechia è indice di un’ambivalenza fondamentale del concetto gaddiano di barocco. Da un lato, esso sembra designare un errore, una deviazione rispetto a ciò che il mondo dovrebbe essere, – laddove fosse ammessa la possibilità di un divenire capace di realizzare direttamente l’entelechia, senza deviazioni. Alla luce della distinzione aristotelica fra l’entelechia, intesa come atto, termine realizzato dell’azione che non contiene più alcun divenire, e l’energeia, cioè l’azione, intesa come attualizzazione dell’entelechia nel divenire, (2) il passo falso si configura come un’impasse, uno slittamento fuori dall’energeia, dalla realizzazione diretta dell’entelechia. Dall’altro lato, il concetto di scorribanda dell’entelechia rinvia ad una deviazione il cui soggetto è l’entelechia stessa. La totalità dell’atto, dell’entelechia, in questo caso, non è soltanto la finalità allo stato puro, ma una finalità arricchita da tutte le escursioni che da essa possono diramarsi. Il reale è il prodotto di un incessante processo di sperimentazione, e «il raro fiore dell’evento nasce da una molteplicità di tentativi e da un rinnovarsi di prove» (I Viaggi la morte, SGF I 625). Un mondo privo di deviazioni barocche sarebbe povero, schematico, incapace di realizzare tutte le possibilità contenute nell’entelechia. L’energeia possiede insomma un peso ontologico maggiore in una natura e in una storia che integrano i passi falsi.
La tensione fra questi due valori della scorribanda – da un lato, passo falso, dall’altro, ricchezza dell’essere – è presente in tutta l’opera di Gadda, e apre a due punti di vista diversi sul mondo. Il primo, sintetico e interno, coincide con il divenire stesso in tutta la ricchezza della sua attualizzazione, ed è ciò che Gadda chiama l’euresi. Il secondo punto di vista, analitico ed esterno, prende in considerazione ciò che il passo falso ha di isolato, configurandosi esso stesso come sguardo separato che mette a distanza gli elementi barocchi, li isola e li oggettivizza. In tal senso, esso partecipa di ciò che Gadda chiama pausa, o sosta, dell’euresi. Per l’uomo che, come tutti gli esseri, conosce il passo falso come l’energeia, il momento euristico per eccellenza è l’arte, attraverso cui l’attività umana ritrova il senso del groviglio universale e accompagna, con la sua creazione, il divenire delle cose, che sono, al tempo stesso, teleologicamente determinate e dispiegate attraverso le scorribande del barocco. In base a questa prospettiva, La cognizione del dolore occupa un posto del tutto particolare in seno all’opera di Gadda, proprio in quanto tenta una sorta di quadratura del cerchio, configurandosi, per così dire, come euresi della pausa dell’euresi. Nel romanzo, lo sforzo euristico dell’arte non cerca di restituire la profusione creativa dell’energeia, ma coglie i passi falsi, gli errori dell’attualizzazione nella loro separatezza. (3) Lo slancio creatore, che pertiene essenzialmente ad uno sguardo sintetico ed interno alla produzione del divenire, si sforza qui di disfare il divenire, di separare gli elementi barocchi dalla finalità che essi, su scala cosmica, realizzano. La struttura del romanzo si fonda sulla coesistenza di monadi separate, la cui giustapposizione costituisce un mondo esso stesso separato. Di fronte a questi elementi tenuti a distanza dal divenire, la sintesi creativa afferma la sua presenza in un’articolazione combinatoria delle parti e in una forma narrativa che alterna la parola spastica e la mescidanza stilistica di altre opere gaddiane con una lingua generalizzante, astratta e ordinatrice, indice di uno sforzo creatore epurato che, separatosi dagli elementi barocchi, scivola verso un’attualizzazione più rapida, senza scorribande, senza la ricchezza del reale. (4)
Se in generale, nell’euristica gaddiana, il divenire prevede il raggrumarsi del reale in tipi o sistemi intesi come «posizioni della conoscenza, pause dell’euresi: trovate dell’euresi per tirare il fiato» (Meditazione, SVP 815), nella Cognizione il rallentamento dell’eurein, l’incepparsi del conatus, dell’«autodeformazione procedente» (SVP 784), sbilanciano, più che altrove, l’equilibrio essere-divenire. (5) Nel Maradagàl, gli abitanti, si legge, hanno una «felice attitudine a smemorarsi, […] del fine imperativo cui sottostà il diuturno lavoro delle cellule». In tal modo, «si smagliano» entro il compatto tessuto «i caritatevoli strappi dell’eccezione». Quando cioè la finalità etica e la «carnale benevolenza verso la creatura umana» entrano in contrasto, vedendo prevalere la seconda, ecco che la finalità esonda dall’alveo originario, devia e prende nuovi percorsi: «una nuova serie di fatti ha inizio, scaturita come germoglio, e poi ramo, dal palo teleologico» (RR I 573). Se la via verso la realizzazione del télos non è diritta né facile da percorrere, è perché qualcosa resiste, qualcosa che appesantisce il divenire, lo tira verso l’indietro e tende a bloccarlo. Questo principio di impedimento è propriamente la materia, (6) una materia concepita da Gadda non in maniera strettamente aristotelica, ma piuttosto come puissance passive, nel senso in cui Leibniz la definisce nei Nouveaux Essais, laddove distingue, a proposito della forza (intesa come puissance active o faculté), fra entelechia e sforzo:
La force serait ou entélechie ou effort; car l’entélechie (quoique Aristote la prenne si généralement qu’elle comprenne encore toute action et tout effort) me paraît plutôt convenir aux forces agissantes primitives, et celui d’effort aux dérivatives. Il y a même encore une espèce de puissance passive plus particulière et plus chargée de réalité, c’est celle qui est dans la matière, où il n’y a pas seulement la mobilité, qui est la capacité ou réceptivité du mouvement, mais encore la résistance, qui comprend l’impénétrabilité et l’inertie. Les entélechies, c’est-à-dire les tendances primitives et substantielles, lorqu’elles sont accompagnées de perceptions, sont les âmes. (7)
Nel suo procedere a macchia d’olio, per concrescenza e autodeformazione del reale, l’opera di Gadda non documenta l’entelechia come pura forma ma, appunto, le sue scorribande, i suoi passi falsi, cioè l’energeia, lo sforzo di realizzazione dell’entelechia entro una materia che resiste. Ma nella Cognizione del dolore, ove il «diorama delle concause» occupa il «tempo finito» fino a saturarlo, ove «ogni finalità, ogni possibilità, si [è] impietrata nel buio…» (RR I 633), la passività prevale sull’attualizzazione. In termini leibniziani, le «forces agissantes dérivatives», insabbiatesi da tempo in una materia in cui dominano la resistenza, l’inerzia e l’impenetrabilità, sembrano cedere al peso della realtà materiale piuttosto che obbedire alle forces agissantes dell’entelechia.
Laddove l’attualizzazione di un fine si inceppa nella resistenza della materia, sorge il sentimento come rivolta. In maniera generale, il sentimento, spiega Gadda in un passo dei Viaggi la morte, (8) è «indice della funzionalità teleologica». La finalità, come l’entelechia, non esiste allo stato puro, ma, per attualizzarsi, deve fare i conti con la materia, che è la «“premessa logica” su cui lavora ogni impulso finalistico, ogni “forma” attuante se stessa». (9) Se per il concetto di materia, di «meccanismo proprio» come «sopporto della evoluzione», Gadda si situa lungo un’ascendenza precisa, che da Platone porta, attraverso gli evoluzionisti, fino a Bergson, la chiusa del brano mette in gioco un problema più ampio di cui l’autore rivendica l’originalità: «è strano che le acute dottrine trascurino i fatti del sentimento, il quale costituisce l’indice della funzionalità teleologica. Se il sentimento è rivolta, ciò significa che il dio operante ha sbagliato» (SGF I 581). Idealmente, il sentimento esprime la sintesi fra il livello più basso e quello più elevato dell’essere, fra la materia e l’entelechia, quando la materia è docile e il divenire, sotto la direzione della finalità, imperioso. L’indice perfetto di questa sottomissione all’entelechia è la beatitudine che, nella Meditazione milanese, Gadda designa come «uno stato del sentimento che ci indica in quale misura noi potremo adempiere la nostra funzione immaginata» (SVP 642). Altri sentimenti pertengono invece ad uno «squilibrio del pensiero rispetto al destino», o ad una distonia fra l’essere materiale e il divenire. Ora, nel caso che ci interessa, il dio operante, l’entelechia che attira a sé la materia, appare impotente a condurre il divenire e lascia libero corso alla resistenza. Il sentimento come rivolta è l’indice di questa teleologia deviata. Sotto questa luce, il postulato dei Viaggi la morte che recita: «Anche la finalità eccede ed erra e viene in questo errore a negarsi» (SGF I 581) definisce i termini di una questione centrale nella Cognizione del dolore: il romanzo sorge infatti sul terreno di una finalità che, nella sua lotta contro la materia, ha preso una via «sbagliata» (di cui la rivolta di Gonzalo è indice), una deviazione che, divenuta senza ritorno, coglie personaggi e cose entro una così lunga pausa del loro essere che un ritorno a via libera del «fegato ricercatore» della realtà (10) appare qui, più che altrove, non percepibile entro un tempo umano.
Sorto, come è noto, da un complesso periodo di gestazione e composto progressivamente dalla somma di pezzi spuri, il romanzo articola fra di loro due realtà compresenti ma non comunicanti. Da un lato, i due personaggi centrali, Gonzalo e la madre, gravidi di passato, determinati essenzialmente dal proprio dolore (un dolore diverso e, al tempo stesso, comune), dall’altro, una massa indistinta, o comunque poco individualizzata, emanazione di un luogo circoscritto della cretinità del mondo, il Maradagàl, la cui posizione di spirito pare definita da sempre ed essere promessa all’eternità. Laddove le scorribande sono considerate come già attuate, come passi falsi ormai separati dal divenire, ogni cosa appare trascinata verso l’origine, cioè verso quella resistenza della materia che Gadda, nel passo già citato dei Viaggi la morte, identifica con l’infanzia dell’essere (SGF I 591). Una tale costruzione, ove l’isolamento monadico delle parti prevale sulla loro interazione, fa della Cognizione il romanzo più statico di Gadda, quello in cui le infinite combinazioni convergono in una lunga, seppur provvisoria, invariabilità, in un’«impossibilità del mutamento del momento-persona» (Racconto italiano, SVP 472). La composizione del romanzo per tratti autonomi conduce Gadda ad accentuare progressivamente l’atemporalità e la generalità rispetto alla singolarità di un evento iscritto nel tempo. Lo sviluppo dell’intreccio, precisa Manzotti nelle note al testo, avviene nel senso di una accresciuta complicazione: «(transizioni continue dal generale al particolare e viceversa, in particolare dissoluzione dell’evento singolo entro la serie e il tipo, e minuziosa casistica del molteplice)» (RR I 864). (11) La dimensione analitica del romanzo emerge da questa maniera di disporre una pluralità di elementi particolari a partire da un punto di vista generale. Non a caso Gadda parla, a proposito della Cognizione, di «racconto interiorizzato e in certo senso veristico». (12) Solitamente Gadda concepisce la narrazione non come discorso interiorizzato, ma come discorso interiore, nel senso in cui la sua lingua ci conduce all’interno della creazione in atto, nel cuore dello slancio che produce la molteplicità del reale, dispiegandola in una profusione di metamorfosi successive. Dire della Cognizione che è un racconto interiorizzato implica riconoscere che esso non è originariamente scritto dall’interno delle cose. Nel romanzo, i personaggi sono contemplati nella loro esteriorità generalizzante, e l’interiorità diventa, a sua volta, un programma da realizzare. Il «verismo» del romanzo risiede proprio nel suo punto di partenza tipologico che, come tale, contraddice l’euresi gaddiana del lavoro creativo. Sotto questo aspetto, i frequenti spunti lirici, espressioni di un lirismo astratto, erratico, slegato da qualunque soggettività (Luperini 1990), sono tracce di una liricizzazione ab aesterno, programmatica, ritualizzata, che apre squarci su una temporalità sospesa, inappartenente. (13) Ne deriva l’andamento spezzato, contrappuntistico di una narrazione ove, entro la parodia e il pasticcio, affiorano bolle di sublime, scatti speculativi, interventi volti a ripristinare, accanto alla trama delle concause, qualche lacerto di un’eziologia svuotata. (14) La stessa struttura definitiva del romanzo, arricchita di appendici esplicative e «chiarimenti indispensabili», viene a consolidare l’orientamento esterno dei significati verso una provvisoria convergenza. Tali sacche di impersonalità teorica o lirica, contrappunti atemporali dell’esuberanza fenomenica, qui più frequenti ed estrinseci che in altre opere gaddiane, rinviano ad un’ermeneutica che esplora l’essenza, il noumenico.
Quando il romanzo si consolida finalmente intorno al suo nucleo originario, recuperando i tratti transitati nell’Adalgisa e altrove, esso appare definitivamente strutturato intorno ai due elementi menzionati (il figlio e la madre / gli altri), nuclei separati fra i quali il solo tramite appare il dottore, che comunica, benché limitatamente, tanto col figlio quanto con la popolazione del Maradagàl. Ed è proprio al dottore che viene affidata l’espressione del principio dell’«immutato divenire», che si configura come il nodo fondamentale di un romanzo tutto incentrato su una realtà che non diventa, ma è già diventata. Nell’esprimere l’idea di un più vasto intreccio delle cause lungo il cammino delle generazioni, il «buon medico» evoca l’impasse di un divenire in cui gli umani, senza eccezione, compresi «i marchesi, che hanno l’arme sulla bertesca», tendono con sforzo inane verso una luce che invece retrocede, quella di un divenire immutato e, soprattutto per le «anime sbagliate», immutabile e doloroso: «Ma non c’è magistero per le anime sbagliate: le loro piaghe non conoscono cipria. […] Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!… che recede, recede… opaca… dell’immutato divenire. […]. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo» (RR I 604). Il concetto di anima «sbagliata» rimanda all’errore di una finalità che, secondo il già menzionato precetto dei Viaggi la morte, nella sua eccedenza, può prendere una via «sbagliata», incagliandosi in una deviazione senza ritorno dell’entelechia.
Nell’ambito di questa finalità deviata, la materia, intesa, si è visto, come «“premessa logica” su cui lavora ogni impulso finalistico», appare, entro la pausa dell’euresi, dominante. Se per anima si intende, leibnizianamente, ciò che differisce dalla semplice monade in quanto percezione più distinta e accompagnata da memoria, che agisce, tramite appétitions, fini e mezzi, secondo le leggi delle cause finali, questa appare, pur diversamente in ognuna delle due realtà non comunicanti, appannata o, addirittura, completamente ottusa. Da un lato, gli abitanti del Maradagàl sono piuttosto assimilabili a quelli che Leibniz definisce, distinguendoli dagli animali, come «viventi», (15) esseri empirici, letargici, nei quali domina non un’anima, ma appunto una monade che non supera mai lo stadio empirico della coscienza di sé, e muore senza aver goduto di ragione e conoscenza. Dall’altro lato, Gonzalo e la madre, superstiti entro «il sopravvivente domani», in un «mondo sordo, perduto, già lambito da lingue di tenebra», sono irretiti in una realtà gravida di dolori passati che, ossessivamente riattivati dalla memoria o pienamente rimossi, (16)) sostanziano il loro presente come «reliquato di smarrite cagioni» (RR I 619). Certo, entro il «campo oltraggioso di non-forme», di «Giuseppi paleo-celtici» e Battistine «gozzocretine dalla nascita», capaci tutt’al più di cogliere la «cara normalità della contingenza», di vivere in un presente senza memoria né finalità, saldi «nel turgore supremo della certezza e della realtà biologica» (RR I 694), il figlio si distingue per una percezione più distinta dello snodarsi della temporalità, (17) della memoria. A differenza degli altri personaggi, che si limitano a vivere nel fenomenico, anime «senza sillabe» che testimoniano dell’anamnèsi, (18) Gonzalo possiede gli strumenti della coscienza. Ma la coscienza di Gonzalo non è l’euresi, non è la conoscenza intensiva del divenire: partecipa anch’essa, a suo modo, della fissità, della coazione a ripetere, del processo euristico rallentato che domina nel romanzo. Tutto allora (sentimenti ed atti) appare come già registrato al catasto dell’inevitabile: «Già è stato allegato agli atti il mappale della tristezza, è stata disegnata, in tutti i particolari, la scena della violenza» (RR I 712). Entro un tale divenire, che non è vissuto, ma percepito come già compiuto, i personaggi si installano in una sorta di ritorno perpetuo del compimento, un compimento inteso non come realizzazione di un fine, ma come chiusura nell’impossibilità di raggiungere un senso. Il tempo che domina non può, allora, essere altro che l’imperfetto, associato, in molte occasioni, ad un presente fisso, che indica la consuetudine (essi sogliono, essi sono, si chiama, lo chiamano, sono soliti dire). (19) Mentre nel Pasticciaccio il passato remoto indica come, nell’esuberante proliferazione del divenire, gli esseri sono provvisti di un vero compimento, di un télos che conferisce loro una determinazione completa aprendoli, al tempo stesso, su altre possibilità, i personaggi della Cognizione vivono in un tempo entro il quale non si manifesta mai una vera finalità: un tempo imperfetto, appunto, la cui stessa imperfezione si fa destino, chiusura perpetua nella mancanza di senso. Se Ingravallo, più attento alla «condizione attuale dell’animo» dei suoi interlocutori che ad una loro eventuale «disposizione originaria» (RR II 21), è pienamente inserito in un tempo del divenire storico, fra personaggi suscettibili di variazioni contingenti, Gonzalo e la madre vivono in un tempo invariabile, nel quale l’essere-sempre-stato domina sul divenire. Da questo punto di vista, La cognizione del dolore sembra affondare, più di ogni altra opera gaddiana, in quelle «muffe della storia biologica» di cui parla l’Appendice. Dopo lunga sedimentazione, «gli accadimenti del mondo e della società» si traducono qui in «parvenze o simboli spettacolari», proprio perché il romanzo riproduce «le tragiche, livide luci o le insorgenze tenebrose d’anni precedenti e lontani; di fatti, di mutazioni che sono e saranno forse di sempre» (RR I 759). (20)
Gonzalo, la madre, ma anche l’indistinta popolazione del Serruchón, occupano un «punto di depressione ciclonica» fuori dall’evento, «dal flusso antico delle possibilità, della continuazione» (RR I 681). (21) L’evocazione insistente di un definitivo compimento del tempo e degli atti, di un esaurimento delle possibilità – si parla di «anni finiti», «tempo consumato», «tempo dissolto», «tempo vuoto» «impietrata memoria», «nozione definita, incancellabile», «zoccolante residuo degli anni» –, e il frequente riferimento all’inutilità, alla perduta lontananza – «nullità stupida dello spazio», «tumulto vano del tempo», «inutilità degli anni», «zaffiri perduti atrocemente lontani», «figura inutile», «inutilità lucida del rame in pensione», ecc. – rimandano ad una stessa teleologia deviata lungo una linea morta. Nel tempo esaurito, inutile, fra oggetti destituiti di senso, le uniche, flebili tracce della continuazione, del divenire, sono quelle della natura che, sola, sembra scandire la continuità, il procedere. (22) Dal «tarlo cavatappi» che «non desisteva dal suo progresso» al cane che latra «dal vespero al mattutino», dalle grandi foglie, «laboratorî infiniti di clorofilla» alle cicale che, franando «nella continuità eguale del tempo», dicono «la persistenza», dalle «carovane di formiche» che percorrono i muri, «nere, minime briciole del moto e dell’essere» ai grilli che, nella campagna buia, sono soli «a puntuare il tempo del mondo», tutti designano un brulicare, un lavorìo, un ostinato procedere. (23) Ma questo procedere non porta a niente di nuovo. Anche qui il divenire, per così dire, non diviene più, ma ripete instancabilmente quello che è sempre stato. Invece di mostrarsi attraverso la successione di singolarità sempre nuove, il tempo e, con esso, lo spazio, tendono a costituirsi in generalità astratte: «Per intervalli sospesi al di là di ogni clausola, due note venivano dai silenzî, quasi dallo spazio e dal tempo astratti, ritenute e profonde, come la cognizione del dolore: immanenti alla terra, quandoché vi migravano luci e ombre. E, sommesso, venutogli dalla remota scaturigine della campagna, si cancellava il disperato singhiozzo» (RR I 731-32). La cognizione del dolore, originariamente immanente alla terra, cioè alla rivolta della materia che afferma il suo imperio nel movimento delle luci e delle ombre sprovviste di forma determinata, si riflette nello spazio e nel tempo, in un’astrazione quasi immateriale, in una modulazione sonora concentrata nell’istante del singhiozzo. Qui il luogo e il momento singolare non dicono altro che l’identità vuota, la permanenza di ciò che sempre ritorna, simili in questo allo spazio e al tempo nella loro generalità più formale, alla materia indeterminata. Le successive prove manoscritte del passo indicano, in particolare, una modifica della nozione di tempo: Gadda passa da un’idea del «frantumarsi del tempo» a quella, sulla quale insiste a tre riprese, in crescendo, del «ristare del tempo». (24) La scelta finale, che preserva l’ambiguità del termine «astratti» – che, se inteso come aggettivo, allude a silenzi provenienti «dallo spazio e dal tempo astratti», se invece viene inteso come verbo, rinvia a silenzi «astratti» dallo spazio e dal tempo – è quella che meglio riflette quel tempo fuori dal divenire nel quale affonda tutta la vicenda della Cognizione. Nessun transitare è concesso a chi è impigliato nel groviglio del «male invisibile». Nessuna appartenenza ad un tempo e ad uno spazio determinati, né ad un’identità.
Nel cuore di uno «smarrito andare», dei suoi errori e delle sue inadempienze, Gonzalo appare come un precipitato di combinazioni che nessun télos viene ad orientare. Se viene presentato come un «fanatico della libertà», animato dalla volontà di «scegliere, costruire il proprio destino di minuto in minuto» (RR I 650), è proprio perché si trova in una posizione di esteriorità rispetto al vero divenire. Dove l’entelechia si realizza, imponendo alla materia di sottomettersi, non esiste libero arbitrio. L’illusoria libertà interiore di Gonzalo risulta da un distacco già avvenuto che ha installato il personaggio in una separazione definitiva, in un abbandono senza finalità. (25) Se nella «ragione biologica», come ricorda una nota, «si contemperano, costituendo limite reciproco (“modo” spinoziano), l’impeto e la necessità di lotta, l’impeto e la necessità genetica» (RR I 691), qui il personaggio, in quanto propriamente «malato nel volere», (26) alloga nello squilibrio, costretto dalla necessità più che spinto dall’impeto. Quanto alla madre, consustanziata nel suo passato doloroso, anch’essa viene colta in un’impasse del divenire e della volontà: «Si considerava alla fine della sua vicenda. Il sacrificio era stato consumato» (RR I 680). Sotto questo aspetto, essa incarna anzi il compimento di ciò che il figlio elabora ancora, poiché è arrivata al punto in cui ogni illusione di libero arbitrio si dissolve nella certezza dell’avvenuto. Questo volere malato perché privo di finalità opera sotto il segno del dolore, di una perturbazione dolorosa «più forte di ogni istanza moderatrice del volere» (RR I 690). Il dolore di Gonzalo è frutto di una primitiva deviazione dell’entelechia, di un «errore» primigenio da cui deriva tutto lo «sciocchezzaio» della sua esistenza: «Gli parve impossibile che le cariche narcisistiche de’ suoi genitori si fossero risolte nelle butirro, nei Giuseppi, nel campanile di Lukones, quando avevano due creature, nel Serruchón a denti di sega» (RR I 733-34). Un tale dolore è dolore della persistenza, quella del feudo sul colle, quella del Serruchón nel cielo orientale, (27) che gli anni, nel loro vano tumulto, non possono redimere. L’angoscia dell’hidalgo, avvolto in una notte eterna «in cui non [è] più possibile ricostruire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione… né il rimorso» (RR I 632), è quella di un tempo ove non è più dato incidere nel futuro, né dimenticare il passato. (28) Solo resta, solo conta, per Gonzalo, nel presente, «il zoccolante residuo degli anni», il persistere doloroso delle cifre del male: l’invasione becera degli altri, la loro profanazione dello spazio domestico, la casa fatiscente. Sotto questo aspetto, la morte, di cui Gonzalo conosce, nei minimi dettagli, la sequenza (la bara di zinco, il viale dei pioppi), e che porta con sé, come recita la nota sui Mirabilia, «discongiuntura e spegnimento d’ogni accozzo di possibilità compatite» (RR I 607), è il solo fine che persiste laddove il télos è assente. Se il desiderio di morte, si legge nei Viaggi la morte, è da intendersi come desiderio di regressione «verso il caos adirezionale» dell’origine, cioè verso la materia senza finalità, la libertà insensata di Gonzalo si situa fra il disordine consolidato e la prospettiva di una morte che significa dissoluzione «dei vincoli d’ogni teleologia» (SGF I 581).
Poiché in Gonzalo, si è visto, la permanenza del vuoto si manifesta come libertà interiore, che consiste in uno sforzo per sfuggire al peso della materia e della necessità e, al tempo stesso, nell’impotenza di un tale sforzo, la sola via di fuga dell’hidalgo consiste paradossalmente nell’accettare il peso della materia e l’assenza di un fine come fossero un destino, una tara: «Consentì ad aggiudicarsi un ritardo nello sviluppo, una sensitività morbosa, abnorme: decise di esser stato un ragazzo malato e di essere un deficiente. Così soltanto poteva stabilire una relazione tra sé e i suoi concittadini» (RR I 735). Lo scarto rispetto all’entelechia produce così, attraverso il libero arbitrio, qualcosa come un’entelechia di ricambio, una falsa finalità che procede dall’io e non dall’essenza stessa delle cose. (29) L’io che accetta la necessità come un fine inventa una realtà «obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto», un mondo delle idee inteso, a partire dal pronome io, come mondo di forme conchiuse, sottratte al divenire: «Ah! Il mondo delle idee! Che bel mondo!… ah! L’io, io… tra i mandorli in fiore… poi tra le pere, e le Battistine, e il Giuseppe!… l’io, l’io!… Il più lurido di tutti i pronomi!…» (RR I 635). La questione dei pronomi, della fede in essi, denuncia l’«avarizia di stitici destinati alla putrescenza», incapaci di cogliere «il soggetto di ogni proposizione possibile» (RR I 636). Quando «l’immensità si coagula» in una «tirchia e rattrappita persona», quando «l’essere si parzializza in un sacco, in una lercia trippa», quando cioè «l’io si determina, con la sua brava monade in coppa», l’universo si popola di una fenomenologia deviata, di oggetti e personaggi «in sé», privi di una vera dimensione noumenica. (30) Sotto questo aspetto, la Cognizione ipostatizza il rischio della schematizzazione, dell’astrazione parzializzante. Entro l’indefinita pausa dell’euresi, affiorano individui ed oggetti la cui «provvisoria» fissità fenomenica, perdutasi fuori da ogni consecuzione, si configura come la caricatura della realtà noumenica dei possibili, del suo necessario dinamismo. Colti entro un tempo esaurito, monadi isolate nel loro errore, i personaggi del romanzo appaiono, di fatto, come il punto di arrivo di un lungo processo di deviazione alla fine del quale della «pituita somma, recòndita, noumènica», intesa, cartesianamente, come «punto d’incontro, […] e di traduzione, dei moti dell’anima con quelli del sistema corporeo» (RR I 687), rimane prevalentemente il suo grottesco corrispettivo nel mondo fenomenico, cioè il dato, inteso non come slancio per realizzare l’entelechia, ma come compimento. (31) Così, la «villa obbiettiva», come dato «fuor dai confini della psiche», è forma di un’entelechia, quella della madre: «La Idea Matrice della villa se l’era appropriata quale organo rubente od entelechia prima consustanziale ai visceri, e però inalienabile dalla sacra interezza della persona […]» (RR I 687). (32) Allo stesso modo, gli oggetti costruiti o coltivati dall’uomo, dalle ville, o «villule», alle pere butirro, si configurano tutti come «manifestazion[i] e mod[i] dell’Essere, sacr[i] forùncol[i] sul collo della Bestia-Essere» (RR I 706), (33) entelechie deviate e grottesche degli abitanti del Maradagàl. In un tale ambito, non stupisce allora che il fine ultimo, il supremo Streben dell’umanità sia incarnato da una pera: «Un elisio di pere butirro era, secondo il Marchese, il futuro… L’umanità, senza dubbio, sotto i dorati raggi dell’autunno, tendeva alle butirro…» (RR I 733).
La volontà può tuttavia rinunciare a considerare il dato come manifestazione essenziale, segno del mondo delle idee; essa può scegliere il dolore, cioè la sola immediatezza del sentimento, la presenza, nell’istante, dell’errore, della deviazione, e trasformarsi in una coscienza dello sforzo che rifiuta qualunque finalità. Invece di giudicare le cose in funzione della loro identità ideale, la volontà può abbandonarsi alla negazione, al giudizio negativo che non vede nelle cose che la loro insufficienza, la loro chiusura nell’incompletezza. Senonché la negazione, che pure sembra porsi come «atteggiamento finalisticamente motivato ed eticamente doveroso» (Manzotti 1984), è chiusura, limite, autoesclusione dal flusso della vita. La libertà si situa al discrimine fra «il bacio bugiardo della Parvenza» e il giudizio che la nega, «attuffa[ndola]» nella «rancura» e lo spregio «come in una pozza di scrementi». Negare, entro la trama degli atti, le Parvenze non valide, per riconquistare il dominio, il «giardino» della propria anima, è l’ultimo passo sterile. Se infatti «rivendicare la facoltà santa del giudizio» nei confronti del reale è sempre ambizione hybristica e mendace, perché ritaglia, parzializzando, entro la vasta combinatoria del possibile, e porta quindi a «lacerare la possibilità», rivendicare «a sé» «le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore» significa incapsularsi in una natura (natura dolens o natura cogitans), sottrarsi al divenire, «negare se stesso» (RR I 703-04). (34) La «rapina del dolore» esaurisce tutto, tutte le possibilità; blocca l’euresi, accerchia l’essere, minacciando di chiuderlo entro i limiti rigidi dell’aborrito io-palo. Limitarsi alla coscienza del proprio dolore, chiudersi in essa, cioè installarsi nella ribellione della materia, significa smettere di pensare la finalità, escludere ogni nuova possibilità.
Ciò che fa della Cognizione del dolore il romanzo di un’entelechia deviata, di un’energeia esaurita in cui appaiono «vanite le tempeste della possibilità» (RR I 684), è precisamente l’incontro fra un sentimento e la cognizione di esso. Se in Gadda il sentimento, in quanto risultante da diverse cause, non si trova mai allo stato puro, come espressione di relazioni reali (il dolore per la morte, per esempio), ma appare sotto forma di «aggruppamenti deformi o abnormi, assolutamente periferici, esprimentisi in sentimenti perversi e mostruosi» (Meditazione, SVP 800), nella Cognizione l’immenso grumo del dolore, aggruppamento centralizzato, diventa provvisoriamente sostanzializzante perché, secondo i precetti della Meditazione, «esso non pertiene all’euresi ma piuttosto all’esser già, dopo l’euresi» (SVP 802). Per Gadda, il sentimento, nel sintetizzare l’infinita somma dei sottosistemi di relazione, delle cause, «opera spontaneamente sintesi più vaste fra essere e divenire» (SVP 798). (35) Ora, entro la lunghissima sosta dell’euresi, nel tempo finito, dissolto della Cognizione, ove la deviazione «provvisoria» ha i caratteri dell’eternità, l’equilibrio essere-divenire (36) si sbilancia sull’essere già divenuti, sul già fatto, sul «non essere più in marcia verso l’n + 1» (SVP 795). Sotto questo aspetto, il dolore che domina nella Cognizione è più assimilabile a quello che Gadda, nella Meditazione, definisce sentimento «fisiologico», cioè relativo al permanere, al persistere del sistema n (o il suo non persistere), che a quello «elettivo», che indica «se l’aferesi da n a n+1 (non ancora dato) è possibile». Il primo, si ricordi, è sentimento intrinseco, depositato in n, mentre quello elettivo (piacere-dolore di carattere eroico) è empito, emanazione, «amore del divenire», cioè «indice dell’attività resultante nel divenire» (SVP 806), (37) ed appare più atto del primo a rappresentare una relazione di equilibrio fra l’essere e il divenire. Certo, Gadda precisa che anche il sentimento relativo alla permanenza esprime una relazione di equilibrio, perché «n è soltanto pausa nella coinvoluzione conoscitiva» (SVP 802-03), (38)(38) ma nella Cognizione l’addensarsi delle concause intorno ad un unico punto prolunga la pausa e pregiudica il divenire. A dominare, nel romanzo, è un sentimento contrario alla passione del divenire, simile a ciò che nella Meditazione viene definito non come un odio del divenire, ma come «un’ambascia del non poter divenire», una negazione «dovuta a non-vita», indice di una situazione di sofferenza: «è questo il grado o polo negativo (la sensazione di dolore)» (SVP 802). In un teorema successivo della Meditazione, Gadda distingue il sentimento dominante di 1° grado, il quale «rivela un consolidarsi della figura, raggiunta nel corso d’una avvenuta deformazione», dal sentimento di 2° grado, che invece «rivela un deformarsi della figura nell’ambito di un più vasto gorgo della realtà», perché avverte il disvilupparsi (SVP 828). Ora, se nella Cognizione del dolore il sentimento non rivela, sotto gli occhi del lettore, una deformazione in atto del reale, ma piuttosto un consolidarsi, una persistenza, un arresto dell’energeia, è perché la cognizione di Gonzalo, intesa come snodo di concause che convergono dall’interno e dall’esterno, lo circoscrive gnoseologicamente. Il dubbio di Gonzalo sulla legittimità di esercitare la «facoltà santa del giudizio» diventa, sotto questa luce, motivo esegetico primario: rivendicare la conoscenza e la verità del proprio dolore significa assumere il passo falso come destino, come sintesi permanente di sé. Il dramma di Gonzalo è quello della cognizione, la cui funzione ordinatrice, per Gadda, è più rigida di quella del sentimento. Benché infatti Gadda affermi che non esiste una differenza essenziale fra sentimento e coscienza (SVP 824), la coscienza si distingue come ordinatrice di relazioni, «sistematrice o relatrice o riferitrice», proprio in quanto «l’atto della coscienza è un atto di polarizzazione (almeno); è una crisi euristica o giudizio euristico contrapponente alcunché ad alcunché, anche sé a sé» (SVP 829). Se ogni sistema, come operatore del reale, «è-divenire», è conscio della sua funzione ordinatrice, il sentimento, cioè l’«indicazione sintesi» di infinite indicazioni subordinate, non può essere determinato in modo certo e perenne, ma è «come una nube che pres’a poco gravita intorno a una certa forma, pur deformandosi» (SVP 824). Esso è «spostabile o arbitrabile secondo i limiti che il sistema assegna e intuisce e prescrive a sé medesimo» (SVP 823), ed è la coscienza a regolare, a poter sentire diversamente «secondo che deliberatamente occluda un significato, impartendo a sé medesima una norma o la escluda» (SVP 823). (39) Fra la souplesse del sentimento come sistema sintesi e la vocazione regolatrice della coscienza, la vicenda di Gonzalo traccia i suoi confini.
Dietro al rapporto fra il sentimento e la coscienza, si profila, nella Cognizione del dolore più che in altre opere gaddiane, la difficile ricerca di un compromesso, di ordine provvisorio, fra la necessità teoretica di pensare ogni sistema «nella sua vastità ed onneità», (40) alla luce di «un ragionato e onnicomprensivo eurein» (SVP 816) e l’esigenza poietica di considerare porzioni, grumi di realtà, temporaneamente stabili, colti, per esclusione di altre possibilità, nella loro provvisoria persistenza. Nel romanzo, il sentimento che, in base a un postulato della Meditazione, opera, su scala cosmica, nel tempo lungo, entro uno slancio dell’euresi che non fissa posizioni finite, chiuse, ma arbitrarie e fluenti, deve fare i conti con la coscienza che invece, operando nel tempo breve, privilegia il grumo dell’essere contingente al suo oscuro divenire. Anche in questo, il «sentimento sintesi», cioè «la percezione relativa alla consistenza e deformabilità del sistema», va distinto dalla «percezione sintesi o coscienza», la quale «[mette] in ordine il mondo “in absoluto” e attualmente»:
Il sistema allaccia, annoda attualmente il reale, e in ciò è coscienza: il sistema conserva o inventa il reale e in ciò è sentimento. Direi che è coscienza nello spazio, nel coesistere, nel tempo breve; e sentimento nel tempo lungo, nella deformazione, rispetto e verso l’oscuro divenire, l’oscuro «dover trasformarsi», l’oscuro compito o esito. (SVP 827)
Ora, nella Cognizione del dolore, nel cuore del tempo finito, dell’«immutato divenire», la coscienza di Gonzalo si configura come ciò che delimita, mettendolo in ordine nel tempo breve, il sentimento sintesi, cioè quel più vasto orizzonte capace di percepire la deformabilità del sistema, il divenire. È per ristabilire il compromesso equilibrio fra essere e divenire, per riattivare il flusso delle possibilità ostacolato dalla facoltà di giudizio, dalla cognizione di Gonzalo, che Gadda preserva una voce narrante mobile, incaricata di sorvolare la coscienza inscritta nel tempo breve e di ripristinare una più ampia sintesi, affiancando al sentimento di 1° grado – quello che, si è visto, si limita a consolidare un’avvenuta deformazione –, il sentimento di 2° grado, il quale «rivela un deformarsi della figura nell’ambito di un più vasto gorgo della realtà» (SVP 828). (41) è infatti all’arte che, come è noto, Gadda affida il compito di preservare la facoltà noumenica, un’arte che sia disposta a considerare gli eventi nella loro infinita variabilità e contingenza, inscrivendoli in quel tutto che li avvolge, ristabilendo la perduta consecuzione. Una scrittura capace di captare il groviglio delle relazioni costitutive del reale è la sola a poter spingere il suo sguardo più lontano, abbracciando più possibilità di quanto non sappia fare alcun altro discorso. Ma nel tempo finito, consumato della Cognizione, fra le spoglie di una «provvisoria» immobilità fenomenica, nel cuore di un’euresi inceppata, la scrittura preserva ed esalta, nella loro separatezza, le scorribande barocche, insegue lo sbaglio, calca il passo falso, si infila con ostinazione nell’impasse e in essa si installa, senza cercare raccordi con l’universale divenire. Gli interventi della voce narrante, siano essi autonomi o addossati al pensiero e alla parola di un personaggio, rimangono esterni, lacerti di una teoria delle concause, troppo sporadici per riattivare l’interrotta tensione verso l’infinita «suddivisione-specializzazione-obiettivazione del molteplice». Indugiando su diverse «scorribande» dell’entelechia, che si accumulano in maniera eclettica, la scrittura dice l’assenza della vera energeia, fino al momento in cui tutti gli elementi del romanzo, in virtù di un unico avvenimento, l’aggressione alla madre, si concentrano in un destino. Senonché questo avvenimento è, a sua volta, staccato dal palo teleologico, privo di un qualunque senso che non sia quello di portare a compimento l’assenza di senso. Da questo punto di vista, la Cognizione appare anzi, per così dire, sotto l’egida simbolica e grottesca di un’entelechia che domina tutte le altre, quella delle pere butirro, durissime e conchiuse per tutta la durata del loro sviluppo e destinate a rapida maturazione, quindi a marcescenza, in pochi giorni, quelli di San Carlo.
Université de François Rabelais de ToursNote
1. A proposito di quelli che dovrebbero essere i compiti del romanzo, Gadda annota, nel Racconto italiano: «Che l’intreccio non sia di casi stiracchiati, ma risponda all’“istinto delle combinazioni” cioè al profondo ed oscuro dissociarsi della realtà in elementi che talora (etica) perdono di vista il nesso unitario». La dissoluzione, sia essa teoretica o morale, è intesa da Gadda come «perdita di vista del nesso di organicità» (SVP 460).
2. Aristotele opera una distinzione tra energeia (cioè, al tempo stesso, atto, attività e attualizzazione) e entelechia (atto). L’entelechia aristotelica, benché usata talvolta per designare l’atto, non è esattamente sinonimo di energeia, perché rinvia piuttosto alla perfezione statica dell’azione, significa attualità e non attualizzazione. Il divenire, come si legge in un passo della Metafisica, riguarda più la sostanza che l’atto: «Alcune cose, infatti, sono dette in atto come movimento rispetto a potenza, altre come sostanza rispetto a qualche materia» (Metafisica Θ 6, 1048 b, trad. G. Reale, Milano: Bompiani, 2000). La distinzione fra entelechia e energeia è precisata nel De anima: l’entelechia, o atto compiuto, è tale in quanto anima, cioè sostanza formale di un corpo, «atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza» (De anima, II, 1, 20); in quanto anima in un corpo, invece, essa corrisponde piuttosto all’energeia, allo sforzo per realizzare l’entelechia; realizzazione impossibile perché qualcosa, nella materia, resiste.
3. In questo senso, la teoria gaddiana del barocco come passo falso non sembra riguardare soltanto i borghesi e i contadini del romanzo, intesi come «prodotti di un errore compiuto, nell’elaborare le sue forme, da un processo sociale inteso come processo naturale e biologico, realtà contingenti ontologicamente false perché non rispondenti alla loro “entelechia”» (Baldi 1988: 112), ma è da estendersi a tutti i personaggi del romanzo, compreso, seppur diversamente dagli altri, Gonzalo.
4. In questa tensione cognitiva della scrittura, intesa come «fissazione tutta intellettuale» della perdita del Logos, Luperini vede giustamente i segni dell’allegoria: «Gadda non crede alla mediazione dei simboli e punta, semmai, alla grandiosità dell’allegoria, che non cerca raccordi, ma rovescia un dato nell’altro» (Luperini 1990: 278).
5. «Si ha degenerazione quando l’essere prevale sul divenire, quando la coscienza attuale prende il sopravvento sulla supercoscienza in formazione» (Bertone 1993: 21).
6. La materia è condizione di esistenza del divenire che, senza di essa, non sarebbe altro che una pura possibilità. E tuttavia essa è condizione coercitiva, che ritarda e appesantisce il divenire, impedendogli di realizzare pienamente l’entelechia.
7. Leibniz, Nouveaux Essais, II, ch. XXI, § 1.
8. Gadda giudica l’anelito dei simbolisti verso il caos adirezionale come un regresso, che palesa «la rivolta della materia paziente contro l’insopportabile tirannide della finalità» (I viaggi la morte, SGF I 581).
9. La materia è incaricata di rappresentare alla finalità «i vincoli logici del mondo, le premesse proprie di essa finalità» (SGF I 581).
10. Come si legge nell’Appendice alla Cognizione, il «fegato ricercatore della universa realtà», dopo vari tentativi, «intrappolàtosi in reiterate impasses», riesce a divincolarsi «a mala esperienza esperita, ne recede più o meno goffamente, se ne sbroglia del tutto e di nuovo tende a via libera; tende verso la infinita, nel tempo e nel nùmero, suddivisione-specializzazione-obiettivazione del molteplice» (RR I 761).
11. In altri termini, nella Cognizione, il particolare è un’emanazione del generale o, ancora, la singolarità viene ridotta ad un esempio particolare all’interno di una serie o di un tipo. Cfr. le note ai testi di Emilio Manzotti (RR I 864).
12. Cfr. Lettera a Giulio Einaudi, 18 marzo 1960: «è un racconto interiorizzato e in certo senso veristico […], drammatico e duro» (RR I 873).
13. Opponendosi alla nota interpretazione continana in base alla quale il poema solariano Autunno, con il quale Gadda decise di chiudere il romanzo, «vale come chiave lirica della situazione» (Contini 1989: 19), Luperini parla di un lirismo «subito contraddetto»: «Il paesaggio di Autunno sembra porsi non tanto come situazione lirica legata all’evocazione del paese delle vacanze, quanto come luogo di una cognizione» (Luperini 1990: 262). Per Dombroski coesistono invece due modi espressivi «distinti ma interrelati: il lirico e il maccheronico», ove «il modo lirico è la voce malinconica della monade solitaria e alienata che tuttavia, attraverso il suo alter ego narrativo, esercita il proprio potere sul mondo di cui è stata privata negandone il senso e irridendone la “baroccaggine”» (Dombroski 2002a: 83).
14. Valga, fra tanti, l’esempio della glossa che viene a chiudere il lungo rovello di Gonzalo e la narrazione dei suoi atti e propositi inconsulti. Poiché, ci informa candidamente la voce narrante, come eco leibniziana, «nulla accade senza ragione», si deve ammettere che, dietro ai più apparentemente ingiustificabili atti di Gonzalo «vi fosse una ragione o una causa, o più ragioni o più cause, forse, ignote agli umani, irreparabili, perché l’animo dello hidalgo andasse così privo di ogni gioia» (RR I 712). Se Gadda, come è noto, svuota il principio eziologico lineare per sostituirlo con quello della «coesistenza logica», delle concause, qui il narratore sembra avvertire i limiti del procedimento e sente il bisogno di fornirne una teorizzazione esplicita. Per uno studio del concetto di causa nella costruzione del romanzo di Gadda, si veda Donnarumma 2006: 29-75.
15. «Le corps appartenant à une Monade, qui en est l’Entéléchie ou l’Ame, constitue avec l’entéléchie ce qu’on peut appeler un vivant, et avec l’âme ce qu’on appelle un animal» (Leibniz, La monadologie, § 63).
16. «Nel suo occhio oramai stanco, velato, si adunarono cose dolorose, lontane. Troppo lontane da quel discorso» (RR I 625).
17. Egli riconosce «l’evolversi di una consecuzione che si sdipana ricca, dal tempo» (RR I 627).
18. Esempio per eccellenza di questa ottusità pre-logica è il ragazzino che prende ripetizioni di francese dalla mamma: «La sua anima senza sillabe testimoniava dell’anamnèsi» (RR I 630).
19. Sul presente come tempo della conoscenza, «eterno presente della coazione a ripetere», si veda Luperini 1990: 264.
20. Il corsivo è nostro.
21. Benché la madre veda nel figlio «una continuità che s’adempie» (RR I 680), il dramma di Gonzalo è quello, individuato da Roscioni, di «non contribuire al fatale succedersi delle generazioni, non seguire il movimento della vita […]» (Roscioni 1995a: 36). Se è vero che la «continuità», come sostiene Roscioni, è un nucleo tematico fondamentale tanto per la Cognizione che per il Pasticciaccio, nella Cognizione la continuità, la trasmissione, il «fiume interiore» appaiono, più che altrove, incagliati in un grumo di combinazioni che, separatosi dall’energeia, si stabilizza, interrompendo il più vasto scorrere.
22. Così, il mondo delle parvenze, persino «gli incidenti di un’orografia serena», si caricano dinanzi allo sguardo di Gonzalo di una «significazione di vita» compresa entro l’eterno, inarrestabile procedere: «Tutto doveva continuare a svolgersi, e adempiersi: tutte le opere»; almeno finché l’adempimento non viene sottratto al procedere teleologico, e uno scampanio lontano apre scorci su una energeia esaurita, ove tutto è già stato scritto e «gli atti sono tutti adempiuti» (RR I 629).
23. L’immagine più frequente del precipitare degli anni, percepito in lontananza, è quella del treno rotolante sulla pianura.
24. Si passa dal «ristare del tempo» al «ristare delle cose e del tempo» al «ristare del tempo e delle immobili cose». Si vedano le note ai testi di Manzotti (RR I 862).
25. Da questo punto di vista, Gonzalo incarna l’opposto dell’«uomo-fine, vettore e freccia» cui Gadda, scrive Pedriali, ambiva: «L’io deve essere “vivido nel buio tempo”, “attività enucleante”, tensione finalistica – che la fine coincida col fine realizzato, e la “più vasta ragione” ne rimeriti, col premio. Povero “differenziato tendere”, si sa, ma l’alternativa? L’io separato dal tempo, ammesso che sia possibile, non grava nessun fatto, non produce che durata, il tempo inutile della mente che non è connessa ad una collettività» (Pedriali 2001b).
26. Il suo volere è malato nel senso in cui non sa quale fine perseguire e, in definitiva, non può operare una scelta se non entro il quadro impostogli dalla necessità.
27. «Gli anni. E il feudo persisteva sul colle; e nel cielo orientale il Serruchón persisteva, totem orografico di sua gente» (RR I 728).
28. In un tale mondo, tutto è «impietrata memoria… nozione definita, incancellabile…» (RR I 633).
29. Roscioni evidenzia come Gadda «alternando i vituperî contro l’io ai richiami, […] all’entelechia», cada frequentemente in contraddizione, non avendo del tutto risolto il problema dell’io che, vista la veemenza degli attacchi, sembra continui a rappresentare «un’ombra corposa e incomoda». Tuttavia Gadda, conclude Roscioni, sembra progressivamente optare per l’idea che «non l’entelechia costituisca il primum della vita, ma che la vita sia tendenza al particolare» (Roscioni 1995a: 104).
30. In Gadda, lettore di Kant, il rifiuto di una realtà «obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto», equivale alla ricerca, dietro di essa, di un quid più vero. Nei Viaggi la morte, egli giudica la serietà neorealista come espressione del punto di vista generale, della fiducia nelle apparenze comuni. Ora, «il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia». La poetica dei neorealisti, la loro serietà di referto, dovrebbe allora integrarsi, auspica Gadda, di una «dimensione noumenica» (I viaggi la morte, SGF I 630).
31. Per un esame della posizione epistemologica anti-dualistica di Gadda, si veda Antonello 2003.
32. Nel suo pensare per idee-forza, la madre, incapsulata nel fenomenico, potrà essere liberata soltanto dalla morte, intesa come «sovrana potenza della impossibilità di dire: Io» (RR I 755).
33. Così viene definita la zoccolante popolazione villereccia, nascente, per la madre, dalla «Idea-Villa». In generale, la madre sembra procedere per idee-forza. Si veda, fra le altre, quella della barricata di oggetti disparati «con cui la Signora credeva di confermare l’idea-chiusura espressa dai serramenti» (RR I 749).
34. Nella sua rigorosa disanima del brano, Manzotti stabilisce le concordanze fra negazione e dolore, affermando, fra l’altro, che Gonzalo non solo subisce il dolore, ma «lo rivendica a sé come unico vero possesso personale, come l’acquisto più vero del cammino di conoscenza della vita». Ora, se la conoscenza di Gonzalo è essa stessa, come scrive Manzotti, fonte di sofferenza, non è solo, ci sembra, perché essa non può correggere il male, ma anche e soprattutto perché essa chiude Gonzalo in un dolore che lo circoscrive (Manzotti 1984).
35. Sintesi «che non siano le sintesi essere-divenire che la ragione opera per schemi e astrazioni, rivolgendosi a temi determinati» (RR I 798).
36. Il sentimento rappresenta, come si legge nella Meditazione, «la sintesi delle relazioni indici dell’equilibrio fra l’essere e il divenire» (SVP 795).
37. Nel campo psicologico, spiega Gadda, «il sentimento pertiene alla “passione del divenire”: è un indice che con formidabile intensità dice “Va bene, va male”, ed è l’indice dell’attività resultante nel divenire» (SVP 806). Comunque, sentimento fisiologico e sentimento elettivo hanno una fondamentale unità: «Lo sfondo è unico: lo sfondo è una relazione essere-divenire che nel primo caso emana dall’essere già verso il divenire, nel secondo promana dall’esser divenuto verso il raggiunto essere» (SVP 803-04).
38. In questo senso, «il corpo non è l’ultima e definitiva pausa di una gens coinvolutiva, di una discendenza o deformazione coinvolutiva», «un quid che segna un arrivo o meta orami immobile», ma «è solo un sistema n nella infinita coinvoluzione» (SVP 803-04).
39. Nel precisare il senso dello scolio secondo il quale, appunto, «non esiste una differenza essenziale tra sentimento e coscienza», Gadda analizza ulteriormente la distinzione fra i due concetti, che giudica solitamente mal interpretata: «Se il sentimento indica la “solvibilità” di un sistema, la percezione o coscienza è l’attività, è il sistema, è il mettere in ordine il mondo» (SVP 826-27).
40. «Infinite relazioni apparentemente esteriori a un sistema pertengono a questo sistema che deve essere pensato nella sua vastità e onneità, e non soltanto nel suo io saputello di pacco postale chiuso e inceralaccato» (SVP 814).
41. Quest’ultimo è il solo sentimento capace di contrastare la delimitazione operata dalla cognizione del dolore, perché, come si legge in una nota della Meditazione, «si accavalla alla percezione, arco che sorvola archi minori, come nelle trifore lombarde» (SVP 827).
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-20-5
© 2011-2023 Cristina Terrile & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 7, EJGS 7/2011-2017.
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