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Verso il «mondo capovolto». Gadda «migrante», dall’Argentina al Maradagàl *

Giuseppe Bonifacino

Se è la fantasia che offre corrispondenze al ricordo, è il pensiero che gli dedica allegorie.

W. Benjamin, Parco centrale

Irrequietudine e America

Nella officinale educazione narrativa del giovane Gadda, tra defatigante, e frustrante, professione ingegneresca e prime, discontinue ma progettuali, prove di scrittura, un sicuro rilievo tematico assumeva – come è ben noto – la topica del viaggio: riveniente, oltre che dalle più lontane suggestioni di lettura accumulate in una carriera di ottimo liceista, (1) dalla lettura appassionata e partecipe di autori canonici del simbolismo francese, (2) assimilati nei percorsi del suo forzosamente tardivo adempimento alla propria, urgente vocazione umanistica, tra letteratura e filosofia. Non per caso nella sua carriera solariana Gadda avrebbe dedicato al Voyage e al Bateau ivre una delle sue più intense e sintomatiche prose saggistiche, I viaggi, la morte (SGF I 561-86), dove – in una esegesi simpatetica ma contrastiva dei due poemi emblematici del viaggio moderno inteso come deriva estetica e visionario échec – avrebbe dato conferma, appena dopo la apologetica rivendicazione solariana di un Manzoni «contaminatorio» e «grottesco» (Apologia manzoniana, SGF I 679-87), della sua opzione per una poetica lato sensu realistica, (3) e alle radici segnata da un indefettibile impegno morale, discrimine decisivo e luogo di coltura di una parola necessariamente rivolta a distendere nella profondità temporale della prosa la sua primaria attitudine lirica. (4) Ma non v’è dubbio che, come sovente può riscontrarsi nelle molteplici modalità della sperimentazione narrativa per così dire retroversa del modernismo gaddiano, (5) un produttivo nutrimento alla ricezione e alla restituzione figurale del tema del viaggio provenisse, allo scrittore ancora ai suoi passi d’avvio, dalla sua stessa esperienza di vita: nel segno di un travaso solo in apparenza lineare del materiale autobiografico (i numerosi viaggi cui era stato costretto dal suo lavoro di ingegnere) nella ideazione letteraria. All’autoidentificazione di Gadda nella metafora prospettica del viaggiatore contribuiva, in particolare, la lunga esperienza da emigrante che egli aveva vissuto, dalla fine del ’22 ai primi mesi del ’24, in Argentina, sospintovi dal miraggio di una cospicua remunerazione, (6) ma forse di più dal desiderio di sperimentare una diversa, più ariosa, condizione di lavoro e di vita, in un mondo sconfinato e vergine, inconosciuto e spaesante nelle voci e nei nomi, commisti di familiarità neolatina e straniamento antropico: un ambiente dove meglio tentare di estroflettere la propria compressa ansia vitalistica, il cui empito etico e pragmatico, invece, costitutivamente deviato e coartato, avrebbe potuto poi trovare sbocco solo nelle pulsazioni deformatrici di una prosa fermentante e combusta, in un processo di oggettivazione-rovesciamento romanzesco del coagulo autobiografico di timbro tragicamente modernista.

Già in una lettera a Ugo Betti, datata 31 dicembre 1921, la irrequietudine gaddiana, il bisogno inappagato di cognizione ed esperienza («mi sono persuaso, ancor più di quanto già fossi, che per conoscere bisogna indagare, per indagare viaggiare» – Gadda 1984a: 54) (7) metteva capo a una schietta volontà di immergersi nel mitizzato vitalismo del nuovo mondo, «ricco di energie e di possibilità» (Roscioni 1997: 187): «Desidero andare in America, dove ci sono le centrali 10 volte più potenti delle nostre e le linee di trasporto 10 volte più lunghe. Ma non ho denari per il viaggio» (Gadda 1984a: 56).

Ben lungi dalle spettrali epifanie o dalle abissali derive odeporiche sublimate nell’ebbrezza simbolista, il voyage gaddiano in Sud-America si andava dunque profilando come un severo impegno di lavoro tecnico, ancora trattenuto nel perimetro di un vagheggiamento velleitario, e solo al suo fondo sollecitato dalla pulsione vitalistica che, pure – certo non immune da suggestioni ricevute dall’intreccio fra residuale dannunzianesimo e primo fascismo (Isella 1983: x-xi) –, come un fiume carsico segnato da radi o dissimulati affioramenti, percorre, soggiacente e profonda, la caravaggesca vocazione letteraria dell’ingegnere malgré lui. E tuttavia, nella prevalente ragione ingegneresca della scelta, accanto alle più ovvie e contingenti motivazioni personali, si accampava una volontà di conoscenza e di indagine pratica vissuta come occasione di verifica identitaria e di crescita morale (alimento elettivo, secondo Gadda, per una personalità che voglia esprimersi attraverso la letteratura). (8) Infatti, in una lettera al compagno apollineo dei giorni di prigionia (Castello, RR I 158-64, passim), di alcuni mesi successiva a quella in cui il progetto si disegnava ancora in ipotesi, Gadda, fornendone conferma operativa, ragionava della sua «idea americana» nel riferimento implicito ma trasparente al paradigma etico-esperienziale del viaggio come banco di prova individuale, campo proiettivo dell’intersezione di carattere e destino:

Mi sono lasciato «corrompere» dall’idea americana. È però un corrompere di natura un po’ speciale. – è il desiderio di conoscere, di vedere, di studiare, anche un po’ di operare, fra genti diverse. – Se resisterò bene – se andrò a fondo, peggio per me. Non sono così tenero con me stesso da aver molta paura di un naufragio. Del resto il naufragio sarebbe solo morale e a me interiore: si potrebbe chiamare noia, stanchezza, dissipazione. (Gadda 1984a: 68)

Sembra che il futuro interprete, e stigmatizzatore, del fascinante ma disetico viaggio simbolista si senta lambito da una latente insidia di dissipazione e di sconfitta morale: cioè da una insufficienza etica analoga a quella dei suoi poeti in fuga dai decreti del tempo. Ma la decisione è infine maturata, e il viaggiatore ormai prossimo alla partenza si apre alla confessione del proprio travaglio psicologico: l’assillo dei sensi di colpa e la morsa della nostalgia che lo stringono nella sua avventura verso quello che, nella riscrittura in allegoria romanzesca della Cognizione, egli evocherà come un mondo capovolto, nella duplice, embricata accezione, geografica e morale (ovvero spaziale e temporale) (9) della metafora:

Mia madre soffrirà molto della mia partenza, e così pure mia sorella: io ci ho fatto una specie di malattia morale […] Là non ci sono né i monti, né il cielo, né i palazzi né la gente d’Italia, né laghi, né niente. Ci saranno cabarets con tangos più o meno argentini, cocottes, e grandi mandre di mucche che fanno molto letame nelle fattorie. (Gadda 1984a: 69)

Più che verso le luci di un mondo capovolto poi affabulato come cronotopo metaforico di un rovesciamento di piani e valori infelicemente carnevalesco, (10) Gadda prefigurava qui una partenza verso un altrove segnato dall’estraneità e dal vuoto, privo di ogni fulgore di civiltà o armonia di idillio: uno spazio senza ritmo né vestigia di storia, tra il grottesco folklore della società bonaerense – involontaria, degradata parodizzazione della modernità italiana o europea –, e la vastità potenzialmente lirica di una campagna traguardata come singolare commistione di operosa abbondanza e accumulo scatologico. La partenza per una realtà remota e diversa segnava, con tutta evidenza, uno strappo profondo nella sensibilità gaddiana – quasi per una prolessi empirica della (dolorosa ma poietica) lacerazione euristica attraverso cui, nella Meditazione filosofica ancora a venire, l’inquieto e irregolare glossatore di Leibniz avrebbe tematizzato la sua idea della conoscenza. (11) Il 30 novembre 1922, il «grande navigatore Gaddus» (Gadda 1984a: 75) partiva da Genova, a bordo del «Principessa Mafalda», «vettore di migrabondi destini» (Da Buenos Aires a Resistencia, SGF I 106), verso la scoperta di quel vagheggiato ma straniante mondo capovolto dove coltivare un’annosa ansia di benessere («il sogno della ricchezza», presto «vanito» – Gadda 2004c: 41) e di «vita movimentata, attiva» (Gadda 2004c: 45): invero non contrastiva, ma funzionale all’accumulo di esperienza necessario ad incrementare il «materiale dell’intuizione» (Gadda 2004c: 43) di cui nutrire l’agognata, e ancora interdetta, professione letteraria.

Dal lungo indugio turistico del viaggio transoceanico, durato ben diciotto giorni, residuerà poi, come si sa, la diaristica evocazione memoriale inizialmente consegnata a un frammento – uno «studio imperfetto» (Diario di bordo, RR I 46-47), «nitido foglietto volante del taccuino della traversata verso Buenos Aires» (Rodondi 1988a, RR I 796) –, e poi ritornante nella sequenza metonimica di ricordi (Da Buenos Aires, SGF I 105-06) che dischiude il primo dei due mirabilia ispirati alcuni anni dopo, (12) in tempi ancora di elzeviri e prosa d’arte, alla parentesi argentina. Se ne ricava – come è stato notato – la sensazione di un viaggiatore di tipo sentimentale, sterniano (Roscioni 1997: 191). Un viaggiatore che tende a guardare e registrare non solo, o non tanto, i profili di un mondo che vede per la prima volta, ma soprattutto l’inavvertito, e però profondo, riverbero che quel mondo suscita nel suo universo interiore, nel corpus di immagini – liriche o cronachistiche, comunque eticamente vocate alla Cognizione – che sempre, per il suo metodo, catturano e, deformandola (Meditazione, SVP 863), restituiscono la vita. (13)

Dalle non esigue testimonianze epistolari che di quel viaggio «migrabondo» ci rimangono, si rileva nell’osservatore odeporico una non rara inclinazione al tratto bozzettistico: (14) infatti, se la sua attenzione è – nel persistente ottocentismo della cura documentaria – rivolta soprattutto al milieu, segnatamente al nuovo microcosmo lavorativo o domestico, gli aspetti che Gadda ne restituisce con maggiore intensità di coloriture nelle lettere indirizzate alla sorella Clara (Gadda 1987b) – peraltro «connotate per lo più da una prosa dall’andamento sobrio e meditativo» (Carmina 2007a: 25-26) – disegnano talora, pur entro il registro dominante della ripulsa nostalgica, vivaci figurine da racconto d’ambiente, minimi incunaboli dei tanti personaggi di contorno che affolleranno i sontuosi lacerti della sua narrativa futura, a comporvi il coro variegato e dissonante di una umanità minore, quando non degradata, cui faranno contrasto il suo sguardo malinconico e la sua mesta attitudine riflessiva: (15) giusta la bipolarità prospettica che presiede, nel romanzo argentino-brianzolo, alla destituzione espressionistica dell’io (16) nella commistione modernista di lirismo tragico-sublime e deformazione satirico-grottesca – vale a dire, tra un codice strenuamente depositario, o evocativo, di senso e valore e la sua nichilistica antitesi.

In prevalenza, insomma, i primi riscontri del soggiorno sudamericano di Gadda non esulano da una focalizzazione percettiva ristretta, angolata sull’interno domestico, o fissata nello schizzo paesaggistico o nello scorcio ambientale: quasi che la terra cui è appena approdato possa essere da lui esperita e indagata solo attraverso uno sguardo obliquo e una disposizione osservativa minimalistica, una procedura mimetica statutariamente impressionistica e parcellare, che scompone l’insieme e ne isola e stilizza – per ora parcamente – il dettaglio. Un’attitudine peculiare alla rappresentazione metonimica, per così dire, che, del resto, troverà sostanziale conferma, e fin sontuoso sviluppo, nella costruzione obliqua, per progressive giunzioni – e speculari iterazioni – di tessere musive, dei segmenti descrittivi (17) (ma di implicita funzione narrativa) delle grandi prose di romanzo o di racconto – o anche, all’estremo, nella definizione progressiva, si vorrebbe dire sinopiale, del ritratto del protagonista della Cognizione, evocato nella scena testuale da una corale tessitura di frammentarie, e teatralizzate, parvenze.

Se l’attenta captazione del particolare dava già conto, oltre che di una peculiare tendenza realistica della sua vocazione letteraria, della disponibilità conoscitiva ed esperienziale del Gadda migrante, (18) va anche notato che le sue consuete oscillazioni umorali, tra nostalgia e ipocondria (Gadda 1987b: 63, 79), testimoniavano come la vagheggiata immersione vitalistica nella «gran baraonda» sudamericana (Gadda 1984a: 80) risultasse fortemente contrastata dalla sua bivocità temperamentale, dall’inquietudine malinconica che egli riversava nelle rappresentazioni della propria condizione fisica, secondo una dinamica psicologica poi autoironicamente oggettivata, nel romanzo pretestuosamente argentino, entro la maschera protettiva e carceraria di un molieriano malato immaginario. Di fatto, la nostalgia della patria e della famiglia non sembrava priva di ombre, se l’ingegnere si affrettava a dissuadere la sorella Clara da qualsivoglia progetto di viaggio in quei luoghi (Gadda 1987b: 63), di cui insisteva a rimarcare – invero, alquanto strumentalmente – la monotonia, e la costitutiva inadeguatezza alla sensibilità femminile (Gadda 1987b: 68), secondo una tecnica dissuasoria che, nell’omissione di ogni riscontro positivo, ripeteva un atteggiamento già emerso, con vistosa immediatezza, durante un precedente soggiorno di lavoro in Sardegna (della quale, per ripararsi dalla paventata visita sororale, egli evidenziava solo gli aspetti più ostici e deterrenti). (19) L’Argentina era, per Gadda, il luogo di un’esperienza da condurre in solitaria libertà, tra le sue ovvie malinconie di emigrante e il vorace acume percettivo di apprendista balzachiano-zoliano (20) in cerca di materiali per la sua reinvenzione narrativa della realtà, e perciò sollecitato da un disordine vitalistico tutto da catturare nelle spire della scrittura.

L’Argentina epistolare, tra ironia e nostalgia

Il trasferimento nella piana sterminata del Chaco, e nella città fluviale di Resistencia, avrebbe scandito, nel lungo soggiorno argentino di Gadda, uno scarto ambientale che comportava anche una diversa angolatura prospettica nella percezione di quell’esperienza, oscillante dal tumulto metropolitano di Buenos Aires alle solitudini primitive di una terra ancora vergine, e all’enclave concentrazionario della «Fabbrica» dove si consumavano le sue lunghe giornate di lavoro ingegneresco (Gadda 1984a: 80). Si produceva, così, secondo una struttura costitutiva del suo modo di conoscere e di mettere in ordine il mondo, una sorta di polarizzazione tra due configurazioni fenomeniche di quello che per lui era il sistema America, la città e – in senso assai lato – la campagna, il centro e la periferia, a stare alla terminologia istituita, pochi anni dopo, dal Gadda in cerca di una definizione teoretica del reale e della sua infinita trama logico-relazionale. (21) Così, il Sud-America gaddiano avrebbe iniziato a configurarsi come campo di congiunzione tra il vitalismo fulgente ma sfuggente di un mondo arcaico e selvaggio, dove esportare e mettere a verifica – etica, prima e più che tecnica – quel «lavoro italiano» poi romanzato in opposizione ai «fatti incredibili» (Racconto, SVP 411), e il vitalismo pittoresco, ma traguardato come a distanza, della società metropolitana, nel riflesso – nella immanenza mnestica della polarità transoceanica – di luoghi e costumi già ricevuti e incasellati entro l’aggrovigliato e convoluto apparato conoscitivo elaborato nelle contaminazioni umanistico-politecniche, tra l’algebra e Ariosto, tra Manzoni e Pareto, nella gioventù milanese, e nello straziante disordine epocale della guerra.

Ma non sarà un caso, né solo frutto di un convenzionale accostamento agli scenari familiari della stessa quotidianità rifuggita non meno che rimpianta, che ogni immagine di quella realtà perturbante perché nuova ed estranea richiamerà, per contrasto o per consonanza, la remota ma profondamente introiettata realtà italiana, assunta a paradigma di confronto per la trascrizione delle caratteristiche ambientali, ma pure a discrimine temporale, come il tempo civile e operoso del presente contrapposto ad una «realtà primordiale» sospesa e acronica, a sancire «la sensazione che i viaggi» di lavoro nel Chaco «siano spostamenti, più che nello spazio, nel tempo» (Roscioni 1997: 200). E del resto sempre – com’è noto – nel viaggio Gadda vedrà lo schema della dinamica spaziale intersecarsi alla dimensione del tempo, «eccipiente più comprensivo dell’aisthesis» (I viaggi, SGF I 562), immanente pure nella costante minaccia della sua lacerazione disetica e della sua frana regressiva nell’inconnu. Era un topos fondante nella sua stagione esordiale: come testimonia, tra l’altro, il poemetto di imitazione baudelairiana, Viaggiatori meravigliosi (Gadda 1993a: 32-36) scritto verosimilmente (Terzoli 1993b: 114) nello stesso anno della migrazione sudamericana (se pure non prima), e in ogni caso tramato di un accoramento nostalgico specularmente analogo (Terzoli 1993b: 83) a quello paventato, in sommessa velatura ironica, in una già prima menzionata lettera a Betti (Gadda 1984a: 69). Nella diffusa eco del modello simbolista emergeva – come, poi, nella parziale ripresa in una pagina del Cahier d’études (SVP 577) – una condizione di immobilità come attonita, o di taciturna stanchezza, dei viaggiatori tornati dai paesi lontani, carichi di meraviglia e di sogno, ma senza effusione dell’esperienza in racconto, chiusi nello «strano, inmobile [sic] manto» (Gadda 1993a: 33) di una dolente malinconia. Un habitus meditativo e malinconico, nell’arco di una testimonianza come interdetta in un silenzio invarcabile, come folgorata da parvenze tramate di mistero o illusive di incanto. Il viaggiatore gaddiano – nella suggestione baudelairiana, forma speculare, è da credere, di una intima disposizione caratteriale – nasceva già, prima di calarsi nello spessore concreto dell’esperienza – e del suo riflesso, poi, nel registro autobiografico –, come una figura contesta di luci e di ombre, tra meraviglia del diverso e del lontano e sgomentevole spaesamento, o disincantato ennui. Si vuol ribadire, cioè, che l’approccio dell’ingegnere-voyageur al nuovo campo della sua esperienza risultava già come segnato dai filtri di uno sguardo e di un modello letterario, che ne orientava e pre-condizionava la scoperta del nouveau in una direzione, ad un tempo, analitica ed elegiaca, improntandone la trascrizione del dato, o dell’immagine, alla costituzione prospettica bifocale della soggettività autorale. La quale, mentre si immerge nel mondo che va discoprendo, ne rapporta le parvenze al proprio codice vitalistico o lirico e, rifrangendo il movimento spaziale della percezione in quello temporale della coscienza-memoria, ricapitola e riattiva la immanenza polare del passato, del rassicurante volto del già noto, del già vissuto: come si avrà modo di osservare, in seguito, nei due mirabilia argentini, e come invero già si rileva, entro le inavvertite ma costanti movenze di allontanamento dalla terra natìa dello sguardo mentale del diarista solariano, tra impressionismo e stilizzazione bellettrista: (22)

I servi portano le ultime cose, le frutta, silenti, rapidi, assorti nei loro problemi di posateria e di smistamento. Di là dalle vetrate è la Liguria piena di sole. Guardo, stanco, il cartoncino dalla sigla in oro rilevato […] la bella cornice di legno, i fiori di cui le tavole sono soffuse, le lampade da tavolino, il soffice tappeto verdeazzurro, e i cristalli e gli argenti sono ciò che viene con me […]. Rimangono le rocce, i giardini, ed i fari.
Rimangono i dipinti, i palazzi, le drogherie. Poi anche i monti, quelli che vedo ancora e quelli che già sono dispariti… (Diario di bordo, RR I 47)

L’avventura americana di Gadda nasceva, dunque, all’insegna di una nostalgia di maniera, sommessamente testimoniata nei percorsi di uno sguardo che registra pacatamente profili o gesti che potranno poi inavvertitamente tornare, metabolizzati in espressionistica gemmazione, nella clamorosa apoteosi satirica della folla uricemica degli altri al ristorante, in un brano tra i più sudamericani della Cognizione. Il diarista migrante affida a riscontri visivi restituiti con parco lirismo – per tenui movenze prospettiche scandite, con caratteristica procedura metonimica, dall’elenco delle cose e delle forme che si allontanano – la sensazione del suo progressivo allontanamento dalla patria, la sua migrazione verso un ignoto da leggere con gli occhi e la mente colmi degli aspetti di quello antico appena lasciato, o attraverso il reticolo prospettico ricevuto dai suoi auctores, e lo stratificato allargamento del perimetro del proprio strumentario linguistico. Infatti, se la lunga vicenda argentina veniva assunta da Gadda come arricchimento della sua formazione culturale, un aspetto assai cospicuo di essa era dato dall’esperienza e dalla necessaria assimilazione di una nuova lingua. (23) Lo spagnolo entrerà, da allora, a far parte dei codici eminenti, pur se non dei più pervasivi (Mazzocchi 2001: 99-114), della prosa gaddiana, «votata all’interferenza tra lingue e registri tonali dissonanti» (Grignani 1998: 1). Esso vi agirà, peraltro, nel segno di «una hispanidad in parte fraintesa e comunque corteggiata […] più con la fantasia che non con una preoccupazione storicistica» (Grignani 1998: 1): cioè come la lingua di un mondo sontuoso e perento, caricaturale (Mazzocchi 2001: 100) e caravaggesco, come la cifra agglutinante o aggettante di un cronotopo fulgente e grottesco.

Ma l’ibridazione argentino-brianzola sarebbe maturata in seguito, a sedimentare e straniare la grande finzione-ostensione autobiografica della Cognizione. Nell’epistolografia del Gadda argentino importa, invece – al di là di qualche modesto precorrimento delle mescidazioni future del pasticheur (Carmina 2007a: 134) – rilevare soprattutto, come si è già visto, l’insistita ricerca della continuità del mondo vecchio nel nuovo, ed anzi la sostanziale rimozione della nuova ed estranea dimensione sociale e antropica, ovvero la sua ricezione sommessamente ironica entro le coordinate consuete della realtà geo-etnica d’origine – in una «inevitabile percezione italocentrica» (Grignani 1998: 3) –, quando non nel cerchio di antiche e perenni ansie nevrotiche:

Colazione non è pronta: gran meraviglie della gentile padrona perché già sono le 12 ½; serva gallega = galiziana = napoli di Spagna! Che ci mette 40 minuti ad apparecchiare la tavola, escluso vino, acqua, tovagliolo, sale e stecchini. […] Sorella della padrona grassa con occhiali, si chiama Encarnaciòn, 40enne, soffre in silenzio perché non le faccio la corte. (Gadda 1984a: 88)

Qui (24) l’osservazione minutamente cronachistica già sembra disporsi a occasione di bozzetto, se non pure a materia di racconto, nello scenario di un tipico interno domestico, dove il pedale della nevrosi celibataria dell’ingegnere già soffonde di potenziali umori narrativi la testimonianza, confermando una volta di più la difficoltà gaddiana a percepire ogni nuovo tassello della propria condizione migratoria fuori dalla combustione centripeta e dalla fagocitazione affabulativa di una soggettività intrinsecamente protesa a definirsi per via di scrittura. Non di rado l’epistolografo inclina irresistibilmente a raccontare: a schermare nei filtri ironici di un minimo gioco letterario la comunicazione della sua esperienza di vita. Ma proprio la sottile lente dell’ironia, modalità eminentemente soggettiva della rappresentazione, dà segno che, quale che sia lo scenario eletto a oggettivarsi o straniarsi, egli non racconta che di se stesso. E – come già prima accennavamo – anche dove sembra dislocarsi in una notazione meno gravata dalla tendenza a un «protagonismo soggettivistico», (25) col ricondurre ogni immagine della realtà d’oltreoceano sotto l’egida del suo pregresso patrimonio esperienziale ne curva, più che rimarcarne, la diversità e i tratti peculiari sull’asse paradigmatico della propria identità culturale, che sembra fare aggio sulla pur ghiotta curiositas della sua vocazione narrativa.

D’altronde, il viaggio gaddiano, ovunque condotto, assumerà, et pour cause, «rilievo autoanalitico» (Clerici 1996: 794), esemplarmente nei brani raccolti poi a comporre i suoi Mirabilia Italiae. (26) Gadda riesce a parlare dell’Argentina solo attraverso la propria specola soggettiva, solo cercandone il riflesso dentro di sé. Egli ne è, di fatto, «spettatore estraneo»: (27) replicando nella sua condizione di testimone, e solo ancora potenzialmente di autore, una scissione tipicamente moderna dall’esistenza collettiva. A ben guardare, si potrebbe cogliere, nelle scritture dell’Ingegnere di tempo in tempo informate alla testimonianza epistolare o alla riconversione letteraria del suo esilio sudamericano, una significativa consonanza tra la condizione autorale che in varia guisa ne emerge ed una attitudine emblematica del soggetto novecentesco, «incapace di esperienza vissuta, chiuso nel cerchio della propria solitudine» (Luperini 2006: 8). Una solitudine, nel giovane Gadda, non solo empirica, o esistenziale, ma, per così dire, conoscitiva: da colmare, o meglio coprire, col protettivo viatico milanese del sacrificio e dei doveri. L’orizzonte tematico, pur dissimulato nella sobrietà e nella discrezione dei toni, l’asse attorno a cui si addipana la trama dei riscontri epistolari, e poi si addenserà lo sguardo del prosatore odeporico, non è tanto il mondo nuovo che gli si offre, quanto lui stesso: l’Argentina in Gadda. Solo quando tutto questo diventerà memoria, solo quando potrà deformarne l’inadempiuta e inespressa esperienza ricomponendola nella distanza luminosa del ricordo, e restituirla in pagine di timbro meditativo o elegiaco, cioè solo quando – come più avanti brevemente vedremo – la desultoria registrazione epistolare, per il suo retaggio documentario ancora approssimativamente realistica, sarà filtrata nelle preziose cadenze di un rarefatto manierismo lirico, quel mondo così obliquamente attraversato o ricevuto prenderà forma e spessore. Solo allora, rinnovandola nella e in quanto memoria, l’esperienza vissuta sembrerà trovare dimora nella parola che la finge evocandola, e si rovescerà in paesaggio interiore, in dipintura elegiaca, nel segno di un desolato e cogitabondo «soggettivismo trasfigurativo» (Clerici 1996: 794). E avremo l’Argentina di Gadda – la proiezione compensativa e sublimante, nell’impressionismo simbolista della prosa d’arte, di una impossibile pienezza dell’Erlebnis (Luperini 2006: 15).

L’Argentina romanzesca: autobiografismo e polarità

Al ritorno in Italia, la tensione latamente autobiografica soggiacente ai percorsi ancora in fieri della scrittura gaddiana aveva occasione di riversarsi in una forma narrativa eminentemente ottocentesca, (28) in coerenza con la tradizionale educazione letteraria dell’esordiente autore del Racconto italiano: le suggestioni accumulate nella protratta parentesi argentina, saldandosi a pregresse intenzioni e ambizioni, mettevano capo al fervido e tormentato progetto del «romanzo-sinfonia» (Donnarumma 2001a: 48 sgg.) perseguito nella brulicante officina del Cahier (SVP 649). Un romanzo che, attorno al «grande leit-motif» (SVP 405) del «lavoro italiano», doveva organarsi sul binomio opposizionale – di evidente procedenza autobiografica – di due differenti orizzonti geofisici e antropici: l’Italia del primo dopoguerra, perturbata dai sommovimenti sociali che vi accompagnavano e alimentavano la crescita del fascismo (cui il Gadda bonaerense manifestava, nel ’23, in una lettera a Betti, un patriottico consenso, cogliendone però soltanto gli effetti per «l’immagine dell’Italia e il prestigio di cui la patria gode[va] all’estero» – Bertone 2005: 34), e l’America del Sud, quasi un’altra patria (SVP 396) perchè luogo di fuga e di esiliata custodia della propria minacciata identità per il giovane eroe – commisto, sintomaticamente, di autobiografismo e letterarietà, fin nella marca onomastica (Isella 1983: x-xi) – di una vicenda «da svolgersi in Italia e Sud America» (SVP 395), anche secondo la dinamica polare operante – per urgente istanza gnoseologica (Lucchini 1988a: 14-54) – nella invenzione estetica del Racconto.

Trasponendo il dato autobiografico nel suo nascente sistema etico-cognitivo, lo scrittore assumeva l’Argentina come orizzonte di sponda della tragedia morale – tra un Manzoni barocco e noir (29) e uno stendhalismo di contaminazione dostoevskijana (Donnarumma 2001a: 49 sgg.) – del suo protagonista, nel segno di un incremento affabulatorio e di una trasvalutazione drammatica dei disagi sofferti da migrante: lungo l’arco di una polarizzazione enfatica dell’esperienza vissuta (sperdimento/rigenerazione), reinvestita – attraverso una schematica contaminazione di paradigmi positivistici (Pareto) e tipologie naturalistico-decadenti (Donnarumma 2001a: 65-132) – da una già peculiare bivocità semantica e tonale, tra ripiegamento nostalgico e dispersione avventurosa:

Questa emanazione italiana subisce il contatto con altri popoli, altro ambiente. Qui interviene il Sudamerica, la lontananza, terra straniera, nostalgia, mescolanza, difficoltà, disperdimento etnico per insufficienza, nuova vita. Species aeternitatis. Gli umani. […] Nell’eventuale ripresa italiana […] ritorno all’interiorità: (se non stonerà con la visione ariosa, argentina, libera della vita). (SVP 395-96)

Lontananza, allora, non solo come rigenerazione, come libertà e vitalismo: ma, inversamente, come nostalgia e crisi di riferimenti identitari, fino allo smarrimento di sé in una alterità spaziale che sembra contenere il germinale profilo di una (spaesante ma feconda?) cesura del tempo soggettivo («nuova vita»). Nella restituzione del periodo argentino in segmento narrativo torna a dispiegarsi, in tessuto diegetico, il fondante tema del viaggio: asse esperienziale e occasione etica, riferibile – come segnala lo spinoziano sintagma («species aeternitatis») (30) – all’orizzonte prospettico della totalità. All’affabulazione della peripezia individuale del migrante sembra dover essere demandata una valenza universalizzante, quella di simbolo di una condizione esistenziale («Gli umani»). Il viaggio potrà assumere sembianza di destino, come per antica tradizione letteraria. E l’America, per questo, non si darà come il cronotopo di un patrimonio esperienziale da mettere a valore nella finzione romanzesca, ma come pretesto tematico e figurale – metafora del nuovo, dell’altro, dell’altrove –: polo di una antitesi ambientale ancora di marca naturalistica, stazione della Bildung negativa di un personaggio vanamente proteso al riscatto e al ritrovamento di sé.

E strumentale e metaforico, in sostanza, risulterà l’autobiografismo sotteso all’iperletterario Grifonetto: già affetto, ben prima dell’hidalgo della Cognizione, dalla tache cervantina di un «Don Chisciottismo […] non caricaturale, sì reale» (SVP 470) che tornerà come «oggetto di identificazione repulsiva nella successiva proiezione gaddiana» (Grignani 1998: 2) in Gonzalo. Nella sua amara catabasi dalla patria all’esilio – «dalla fede nelle “colonie” al disdegno e forzato ritorno» (SVP 469) – egli appare incalzato da un’ombra di sconfitta e di negazione che incide uno stigma delusivo nella sua giovinezza orgogliosa e ferita, ostinata e acritica, anti-utilitaria e perdente; un’ombra che ne involve e ne logora le ambizioni e le ansie di epigonale testimone di un rastremato ottocento romantico precipitato nell’abisso dell’inettitudine naturalistica e dell’incertezza modernista. E il Sud-America, lungi dal rappresentare la terra avventurosa del riscatto, si rivelerà, nell’embricatura romanzesca del «materiale vissuto o quasi vissuto» (SVP 395), un mondo che non mantiene alcuna sognata promesse de bonheur, la stazione di un viaggio verso l’ineludibile polarità del male: come per i fuggitivi simbolisti, «verso l’eternità» (SVP 413) della morte. Già nel Racconto – come poi nella Cognizione – l’Argentina verrà assorbita nella ideazione letteraria come un miraggio senza luce d’incanto: l’orizzonte remoto e illusorio di un voyage del quale era già – in sede di poetica – fissato il tragico, «incredibile approdo» (RR I 604).

Tra onniscienza manzoniana e impersonalità naturalistica, il polimorfismo sperimentale del narratore istituito, o cercato, nel Cahier andava configurando, come si sa, una sinfoniale mappatura triadica (31) del mondo da comprendere raccontandolo. E però inscriveva in quello schema una struttura dinamica diadica, ad esso, di fatto, contrastiva: quella di una polarizzazione intrinseca alla combinatorietà universale, (32) che il pensiero deterministico poteva solo descrivere, ma che toccava al romanzo-poema riordinare e interpretare. Il disegno sinfonico di Gadda tendeva a sommettere alla propria struttura ricompositivo-sintetica – alla necessità etica, poi presto rivendicata, di «mettere in ordine il mondo» (Viaggi, SGF I 578) – il ritmo duale secondo cui ne pensava e rappresentava il divenire combinatorio. Ma non poteva che nascere già come interdetto alla sintesi – già come impedito all’adempimento della propria forma (costretto, cioè, a non «finire») (33) –, un organismo narrativo fondato su una relazionalità antinomica (polare) delle figure demandate a gestirne la «favola» (SVP 395).

In questa feconda contraddizione tra poetica e gnoseologia (ma i due livelli, in Gadda, sono, assai significativamente, concentrici) (34) si inscriveva, allora, il recupero romanzesco dell’Argentina, funzionale a una procedura di sdoppiamento speculare-antitetico (35) di piani e tempi dell’intreccio e delle dramatis personae (36) (una procedura poi, non per caso, introiettata e replicata in modalità stilistica nel pervasivo ricorso alla amplificatio descrittiva della stagione matura), per cui l’ipotetico Sud-America di Grifonetto doveva costituire il cronotopo di una polarizzazione del suo malaise esistenziale, propedeutica al sinfonico ritorno apocalittico-catartico all’ambiente sociale contro cui si era scontrata e pervertita la sua «anima» (SVP 397) forte e – autobiograficamente – troppo superiore e per questo incompresa. La materia autobiografica fruttava un utile alimento all’ambizione sistematrice del Gadda romanziere in progress, bisognoso di «termini antinomici» (SVP 407) da contrapporre e poi ricomporre: l’alterità dell’esperienza americana poteva fornire al suo personaggio «volitivo» (il «tipo A»: doppio autorale nutrito di ortisismo e di nietzschianesimo dannunziano – Isella 1983: xii) un teatro ambientale e uno scenario interiore dove polarizzarne la tragica vicissitudine, la esemplare deriva psicologico-morale – il destino ancora ottocentescamente scandito dalla «opposizione fra virtù e caso, fra valore del singolo e resistenza del mondo al suo desiderio di dominio». (37)

Piuttosto che come il luogo di un patrimonio autobiografico da conservare affabulandolo, l’universo argentino si attestava, insomma, nel Cahier, come pretestuale elemento di una faticosa costruzione dell’intreccio, come la figura mediana, la transitoria pausa odeporica, tra fuga ed esilio (o, nel caso opposto e però contiguo di Lehrer, tra speranza e rovina – SVP 413) di un tempo romanzesco dialetticamente triadico, lo spazio di un’antitesi da superare e trascendere nella ottativa armonicità dell’edificio narrativo. La soggettività esistenziale in esso inscritta precipitava e si dissipava nella moltiplicazione delle funzioni attanziali e nella pluralità dei punti di vista e delle maniere stilistiche della rappresentazione. (38) Niente restava della vita, se non la sua rimozione e trasfigurazione in racconto: in Gadda – è stato perspicuamente precisato – «il romanzesco nasc[eva] immediatamente come relazione e distanziamento dall’autobiografia» (Verbaro 2005: 50). E se – conviene ribadirlo con parole dettate dall’auctoritas di Dante Isella – «il primum della scrittura gaddiana è […] sempre, la vita vissuta e patita» (Isella 2003a: 28), l’Argentina che agisce nell’inventio del Cahier, mentre non fa che confermare e rinnovare una condizione di esclusione (Botti 1996: 181-202) e di esilio già prima sofferta e maturata, tra lo schianto della guerra e l’«annegamento nella palude brianza» (SVP 396), sembra, insieme, già disporsi, nelle frammentarie sinopie del mancato romanzo – dove solo «compare in sovrimpressione come un altrove mentale e linguistico» (Grignani 1998: 2) – non altrimenti che come un riflesso, lo schermo, o la sponda, di una tragica migrazione della coscienza e della mente. Se l’apprendista romanziere fosse pervenuto a svolgerne lo spunto tematico in corpo narrativo, avrebbe, verosimilmente, dovuto intriderla – giusta il timbro chiaroscurale e visionario dei suoi assunti – di caravaggeschi lividori: o, per converso, forse, grottescamente contrapporvela, nei percorsi, per antitesi e gemmazione binaria, di quello «spirito della pluralità» che, già idealistica metaforizzazione formulare dell’«ambizione totalizzante» del suo realismo fin dal «germinale tentativo» di Retica (Italia 1995a: 181), avrebbe poi dichiaratamente informato la poetica del Racconto (pensato, appunto, come «romanzo della pluralità», SVP 462). Ma la libertà adombrata dalla nuova vita in Argentina non avrebbe potuto che rovesciarsi nella conferma della impossibilità di sottrarsi al ritorno nel caos doloroso della «emanazione italiana» (SVP 395): secondo una dialettica compositiva già incentrata su quel manzoniano (e dostoevskijano) «problema del male» (RR I 607) che avrebbe circonfuso di ombre ossedenti, in guisa di romanzo, un malinconico hidalgo ripiegato tra vane, sterili meditazioni di metafisica in una villa «senza parafulmine» (RR I 604) di «quella regione del Maradagàl, così simile, per molti aspetti, alla nostra perduta Brianza» (RR I 710).

Dal ricordo all’allegoria

Ma, appena qualche anno prima di fare i conti con il cuore di tenebra della propria biografia familiare, straniandola nella plurivoca deformazione – linguistica, stilistica e di genere (39) – della Cognizione, Gadda tornava a interrogare la sua vicenda americana, attingendo ai suoi ricordi di viaggio per comporre, nell’alternanza tra un registro pacatamente rievocativo e uno improntato a una garbata ironia, pagine di fattura raffinata e preziosa, (40) dove lo sguardo del pubblicista odeporico si distende a circoscrivere luoghi e nomi della memoria, tra elegante pittura d’ambiente e breve ma esatto schizzo ritrattistico. Il mondo qui evocato – come in tutti i pezzi giornalistici raccolti nelle Meraviglie d’Italia (41) – non appartiene davvero al tempo dell’esperienza reale, storia o esistenza che sia: o meglio, ne riassorbe lo spessore carnoso, l’opaca quotidianità gravata di ingegneria e solitudine, rovesciandone e colmandone la povertà di esperienza, la sostanziale insignificanza, nell’alto decoro della forma, nel tessuto senza strappi della scrittura, nel suo perfetto equilibrio tra descrizione e vagheggiamento mnestico, tra minima venatura espressionistica e delicato impressionismo della cifra lirica. Quel mondo vive tutto nell’interiorità letteraria dell’autore, nel suo gusto per una maniera prosastica che sia quadro e colore, contemplazione meditativa accesa di stupore o soffusa di umore malinconico: nella quale presto lo stilo atrabiliare e umoroso della satira si spunti e ceda il passo al levigato intarsio dell’elegia.

Ottemperando alla cerimonialità del genere elzeviristico, dunque, Gadda stilizza e, per ricavarne e trasmetterne il senso, dignifica e risemantizza il dato primario dell’esperienza compiuta in Sud-America: assoggettando il resoconto del suo voyage ai precetti di poetica rivendicati con forza nella rilettura saggistica – ammirata ma conflittuale – dei grandi viaggiatori simbolisti cui si è già altre volte accennato. Il profilo del viaggiatore quale nel dittico argentino in filigrana si disegna è quello di un testimone che si affida – secondo una moderna attitudine – agli occhi della mente: (42) attento, piuttosto che partecipe, e tuttavia sempre animato da una silenziosa ma pervasiva comprensione etica delle manifestazioni della vita e del lavoro che di volta in volta incontra o lambisce. Le immagini si susseguono lungo una curva di associazioni memoriali: illuminando per rapidi tratti un universo remoto, ormai perduto nel tempo – e trattenuto solo nelle parole che lo evocano. Il viaggiatore qui non racconta, ma solo ricorda. La misura della sua parola è quella del tempo intermittente e istantaneo della coscienza. La dimensione profonda, necessariamente polimorfica e durativa, del tempo umano, (43) lungi dall’attingere una sua riconfigurazione diegetica nel modo autobiografico, si concentra, o contrae, in una intermittente epifania di figure suoni movenze senza svolgimento, còlte come per sempre nell’istante del loro apparire, del loro manifestarsi al soggetto autorale nel «cerchio» – qui non ancora declinato nel suo registro doloroso – «della appercezione» (Cognizione, RR I 627). Nell’autobiografismo argentino del Gadda pubblicista vige, con tutta evidenza, il dominio di un codice lirico, nutrito dal diffuso riferimento (44) a temi e a torsioni prospettiche, e persino a cadenze stilistiche, già presenti nella corrispondenza epistolare rivolta dal viaggiatore-emigrante alla sorella Clara e al sodale Betti. Era il necessario tributo che l’autore – negli stessi anni – di folgoranti prove di invenzione narrativa o stilistica come la perfetta satira nichilista del San Giorgio in casa Brocchi, o la lussureggiante parodia simultaneista dell’Incendio di via Keplero versava alle ragioni della prosa d’arte, certo: ma in quella stilizzazione altamente manieristica operava, sotto l’egida dell’imperativo etico sempre e comunque immanente, per Gadda, al fatto letterario, l’istanza di riconnettere i frammenti della memoria in un disegno cui solo la soggettività lirica poteva conferire pienezza di senso e garantire la perseguita armonia tonale. In altri termini, la tipologia di viaggiatore emergente da quei ricordi sudamericani era – per stare alla definizione contrastiva («dialisi») istituitane nel saggio solariano sui simbolisti (SGF I 564 n.) – quella di un sedente, per il quale il viaggio non si svolge come onirica deriva spaziale, ma come consapevole e costruttivo percorso di conoscenza sorretto dal sicuro possesso del «secreto interiore dell’essere»: cioè di quella finalità morale che distende nella curva semantizzante del tempo ogni esperienza, e così ne compone la forma e il senso.

Le immagini dettate all’io autobiografico dagli affioramenti – volontari – della memoria intessono un ordito temporale concentrico, tutto interno all’atto – eminentemente lirico – della contemplazione. Le scansioni del viaggio argentino, tuttavia, lungi dal disegnare lo «sviluppo nel tempo» (Viaggi, SGF I 578) auspicato nelle prescrizioni di poetica enunciate nel saggio del ’27, si identificano con le impressioni prevalentemente visive alle quali lo scrittore affida la sua ricostruzione dell’esperienza: reperti testimoniali di un mondo raccolto nelle sottili nuances dell’incanto contemplativo, e distanziato nella sospesa acronia del pastello elegiaco. Di fatto, la temporalità garante di senso del reportage costruito da Gadda nel laboratorio mnestico della coscienza è quella, iterativa e senza sviluppo, del momento lirico, che rifrange – o reinventa – le tessere di uno stinto e inadempiuto Erlebnis entro un sublimante nitore stilistico di ascendenza latamente simbolista. Ma per questo, allora, si dovrà prendere atto che il tempo di quel percorso odeporico è – per così dire – istituito a priori: è una «costruzione» già data nella coscienza dello scrittore, in quanto testimone e sommesso ma convinto apologeta di un’etica del lavoro e del sacrificio, che guarda al mondo senza parteciparvi, come facendolo scorrere lungo un asse unilineare, in un accumulo – senza le rischiose derive di ogni sprotetta progressione euristica (45) – di maschere fenomeniche, tutte proiezioni figurali, a conferma o a contrasto, di un senso e un valore (la moralità operosa del tempo dell’uomo, peculiare tema gaddiano) (46) inscritto ne varietur nel cerchio sincronico della interiorità autorale e coonestato dai paradigmi di stile adibiti a fissarlo nel testo.

Il centro semantico di quelle prose sta dunque nell’intreccio tra due istanze valoriali rese qui congruenti dalla loro complementare sottrazione alla dimensione problematica del narrare: quella giacente nella costitutiva attitudine etica della osservatività retrospettiva del voyageur e quella inscritta nell’alto tenore letterario della sua parola. Conviene ribadirlo: è questa – la memoria autobiografica che nel distanziamento del filtro letterario si ricompone e arricchisce – a riscattare l’opacità dell’esperienza vissuta entro la luce di una verità estetico-morale circoscritta nello spazio non contaminato dell’elegia. Gadda sembra qui affidare alla letteratura il compito di restituire all’esperienza, nella dignificazione dello stile, la sua sfuggente autenticità testimoniale – anzi: di surrogarla e colmarla di senso nel pervasivo simbolismo che congiunge ogni immagine analogicamente all’altra, ad esempio nell’evocazione delle trascorrenze cromatiche di una natura eternamente mutevole e identica nel ciclico iterarsi della sua misteriosa pulsazione vitalistica:

Veniva la notte. L’Oceano trascolorava in grigio ed in cenere con rimandi rossi nelle gole delle onde, ed era poi tutto una livida salamoia; il cielo si striava di sottili sfrangiature di porpora e di desolati pensieri. (Da Buenos Aires, SGF I 107)

La trama di correspondances tra le luci e gli aspetti dell’oceano notturno – contemplato dalla nave della traversata oceanica verso Buenos Aires, in una scena che riprende e sviluppa i delicati, rapidi tocchi accennati nello studio imperfetto di alcuni anni prima – sembra disegnare, in chiave eminentemente visiva, un concento di sembianze molteplici dell’oscura unità della natura: a cui fa contrasto – pur traguardato e come smorzato nella filigrana lirica della memoria – il dettaglio disarmonico che, per angolazione si vorrebbe dire metonimica, simbolizza la condizione deietta, e con essa il già cupo destino, della «breve folla» di emigranti confinata ai disagi e alle miserie della terza classe:

si sdraiavano sulla tolda: ognuno si avvolgeva nella sua grigia coperta, avanzavano fuori le scarpe, per lo più gialle, come di chi fosse stato ripescato dai regni della morte, ricomposto sul ponte. (SGF I 107)

Dove si profila una immagine pertinente a una icona tematica – i piedi – di lunga e fruttuosa durata nel repertorio figurale gaddiano: quella delle scarpe che, spiccando oltre i panni, danno segno o premonizione di morte, anche poi – nel Pasticciaccio – obliquamente evocata, cieco risvolto del tema erotico, nella loro grottesca protrusione con oscena, dissacrante valenza fallica dalla «vesta» sacerdotale di don Corpi (RR II 135). Ma l’immagine importa qui soprattutto per la sua cruda dissonanza, volumetrica e cromatica, con l’arcana armonia notturna della distesa oceanica. Le accomuna e le lega il timbro lirico dell’enunciazione rammemorativa: nella cui trama pittorica, però, scatta un colore segnato di morte – il giallo (47) – a incidere di una clausola disarmonica il tessuto delle analogie, e come a sommuoverne in rapida contrazione espressionistica il sinfonismo solenne e malinconico, che, pure se il tempo umano intermette lo stigma doloroso della sua fragilità creaturale nella vastità sempreuguale del tempo cosmico, la visione poetico-morale del viaggiatore ricompone – ma replicandone in più tenue timbro tematico e prosodico la polarità contrastiva – nella cifra manieristica di una rassegnata meditazione elegiaca:

L’Oceano voleva impaurirli. Ma, poi, se ne dimentica e dorme: si spiccano nel vento le amare foglie, travolte; così andavano questi verso ventura e speranza, dovunque nel mondo potessero leggere l’invito consueto: «terza classe». (SGF I 107 – corsivi miei)

Il nesso tra il lineare tempo umano e il ciclico tempo della natura, o del cosmo, legati per opposizione irriducibile (dissipazione vs iterazione, dolore vs immutabilità) e l’uno nell’altro perpetuamente specchiantisi, risulta, com’è noto, costante lungo tutto l’arco dell’opera gaddiana, dal germinante Cahier fino alla sua tarda ricapitolazione nella icona lirico-allegorica del Dolce riaversi della luce (SGF I 1208-211: su cui v. l’irrinunziabile Gaetani 2006), e sarà assunto, et pour cause, a oggetto tematico primario (48) nella Cognizione. Ma qui la – modernamente tragica – tensione antinomica che gli è sottesa si placa e sembra come disciogliersi nella navigazione, realistica e simbolica, che la mesta serenità dell’idillio notturno avvolge e sospende, tra ventura e speranza, tra caso e destino. Il riflesso autobiografico, nella mediazione astraente e sublimante del repertorio figurale assunto a evocarlo, si commuta in visione simbolica. L’esperienza vissuta tende a perdere i tratti della sua particolarità individuale e diventa occasione del riuso di immagini ricorrenti nella prosa gaddiana: si pensi, almeno, al pervasivo topos delle foglie travolte dal vento, (49) evidente correlativo simbolico, qui, della peripezia migratoria, ma già spiccante in condensazione metaforica altrove, negli stessi anni – ad esempio come malinconica increspatura nella capitale dichiarazione di poetica (Tendo al mio fine, RR I 122) resa nel ’31 a Solaria in una chiave pseudo-autobiografica straniata nell’impasto arcaizzante, o, in concentrazione sinestesica, nella movenza incipitaria di Autunno, la poesia tratta poi dalla sua sede originaria (ancora Solaria, l’anno seguente) a fornire un contrappuntistico «explicit lirico» (Manzotti 1987a: 497) – in funzione anti-simbolista (Luperini 1987: 102-04) – alla partitura multigenere della Cognizione.

E ad ulteriore conferma della interfungibilità delle immagini demandate a fissare la materia dei ricordi, e cioè della consistenza eminentemente letteraria di quelli, si possono accostare a confronto le suggestioni visive che accompagnano, in attenuativa dislocazione calligrafica della potenziale torsione espressionistica, la navigazione fluviale di Gadda verso Resistencia (Da Buenos Aires a Resistencia) e il celebre prologo visionario della Meccanica, allora inedito ma già composto qualche anno prima (Isella 1989a: 1177-187), dove, per contro, un espressionismo a fondo lirico-anticato (Conrieri 2004: 76-77) allestisce un apocalittico triumphus mortis lungo il metafisico «devolversi» del «fiume delle generazioni» – ovvero, del tempo bifronte, nella sua ossimorica complexio di eternità e distruzione:

[…] e verdastre, con i quattro piffari all’aria, le carogne pallonate de’ più fetidi e malvagi animali, […]: e il branco lurido e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte (Meccanica, RR II 469);

[…] in quel sonno [ai coccodrilli] gli pareva che dovesse arrivare una qualche carogna di cavallo, dalla pancia enfiata come una mongolfiera felice: le quattro zampe all’aria, un corteggio di mosche verdi, più verdi d’ogni verzura (Da Buenos Aires, SGF I 108);

(e sarà appena il caso di segnalare come le mosche per Gadda costituiscano una marca figurale della morte – Roscioni 1975: 48 n. 1 –, qui restituita nella smorzatura ironica filtrata nell’insistito tema cromatico). Nel pur minimo specimen ora addotto si conferma che se in ogni viaggio, per il tormentato glossatore di Baudelaire e Rimbaud, la morte distende, inavvertita, la sua ombra, qui è la letterarietà della coscienza rimemorante ad allontanarne, e disinnescarne, il potenziale tragicismo nella quiete di un tempo illacerato, nelle rarefatte armonie di una malinconica fluenza interiore.

Ma se, come si è evidenziato, Gadda ricostruisce i suoi ricordi avvalendosi di un suo consueto – e iterativo – apparato di immagini, sarà anche da rilevare come in quelle brevi testimonianze del suo più manierato lirismo odeporico si andassero sparsamente profilando cellule tematiche e figurali poi altrove in varia guisa ritornanti: segnatamente – in misura peculiarmente dilatata, e in dislocazione funzionale all’accrescimento semantico dello scarno impianto diegetico – nel romanzo che di lì a poco avrebbe fagocitato – e profondamente straniato – tutto il tormentoso coacervo autobiografico dello scrittore nel travestimento mascherale della sua esperienza in Sud-America. Il «caffè di duecento tavoli», con «l’andirivieni dei camerieri e dei loro sifoni» (Da Buenos Aires, SGF 105), infatti, ritornerà, in esponenziale amplificatio, nella atrabiliare fantasmagoria satirica dei banchettanti avvolti, in vorticante «sarabanda famelica», dalla benigna «luce del mondo capovolto» (Cognizione, RR I 693) – tra «camerieri neri» con «il frac, per quanto pieno di padelle» (RR I 698) – nei restaurants delle (metaforicamente allusive) stazioni ferroviarie, pronti «tutti, tutti» (RR I 695) al loro trionfale viaggio nella vita entro il protettivo viluppo delle parvenze che ne garantisce la felice immunità dal «lento pallore della negazione» (RR I 703), stigma e matrice della disperata Cognizione di Gonzalo. E ancora – per sintomatica campionatura – sarà da porre attenzione, ad esempio, alla canonica immagine dei grilli: che risulta, nel primo dei due ricordi argentini, ironicamente trasposta, per dilatazione della cifra sinestesica («iridavano») che ne dinamizza lo statutario, familiare simbolismo malinconico, nel diverso e spaesante – selvaggio, sovradimensionato – contesto idillico, in contiguità a quella delle rane:

dalle foreste e dalle lagune veniva il guà-a del rospo, il ghiottar delle rane: i grilli iridavano il piano ed il buio come in una malinconia nostra, che fosse però dilatata fino allo strepito, dagli altoparlanti delle nuove Repubbliche. (SGF I 109)

L’immagine – già ricorrente nella Madonna dei Filosofi, come puntualmente indicato dal rigoroso scrutinio di Manzotti (50) – ritorna – nel romanzo – entro il lungo dialogo gnoseologico tra il dottor Higueròa e Gonzalo: ma significativamente deprivata del suo afflato lirico-simbolico – che la tenue velatura ironica del ricordo restituiva intatta, nella dimessa e cordiale tonalità cronachistica del frammento autobiografico –, e come contratta a scandire, nel suo frammentato iterarsi alternamente nelle due voci, il ritmo di un divenire («il tempo del mondo») inappropriabile al rovello euristico dell’ipocondriaco hidalgo, al quale il premonitivo buonsenso del medico, inconsapevole psicopompo, denuncia l’inanità della convenzione idillica, disgiungendone in realistica discorsività le speculari figure simboliche (i grilli – le ranocchie), a fronte del male che alligna minaccioso nel buio della campagna notturna:

«Quando c’è solo i grilli, nella campagna tutta buia, a puntuare il tempo del mondo?….» (RR I 651);
«Qui si è soli, al buio, sperduti nella campagna…. giusto…. come lei ha detto poco fa…. Soltanto che i grilli non contano….» (RR I 652);
«…. Sicuro…. le ranocchie non servono….», meditava il dottore. (RR I 653)

Il potere consolatorio dell’idillio, la purezza analogica dell’immagine simbolica, deperiscono, straniati nel pur asimmetrico confronto tra le due opposte misure di ragione e di conoscenza interpretate dall’incurabile Gonzalo (51) e dalla maieutica d’en bas del suo mercuriale (52) ma inadeguato terapeuta. Il codice lirico, trasferito nella dinamica argomentativa e riflessiva del dialogo – e come abbassato comicamente a suo occasionale, periferico oggetto –, dimette qui la sua funzione conciliativa e catartica, ne svela l’inattualità. I grilli e/o le ranocchie – emblemi di una impossibile armonia idillica del mondo fenomenico –, non servono contro la pervasiva immanenza del male. Il passaggio dialogico, nella sua marginalità, fornisce un singolare specimen della contaminazione cui il realismo gnoseologico di Gadda – condizione struttiva, per lui, del sinfonismo a doppio accento (comico e tragico) (53) della prosa di romanzo – sottopone il codice lirico-simbolico, (54) sottraendolo alla letterarietà dell’assolutezza enunciativa propria della soggettività autobiografica. Reso esterno al circuito chiuso e protetto della temporalità contemplativa o evocativa della coscienza, esso si polarizza in un conflitto – compositivo e tematico – proficuamente inesauribile, perché strutturale, tra le due istanze convergenti, fin dalle approssimative progettazioni esperite nel tempo della prigionia a Rastatt, nella poetica gaddiana: quella «narrativa-descrittiva» e quella «lirico-simbolica» (Italia 1995a: 200), appunto. La fusione delle due prospettive, cercata e rivendicata nelle ambizioni sinfonico-poematiche della progettazione romanzesca della gioventù, mette capo, all’altezza della Cognizione, e proprio attraverso il riuso rovesciato e straniante del movente autobiografico, ad una loro contaminazione tensiva, che ne incrocia e ne sovrappone i piani, ripotenziando la peculiarità dei rispettivi registri, e insieme però mettendone in ogni momento a confronto, e a contrasto, le ragioni espressive e i tempi semantici. Lirismo e satira, nell’autobiografismo capovolto della Cognizione non si distendono più su due livelli eterogenei, l’uno, interno al soggetto dell’enunciazione, specularmente opposto all’altro, ad esso esterno. In un romanzo che destituisce espressionisticamente di ogni possibile ipostasi sostanzialistica la nozione di soggetto (Benedetti 1983) non può accamparsi spazio, o parola, immune dal lavoro euristico della «deformazione» (la ragione gnoseologica di Gadda vi può trovare la sua elettiva precipitazione, o sviluppo, in ragion poetica). La tessitura mnestico-letteraria della coscienza si inverte in oggetto di conoscenza. Tutto ciò che, nell’autoreferenzialità monologica delle testimonianze odeporiche, simbolisticamente tendeva (in un simbolismo – si badi – cui, gaddianamente, immaneva una «realtà morale»: Viaggi, SGF I 578) alla creazione della poesia, alla sua salvazione emotivo-letteraria (e reintegrazione etica) dell’esperienza, nella plurivocità problematica e multifocale dell’organismo romanzesco muove – per etica ripulsa della parvenza (Cognizione, RR I 703-04) – alla invenzione dell’allegoria – a liberare (55) nel movimento della scrittura la tensione irriducibilmente contraddittoria tra l’immagine e il suo significato. Di una cosiffatta tensione, infatti – a diffrangerne in ardua tensione meditativa la contratta semantica del tessuto simbolico – è investita, nel romanzo, la figurazione (riflesso della metaforizzazione fluviale del tempo umano) del viaggio esperienziale delle «generazioni»: dove la drammatica successione delle immagini si spezza «nello incredibile approdo» della morte che ne chiude la serrata fuga analogica entro la luce spettrale – il destino senza conquista o salvezza – di una allegoria vuota.

è, insomma, lo stesso statuto referenziale della narrazione – nell’impianto di poetica intimamente contrastivo sotteso alla partitura del romanzo – a risultare messo in questione: se, infatti, Gadda non rinunzia, né qui né altrove, alla sua fondativa opzione realistica, e qui perciò non si sottrae ad una rappresentazione ordinata entro un canonico schema spazio-temporale del proprio patrimonio latamente autobiografico, è di tutta evidenza che la realtà che in essa uno strenuo ma contaminato codice lirico, in uno con la ghiotta superfetazione imaginifica dello sguardo satirico, evocano o investono, rimpiangono o effrangono, contemplano o negano, è quella di un fenomeno giammai pensabile-rappresentabile in autonomia dal suo inattinto fondo noumenico. È quella di una immagine sempre solcata dalla negazione che ne dilacera la pretesa di verità – e di una verità predicabile solo negandone senza compenso euristico le parvenze che la stringono e invadono. E se nel nome del personaggio è confitto il marchio del suo dover essere, (56) la cifra del suo destino fittivo, (57) non vi è dubbio che, nel suo pendolarismo linguistico all’insegna della maccheronea, pure la tormentata onomastica della Cognizione ottemperi, ma in una declinazione paradossale, a tale canone di dispiegamento diegetico della individualità semantica. Si dovrà in altra sede sviluppare lo scrutinio analitico necessario a coonestare tale asserto. Ma andrà qui almeno rilevato che da Pedro Manganones o Mahagones, o – che è poi lo stesso – Gaetano Palumbo, alla grottesca folla interspeculare dei Josè e delle Peppe, e dei tanti altri, onomasticamente doppiati e interfungibili, peones, che nel romanzo attorniano, ed anzi attentano, nel loro ossedente trascorrere, alla pretesa di silenziosa solitudine del protagonista, non si spicca figura che non risulti affetta da una deformazione senza crescita diegetica, ovvero da intrinseca equivocità – fino alla inquietante analogia, nel Palumbo (che, come per schema tracciato nel Cahier, aggetta dal «caos dello sfondo» protendendosi verso i gestori della «favola»: SVP 395) con le iniziali della maschera onomastica del Figlio, a rimarcarne una ambigua polarità con il presumibile vettore empirico (fenomenico) del male nella scena del testo. Già dal Cahier, d’altronde, valeva per Gadda il precetto compositivo di «mantenere omonimia per accrescere confusione» (SVP 1269): poi di lungo e assai proficuo impiego, se si pensi almeno a certe acmeiche congestioni onomastiche dislocate nei disegni dell’Adalgisa (RR I 465-70), o alla «irriguardosa alterazione degli antroponimi» (Botti 1996: 137) nel Pasticciaccio.

Ma nel romanzo, dove, tra spazio-temporali straniamenti indotti dalle sovrapposte coloriture linguistico-antropiche e rapsodiche effrazioni grottesche dell’idillio paesaggistico, più stratificati e geograficamente oltranzistici appaiono i travestimenti e le contaminazioni onomaturgiche, non sarà certo un caso che solo due designazioni onomastiche restino sovrastanti ed immuni da quella che potrebbe intendersi come una carnevalesca messa in mora del principium individuationis: il Figlio e la Madre. Nella tragedia senza catarsi che le loro omologhe ma conflittuali declinazioni del tema temporale scandiscono, anche i loro nomi si polarizzano in una gemmazione semantica e figurale. (58) E mentre quello della Madre resta, nelle strategie di una doverosa, prima che nevrotica, schermatura, legato al polo autobiografico, che lo incide di una perdita immedicabile («il suo nome, che era il nome dello strazio»: RR I 673), quello del Figlio – «il bel nome della vita» (RR I 680), nell’ostinato vagheggiamento di continuità che sommuove la meditazione materna – si disloca, e si risemantizza, nelle maschere di una cromatografica (Gorni) sedimentazione letteraria forse non immune da analogie, per la sua costituzione fittiva, con la contaminazione di riflessi culturali profusa nell’onomastica del D’Annunzio narratore, (59) ma, per l’intenzione allegorica che la costruisce, radicalmente opposta al sontuoso simbolismo di quella. E però, a fronte delle loro due maschere onomastiche di personaggi, si staglia la nuda primarietà dei nomi che ne marcano le identità in quanto funzioni tematiche della tragedia, o «favola», gnoseologica che li stringe. La loro cifra designativa salda, ed oppone, al tempo vissuto del retaggio autobiografico – e ad ogni protettiva escursione mascherale nella polimorfa temporalità dell’universo letterario – il tempo astratto della condizione ontologico-creaturale che in quel binomio giace inscritta. Complementari figure di una sacrificale liturgia della temporalità, del suo eterno rivolvere tra origine e durata, ne declinano e interpretano – attori di una impossibile conciliazione tra l’esperienza e il suo significato, tra la Causa e il Destino – la bifronte parvenza. In essi – nella loro identità modernamente allegorica – l’autobiografismo di Gadda, dopo le molte stazioni e figure della sua metamorfica peripezia, si celebra e infine si nega, si dissipa e lascia per sempre la sua prigione di maschera. Non vi sono più nomi che fingano in sé l’esperienza, o che, nella stratificata contaminazione dei codici linguistici ed estetici, ne surroghino la inappropriabile verità. Nel romanzo di una Cognizione che si protende spasticamente a svelare lo statuto noumenico della verità, i nomi non possono che dimettere ogni intenzione realistica o simbolica. Si ritraggono nel groviglio delle parvenze che, deformandosi, dicono – mostrano – il mondo: che ne dicono, confitto nello spasmo di una «maschera tragica» (RR I 704), il tempo, e la perdita di senso che in esso l’euresi rinviene. Ma al fondo deserto del tempo, entro il nucleo sinestetico («l’ora buia o splendente», RR I 714) che – in codice ancora simbolico – ne trattiene e ne fissa in ciclico idillio il cieco e vuoto trascorrere, si spalanca l’abisso della negazione – il nome che infine sancisce l’approdo del viaggio della mente tra le imagini mendaci e irredente del mondo, il tragico adempimento del suo irriducibile progetto di verità e di conoscenza:

Dall’antro della fucina rendeva la percossa al monte: il rimando del monte precipitava sulle cose, dal tempo vuoto deduceva il nome del dolore. (RR I 714)

Il nome del dolore – della relazione antinomica che incide alle radici il tempo dell’essere, e ne disvela ed espone l’inintermesso finire – è quello che solo resta, della rapinosa furia onomastica delle parvenze. È esso il contenuto di verità che si staglia quando il simbolo – la sua trascendente armonia – è per sempre lacerato dall’invisibile male dell’euresi. Il dolore toglie al nome la sua vana intentio sostanzialistica, la sua salvifica re-invenzione dell’esperienza. Immette nella parola il non-essere. L’elegia autobiografica si spegne in spettrale parvenza. L’esperienza – la forma del tempo – non ha altro nome che quello – dedotto da un tempo concavo e diffratto: da un tempo che in perpetuo si nega alla forma – del dolore. La sua verità è nella morte. Il «bel nome della vita» cade nel vuoto dell’allegoria.

Università di Bari

Note

* Un’altra versione di questo lavoro, con differente intitolazione, e alcune modifiche nel testo, è compresa nel volume in onore di A.R. Pupino Studi sulla letteratura italiana della modernità, in uscita nel 2008.

1. Cfr. la fondamentale ricostruzione critico-biografica di Roscioni 1997.

2. Sulla databilità presumibilmente alta dei primi interessi gaddiani per Baudelaire v. la lucida e assai documentata indagine di Lucchini 2004.

3. In merito, si rinvia all’acuta analisi di Donnarumma 2001a.

4. Lumeggiata con finezza e rigore da M.A. Terzoli in Gadda 1993a: v-xxxi.

5. Cfr. Donnarumma 2006: 8-28 et infra.

6. Scriveva, infatti, da Buenos Aires all’amico Betti nel marzo del ’23: «se non mi capitano infortunî, potrò risparmiare un gruzzoletto da vecchio pensionato in 6-7 anni» (Gadda 1984a: 82).

7. Nella sua importante Introduzione al volume (Gadda 1984a: 5-23), G. Ungarelli richiamava acutamente l’attenzione sulla necessità di considerare la scrittura epistolare di Gadda come «una delle fonti […] della [sua] narrativa» (Ungarelli 1984: 7).

8. «Gadda, formato da un’educazione positivistica e rigorosa (tipica della borghesia lombarda dell’ultimo Ottocento), aveva sentito la necessità, ancora studente, di verificare le idee apprese dai libri sul piano della vita vissuta» (Isella 1983: x).

9. In merito, v. Manzotti 1996: 274 sgg.

10. è appena il caso di rilevare che in Gadda il carnevale non conserva alcuna marca lato sensu liberatoria, laddove designa piuttosto un tempo dolorosamente grottesco nel quale le parvenze celebrano il loro pervasivo dominio sulle inappropriabili e per sempre corrotte forme del mondo, sulla loro deformazione non garantita né redenta dall’euresi. Si rinvia in proposito all’importante studio di Lorenzini 2003a.

11. Al riguardo si veda, a modo d’esempio, Meditazione, SVP 791.

12. Da Buenos Aires a Resistencia e Un cantiere nelle solitudini, SGF I 105-17.

13. «Il metodo è di notare tutto […] tutto forma la vita, nulla si deve disprezzare. Tutto è degno di studio, di osservazione, di ricordo, anche il male» (Gadda 2004c: 45-46 – corsivi miei).

14. Metteva in luce – ma interpretandoli da un’angolazione un po’ riduttiva – modi e funzioni del bozzettismo gaddiano Baldi 1988: 69 sgg.

15. «La sua [della sorella della sua padrona di casa, scil.] passione sono i pompieri: quando ne sente la rapida tromba, vola al balcone rovesciando qualunque cosa. […] Essa si meraviglia che io non mi precipiti a mia volta a vederli e continui invece a mangiare le patate fritte con la faccia sopra pensiero» (Gadda 1987b: 73).

16. Analizzata con ricchezza problematica da Benedetti 1983: 124-39.

17. Fondamentale, al riguardo, lo scrutinio analitico di Manzotti 1996: 302-19.

18. «Però [in Argentina, scil.] c’è molto da vedere, molto da imparare, molto da fare» (Gadda 1984a: 80).

19. Cfr., ad esempio, Gadda 1987b: 24, 27, 29, 31-33, 37. In proposito, appropriate osservazioni in Carmina 2007a : 124-34.

20. Importanti le ricognizioni analitiche sulle presenze balzachiane in Gadda offerte da Rinaldi 2001: 87-153.

21. Cfr. Meditazione, SVP 681-97 (dove, tra l’altro, è addotto un «Esempio storico» riferito all’esemplare virtù degli emigranti italiani di fine Ottocento, costretti a levarsi le scarpe per sbarcare nel «troppo scarso fondale» di una Buenos Aires ancora priva del suo grande porto, SVP 686). Assai significativo anche l’accostamento – lungo lo stesso arco tematico del male come diradamento periferico della trama relazionale costitutiva del «tessuto sociale» – tra la Sardegna e il Chaco, nell’esempio incipitario del successivo paragrafo dell’opera: «Vivendo in Sardegna alcun tempo e nel Governatorato del Chaco, nella repubblica Argentina, alcun altro, ho notato come il fuoco incrociato delle relazioni economiche, culturali, etiche, poliziesche, ecc. dei centri di vita (Parigi, Milano, ecc.) vada in tali lontane province come diradandosi: il tessuto sociale si anemizza e diventa derma o periferia» (SVP 698).

22. Cfr. in merito Donnarumma 2001a: 138.

23. Ha rilevato, in proposito, Aldo Pecoraro che «l’immersione in studi scientifici e tecnici e la conoscenza del mondo reale e verbale argentino costituiscono ingredienti fondamentali per una rivoluzione espressiva e concettuale in letteratura. Se Gadda rappresenta una novità assoluta nel panorama scrittorio italiano, lo si deve anche all’ingegneria e all’Argentina» (Pecoraro 1998a: 23-24).

24. Analogamente, sulla stessa linea tematica, in più luoghi delle lettere alla sorella Clara: Gadda 1987b: 73, 74, 88.

25. L. Clerici, La letteratura di viaggio, in Manuale di letteratura italiana, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, IV. Dall’Unità d’Italia alla fine del Novecento (Torino: Bollati Boringhieri, 1996), 794.

26. Cfr. in proposito le dense e intelligenti osservazioni offerte da Savettieri 2004a e 2004b.

27. Illumina implicazioni teoriche ed ermeneutiche di questa moderna tipologia il saggio di R. Luperini, L’autocoscienza del moderno nella letteratura del Novecento, in Id., L’autocoscienza del moderno(Napoli: Liguori, 2006), 7-21.

28. Cfr. Isella 1983: ix – «il punto di partenza del Racconto è ancora e proprio il confronto con una nozione ottocentesca di romanzo».

29. Il rilievo decisivo dell’elemento noir nel romanzo manzoniano è assai finemente messo in luce da A.R. Pupino, Manzoni. Religione e romanzo (Roma: Salerno, 2005), 11-173.

30. Sul tema, cfr. Benedetti 1995: 71-90; ma pure Savettieri 2001.

31. «Pensavo stamane di dividere il poema in tre parti, di cui la prima La Norma, (o il normale) – seconda l’Abnorme […] terza La Comprensione o Lo sguardo sopra la vita (o Lo sguardo sopra l’essere)» (SVP 415).

32. SVP 407 – in merito, cfr. Lucchini 1988a.

33. Sul tema, in varie angolazioni dibattuto, elabora convincenti riflessioni Bertone 1993: 145-71.

34. Come dichiarava incipitariamente alla Meditazione breve circa il dire e il fare, SGF I 444.

35. Ribadito sintomaticamente dall’autore come necessario cursus della partitura narrativa: «Ricordare l’andamento antitetico in tutti i motivi d’intreccio» (Racconto, SVP 438).

36. Racconto, SVP 474, 480. Ne fornisce un esempio emblematico lo sdoppiamento complementare tra la drammatica vicenda bonaerense dell’ipervolitivo Grifonetto e quella, in chiave patetico-grottesca, dell’abulico Gerolamo Lehrer, proiezione autobiografica dell’autore nel registro del bathos, laddove l’altro lo sarebbe in quello – invero, per la sua inattualità, inattingibile – dell’hypsos (SVP 411-12).

37. Come scrive R. Luperini nella Introduzione al suo L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale (Roma-Bari: Laterza, 2007), 15.

38. Vedi, al riguardo, l’assai denso saggio di Fratnik 1990.

39. Ne analizzava le implicazioni modernamente allegoriche l’innovativo Luperini 1987 (e 1990).

40. Di «prosa snobistica» ha parlato, in proposito – con acute argomentazioni – Donnarumma 2001a: 180 sg.

41. Al riguardo, cfr. Orlando 1991a (SGF I 1229-1250), ma anche Savettieri 2004a e 2004b.

42. Sulla tipologia dello sguardo mentale come tratto costitutivo della coscienza letteraria moderna nella sua fase ancora inaugurale si veda il finissimo P. Guaragnella, Gli occhi della mente. Stili nel Seicento italiano(Bari: Palomar, 1997).

43. Cfr., sul tema, le impostazioni di Benedetti 1995 e Lugnani 2001.

44. In merito si rimanda, per l’esemplarità dei riscontri addotti, a Grignani 1998: 3.

45. Cui, significativamente, proprio il rimbaudiano bateau ivre forniva, nella Meditazione milanese, il paradigma iconico: «Il terreno del filosofo è […] la tolda di una nave riluttante contro nere tempeste. Ed è questa nave il “bateau ivre” delle dissonanze umane, sul di cui ponte, non che osservare e riferire, è difficile reggersi» (SVP 860).

46. Vedine la densissima e acuta disamina condottane da Gaetani 2006.

47. Si ricordi come, nel Castello di Udine, «l’orror giallo e feroce delle cose furibonde» (RR I 150) restituisse la modalità cromatica di un vettore di morte.

48. Vedi in proposito Savettieri 2002: 237-52.

49. Ne procura un esemplare regesto, sottolineandone le «evidenti implicazioni simboliche», Manzotti 1987a: 499.

50. Manzotti 1987a: 217, nota al r. 573 – per le occorrenze ivi segnalate v. RR I 73 e 103.

51. Secondo l’accezione – costitutiva del personaggio, e in lui dell’autore, moderno – tematizzata con rara finezza da Pedriali 2006. Ma vedi anche, per originali riprese e curvature del tema in ambito gaddiano, l’importante Pedriali 2007a.

52. Su cui Verbaro 2005: 186-93. Sulla figura del medico nel romanzo cfr. comunque Pierangeli 1995b e 1999.

53. Vedi in merito il classico Guglielmi 1986: 211-43 (219).

54. «Nel “racconto” la nota lirico-simbolica del paesaggio-stato d’animo, pur presente, viene perlopiù contraddetta al suo proprio interno o interrotta bruscamente sul più bello» – Luperini 1987: 106.

55. Come si può ricavare anche dalla illuminante dichiarazione di poetica – relativa alla malinconica, e modernamente vana, Entsagung di Gonzalo – consegnata a un frammento inedito della Cognizione poi ricompreso da E. Manzotti nell’ed. crit. da lui procurata: «Nulla aveva cercato di possedere. O forse un disegno. Il liberato segno della parola sulla bene decente sua pagina» (Gadda 1987a: 523-24 – corsivo mio).

56. Com’è noto, il nome «rappresenta l’imperativo categorico del personaggio» secondo L. Spitzer, Saggi di critica stilistica. Maria di Francia Racine Saint-Simon, Prologo ed Epilogo di G. Contini (Firenze: Sansoni, 1985), 117.

57. T.M. Plauto, Persa, IV, v. 74: «Dictum nomen atque omen».

58. Cfr. il puntuale e dettagliato Gorni 1972: 87-95.

59. Di cui restituisce suggestive campionature A.R. Pupino, «Una tenue magia musicale». Notizie di antroponomastica dannunziana, in Id., Notizie del Reame. Accetto Capuana Serao d’Annunzio Croce Pirandello (Napoli: Liguori, 2004), 113-39.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-14-0

© 2007-2024 Giuseppe Bonifacino & EJGS. First published in EJGS. Issue no. 5, EJGS 5/2007. A different version of this essay, under a different title, is forthcoming (2008) in Studi sulla letteratura italiana della modernità, in honour of A.R. Pupino.

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