Fistola in succhio
Chiamate idrauliche per L’Adalgisa

Federica G. Pedriali

Quanto più esaminiamo il linguaggio, tanto più quello entra in conflitto con le nostre esigenze (la purezza cristallina della logica non era affatto il risultato dell’indagine: era un requisito). Il conflitto diviene intollerabile, il requisito rischia di non avere più significato. È come essere finiti su del ghiaccio, manca l’attrito: in un certo senso le condizioni sono ideali, ma, proprio per quello, non possiamo fare un passo. Vogliamo muoverci, dunque abbiamo bisogno di attrito. E allora indietro: al terreno accidentato!

Wittgenstein

Il dio seduto sulla riva

La lezione è semplice, tutto scorre, e la metafora è quella del fiume, anche se per ben usarla occorre saper vincere le tentazioni della fissità dell’osservazione dalla sponda. Ma anche a sentirsi del fiume e nel fiume, ecco subito emergere, dal flusso bio-psichico, l’immagine dell’io natante e battello. Partecipe, sì, della promiscua fluidità esterna e immerso in una sua non meno paurosa liquidità interna – eppure paradossalmente garantito, protetto, confermato entro i confini magici del corpo e della mente. La lezione è semplice, ma le strategie per sopravviverle si fanno presto azzardate.

Gadda lascia subito tracce di fiumi nei suoi scritti. L’Isonzo, dopo il crollo del fronte italiano a Caporetto, non si fa attraversare, e il Giornale di guerra e di prigionia, con schizzo sommario, mette anche quella impossibilità agli atti della cattura. Questioni di portata e di impoverimento delle patrie «defluenze imbrifere» suggeriscono al neo-ingegnere, nel ’21, il primo intervento tecnico, la prima pubblicazione saggistica; questioni di «chiamata imperiosa dell’io categorizzante» rammentano all’aspirante filosofo, nel ’28, tra le molte metafore aventi a che fare con l’acqua, un tecnicismo fluviale, la chiamata della cateratta, anche lì con schizzo. Un fiume, nel ’24, ossia ai primi seri abbozzi di romanzo, assume il violento straparlare di chi è impedito nella fantasia di potenza; mentre una nave, ancora con disegno, conferma, in una lettera del ’22, l’instabile navigazione mentale del mittente. Tra le due date, del resto, l’esperienza della «turpe risacca» dei sargassi umani – la traversata atlantica, il periodo argentino – e la scoperta della diluviale «broda biblica» – gli immensi fiumi sudamericani. Del ’27, invece, il costituirsi in motivo poetico ufficialmente gaddiano dell’immagine del battello ebbro e alla deriva tra le parvenze; e di nuovo del ’28, anno sempre degno di nota per Gadda, il primo configurarsi, nel proemio della Meccanica, della metafora infine completa:

Ma per piani aridi e illuni o nell’aggrovigliata paura delle giungle immense udrà forse taluno di là da ogni voce de’ viventi come segui il torbido fiume delle generazioni a devolversi e penserà che sciabordi contro sue prode le rame e li steli dalle selve divelti; e verdastre, con i quattro piffari all’aria, le carogne pallonate de’ più fetidi e malvagi animali, quali furono in vita e saran pecore, jene, sanguinolenti sciacalli, saltabeccanti scimie, asini con crine de’ lioni e gran baffi: e il branco lurido e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte.
Ma la sacra corrente seguiterà defluendo, con una mormorazione delle tenebre, verso lontane stelle. E resupino sulla cóltrice nera del flutto e come adagiato nel silenzio e nella solitudine della sua morte, trapasserà segno o corpo che parerà fatto di cerea luce: greve per tutte le membra della fatica mortale, di che solo avrà voluto vestir il fulgore di sua giovinezza: e avrà il capo stancamente nel flutto, il viso rivolto verso i cieli gelidi. Così composto nella sua morte parerà un fiore pallido della eternità.
Ma è meglio cambiare discorso.

Tutto scorre, non si sfugge. Ma la lezione, a manometterla con accortezza, predicherà durata, valore, essenza (è la chiamata dell’io categorizzante). Ovvero contrapporrà un’eternità corporea, in perpetuo disfacimento, a un’altra, non meno materiale eppure traguardata, tramite la forma, sui traguardi di permanenza dell’infinito. Così, cioè, l’io si costruisce un mondo: lo organizza e si organizza, pur non facendo mostra di ascriversi tra gli aventi valore, tra i portatori di corpo-segno sublimato. Un mondo-fiume chiamato agli incredibili approdi dal comando sin troppo temuto di una Biologia e dal potere fittizio di un Sé in ascolto dalla riva (vede ciò che ode, e decide, così crede, gli esiti dei decorsi). Non è generoso né divino, questo osservatore apparentemente all’asciutto, e azzarda mosse, è chiaro, che non gli competono. Com’è chiaro, nonostante l’oscurità a tratti del dettato, che il discorso, appena impostato all’altezza del ’28, non cambierà.

Una Meccanica latrice di prosciutti

I corpi a Gadda germinano di carnevale, spuntano in primavera, tant’è vero che la loro stagione si chiude, puntualmente, ritualisticamente, e con trapasso violento, d’autunno. Ma è una violenta lotta tra forze anche la germinazione, per quanto, poi, le forze battaglianti si rivelino dello stesso segno in entrambe le stagioni, nel segno unico del corporeo, ossia del corporeo puro. Che è tuttavia pur sempre segno, perché non esistono corpi non iscritti nell’ordine dei segni – o meglio, non si danno manifestazioni del corpo, e dunque della realtà, in assenza di una gestione di segni; questo perlomeno nell’ambito delle faccende umane, di altri più funzionali ambiti è impossibile dire.

Anche il corpo dei corpi, pertanto, quello privo o quasi di vita, e più ancora quello la cui vita è stata violentemente intermessa dai riti di stagione – il corpo violato, quaresimale ed osservatissimo di Liliana nel Pasticciaccio (lo osserva il testo, lo osserva voyeuristicamente l’inchiodato lettore), o quello ferito, autunnale, già al trapasso, già lambito da lingue di tenebra della madre nella Cognizione (tecnicamente ancora vivo, già si offre all’ossessione dei viventi per il Sé definitivamente restituito alla Materia) –, anche quel corpo-corpo risulta deciso e consegnato, dalla codifica, ai registri di stato della specie. Anche, cioè, l’orrore aperto che isola nel testo e dal testo il corpo ferito, oltraggiato, quasi non fosse mai appartenuto alla propria storia, costituisce un preciso sistema di segni, un giudizio bene impresso su carni.

Tanto più iscritti, allora, se il grado comparativo è ammissibile, i corpi vivi e guizzanti dei viventi: vivi per evoluzione, germinazione, cognazione, tutti vocaboli prettamente gaddiani – per emersione dalle acque, resurrezione alla forma, elezione della vita. Per desiderio, insomma, ed esibizione del desiderio. E senza scarto tra corpo e segno, nonostante le insaziabili proposizioni vive dell’essere – nonostante, cioè, il corpo chieda o creda di chiedere più vita, più guizzo, meno segno. Quelli di Gadda, si vuol dire, sono corpi-persona, materia scritta e individuata, generata dal luogo, dalla stagione, dalla congiunzione astronomico-liturgica, dalla banalità della Storia. Vivono, se ciò è possibile, per metà dell’anno soltanto, schiusi alla più scontata corporeità, quella sessuale, dalla promiscuità del carnevale, dall’aequo pede dell’equinozio, dalla crudeltà dell’aprile, dalla lancia penetrante del San Giorgio, dall’esuberanza passionale del maggio, le sere più belle! Tendono, nel loro breve arco, al fuoco fermo del luglio, alla terra vestita d’agosto, agli uragani punitivi di fine estate, alla posa imperdonabile dell’Addolorata, alla seconda ed ultima chance di equinozio, al diavolìo dell’autunno, nome sempre utile, il diavolo, in un calendario del corpo sensibilissimo ad una particolare nozione di sacro.

Esiste, cioè, il male. E si manifesta, si incarna nel ciclo manifesto del corpo, nella metà dell’anno in cui i viventi sono osservabili, e conoscono oggetti del desiderio, hanno antagonisti da eliminare, amano terribilmente la propria immagine, tanto da esibirsi come immagini di potenza sessuale e fondare su quella altri simulacri, la famiglia, la città, la nazione, la cultura. È quello, ovviamente, il tempo del Duce, fallo massimo, iscrizione ed esibizione massime di fertilità, modello supremo per i falli minimi raccolti a fare oceano in piazza; coglione massimo, perché altro era il compito della nazione o la missione vitale della famiglia, perché il fiume doveva esser reso sacro col lavoro, con l’utilizzo dell’elaborante plasma della specie a scopi di costruzione civile.

Non diversamente, in questo tempo e decorso del corpo, si esibiscono le donne, splendide. Ed ecco di nuovo trascorrere e farsi notare, nella corrente, Liliana, nobile, melancolica, appassionata, bellissima; o la Tina, viva, imperiosa, negli occhi due fieri lampi, bellissima; o la Ines, sdrucita, bugiarda, profumo caldo di viscere, pure lei bellissima; o la Virginia, procace, prepotente, come diavola fasciata in pelle d’avorio, sì, come corpo in combutta col diavolo di cui sopra. Troppo splendide, queste donne del Pasticciaccio, e non solo di quello – troppo vivo segno. Troppo, cioè, prese da una loro vividezza: e vendute, per quel tramite, al regime dei segni e delle iscrizioni. Sono tutte, difatti, a lor modo, figlie, spose e madri del Fallo. Le smascherano, tra gli altri, a seconda dei casi, la bellezza stessa – formulare, a tratti relativamente fissi, pur nella grandiosa inventività espressiva del giudice fuori campo –, o le ipersessuate consorelle, le megere – la Zamira, osceno fornice sdentato, la maga Circia, laida ubriacatura, laido sesso-trappola –, o il carnefice, che espone, appunto, la carne di Liliana, carne fina, carne scritta: prosciutto dei migliori tra quelli usciti dalla meccanica, ben tetra, di corpo e linguaggio, corpo e potere. Gadda, gran studioso di meccanica, oltre che impietoso giudice non divino, non cessa di denunciare l’inutilità, il peccato di tali corpi – e il suo è elegiaco, satirico elogio:

Oh!, lungo il cammino delle generazioni, la luce!…. che recede, recede…. opaca…. dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!…. e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni prassi è un’immagine,…. zendado, impresa, nel vento bandiera…. La luce, la luce recedeva…. e l’impresa chiamava avanti, avanti i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente…. E dolorava il respiro delle generazioni, de semine in semen, di arme in arme. Fino allo incredibile approdo […].

[…] Oh confortevole aura, salubre terra e clima dell’Olona e del Lambro! oh, Sèveso! oh, pioppi! Oh! plasma germinativo della gente! Dove tu, per quanto minchione te tu sia, o anzi proprio e precisamente per quello, che ci hai nella testa un bel turàcciolo, te tu ti senti tenuto a galla come un papa senza neanche darti pena nuotare: da un clima unto e fraterno, da una pégola vivificatrice. Come una sagace broda: o lardo sfriggente, che si strugga nelle opere, e nella padella de’ civili soccorsi. Come feeders (barre alimentatrici) da cui ogni derivato circuito ripeta il flusso metallopermeante dell’elettrico. […]
Oh, vada, vada la nera Olona delle tintorie gallaratesi a intrefolarsi nel fiotto decumano della Vettabbia, cui rugginosi pitali decorano, alle due sponde, d’un fiore: il verde e tenero fiore del basilico. Vada il Sèveso color caffè a scolarsi in trincera, nella fossa buia e profonda del Redefossus, più profonda del riposo dei morti: il ri-scavato, il re-de’-fossi. Vada, deceda lungo il settembre l’elegia lenta del Lambro, con guardia de’ suoi pioppi su specchianti ambagi, verso i pascoli rintronati di Marignano. Qui è il groppo, il nodo, qui è il plasma valido e vitale della gente, come un coàgulo di peccati […].

Viti destrogire, sinistrogire

Tutto scorre, e il romanzo, broda sagace, sospinge allineate di corpi verso esiti che chiama decreti divini. Scorrono, cioè, le storie, banalissime. Ma c’è qualcosa di più e di più grave della bischeraggine grassa del mondo. C’è un giudizio, difatti, che riguarda il giudice, lui solo. È, anzi, proprio questo a renderlo giudice severo. Un giudizio inappellabile, intollerabile, sulla sua persona.

Al parco, in una sera di maggio dell’Adalgisa, due che ancora non sono amanti, quasi s’incontrano. La passione, non ammessa, dà fiamme, con banale metafora innestata per comando antropologico. Fiamma è lui, Bruno: il giudice ne cova la figura da tempo. Fiamma è lei, nelle definizioni di lui – lei, Elsa, con invariato paradigma di bellezza, nobiltà, eleganza: con occhi dilatati che inseguono lui che giravolta e ripassa, sulla sua bicicletta, come un «pensiero inesorabile e fulgido». Sono fiamme, in tale ora di fulgore, anche l’aria della sera, pura, liquida, e le fronde alte dei pioppi. Il tutto si nota appena; è tra quanto di meglio sopravvive dell’avantesto, il romanzo abbandonato del «garzone del macellaio» dei primi anni ’30.

Nel rinato romanzo continua, però, ad osservarli l’agenzia che si ostina a pensarsi giudice e dio del proprio minimo mondo facendo scorrere, attorno ai due, per meglio coglierli, un’intera città-corpo centro-gravitata sul giardino pubblico, luogo deputato dalla specie alle perdizioni della materia. Così il giudice fuori campo si manifesta, prende forma a sua volta, entra nella storia. Sarà il commento salace, il racconto-diversione e romanzo-nel-romanzo che non intende cedere all’incanto, al trionfo della vita – ed ostacola gli amanti, consegna la coppia ai consueti approdi mortiferi per il tramite di un irresistibile memento mori, la scena al Monumentale, la pagina conclusiva dei disegni milanesi: consegna che permette, tra l’altro, di evitare la banalità, davvero ineseguibile, di un’accidentale retribuzione per incendio.

E sarà più ancora il corpo-porcheria privo di parola del reietto, il nero figuro di disgraziato vagolante sulla scena sin dagli abbozzi del Fulmine sul 220 e meglio noto, altrove, come l’uomo del sacco. Intrigante correlativo oggettivo di un’esclusione sancita a partire dal dato fisiologico, e forse, da un dato di destino. Risibile emanazione figurale di un’enorme stanchezza – la stanchezza del dover essere stati, troppo a lungo, cattivi. Sul quel corpo gli astanti esercitano, a turno, il proprio rifiuto, rifiutandosi di registrarne l’esistenza, mentre il narratore, parimenti non accolto tra i vivi, si ritaglia per l’occasione un pluralis maiestatis di marca straordinariamente singolare, autoriale, la classica, per quanto strategicamente dissimulata posizione del soggetto gaddiano:

Il risultato complessivo era, in noi, nell’animo nostro, e in quel declino dell’ora, un disperato sgomento: un male sconosciuto e remoto: presagi, rimpianti: come il ricordo d’una irripetibile gioia del vivere, d’una luce, che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre: poiché tutto, di lei, pareva significare senza nostra speranza, dopo bruni alberi: «son io, sì! Quella che avete veduta e sognata: ancora per un poco, oggi, sono con voi!».

Il male esiste, origina dall’esclusione. Suggerisce la cernita malevola dell’Olona e del Lambro delle genti; fa respingere, contraffacendolo, il giudizio, altrettanto inappellabile, di chi è nella pienezza della vita. Provoca domande sulla gestione, sulla costituzione dei corpi. È un problema, quello della meccanica e della differenziazione di ciò che è vivo, su cui Gadda non smette di interrogarsi, specie da quando, e si torna sempre al ’28, la riflessione gli ha dato il trattato filosofico, e la prima struttura compiuta di romanzo in un quadro:

Appariva allora la Purissima con il Bambino, sopra un plinto magnifico, che aveva i colori del diaspro e della malachite, del porfido, del lapislàzuli: ed era vista, dagli archi del sontuoso tempietto, sui sereni colli e sfondo dei lor alberi e cielo: ma il demonio subsannante dell’educandato, la Gemma Nuttis, avida, perfida, con i labbri contratti in un ghigno, aveva suggerito a Zoraide un pensiero diabolico: che quel volto effigiasse l’amante carnale del Zorzòn. Così, mentre le monache la facevan segnare e poi ripetere basso il nome del dipintore, Barbarelli Giorgio, Barbarelli Giorgio, gloria di Castelfranco, ella pensava «l’amante»: una misteriosa e torbida felicità, un peccato atroce e meraviglioso, l’amante, l’amante. A destra della Vergine, San Francesco le andava pochissimo a genio: ma a sinistra San Giorgio, un giovanetto biondo chiuso tutta la persona nell’arme, le piaceva immensamente: seppe che era un ragazzo de’ tempi di allora, morto in una guerra di allora: e il padre, un nobile, non s’era dato più pace; finché il Giorgione glie lo dipinse per i secoli e santificò nella pala. Zoraide lo sognò di notte.

La vicenda è, come al solito, banale. Ma anche la banalità impone domande – domande partite dall’osservazione minuta del dipinto, dal dato anagrafico-ritmico ribattuto (il Barbarelli Giorgio Barbarelli Giorgio evocato dalle monache): dalla licenza poetica con cui, prendendo il la dall’effetto di ribattuto, la tentazione incarnata – Gemma Nuttis e quasi gioiello della notte non a caso – attribuisce a San Giorgio, il più noto, il più primaverile e gaddiano cavaliere dei santi, le spoglie mortali di San Liberale. Domande nate dalla banalità, ma che Gadda, da buon meccanico, si intestardisce a ritenere tecniche. Perché i corpi, quelli del Giorgione inclusi, si assomigliano terribilmente; perché se le cose stanno così, se l’occhio non s’inganna, c’è davvero da chiedersi com’è che funziona la vita: com’è che opera dal suo plinto magnifico. Com’è, sì, che si sceglie il santo, che si dà all’uno e non all’altro. È una questione di mere apparenze? superfici? stagione? San Francesco, chiuso nel saio e nell’autunno della rinuncia alla carne, non può certo competere con l’irresistibile annuncio di primavera e forze vive, in lotta, di una lucida armatura.

O è una questione di sostanza: di minute, impercettibili differenze? Nemmeno alla Ford, dopo tutto, vengono due macchine uguali. Una questione di materia uguale all’origine, nella matrice: ma che poi ha preso, come dire, due pieghe diverse? distribuendosi, cioè, come accade ai cristalli, in «due strutture molecolari simmetriche», ossia «metricamente eguali, ma non sovrapponibili»? Strutture destrogiri, sinistrogiri, a seconda della piega. Ecco il termine che fa al caso – se questo è il caso della vita. «Vite destra e vite sinistra», ai piedi del plinto. Ovvero i santi, come i corpi, come le viti? Giorgione non ne fa mistero.

Ci si consola così del lungo buio francescano, dei lunghi semestri d’inesistenza che ci è toccata per vita?

Col fare insonnolito dell’oracolo

L’occhio fissa la corrente. Cerca, è programmato per farlo, una stazione di sosta, un principio di comprensione del reale. Sintetizza un’icona, un enigma: una sacra conversazione. Traccia linee di tendenza che sono persone: i protagonisti del dramma, pochi e non permutabili, il numero è chiuso, i ruoli decisi. La Purissima col Bimbo, alta sul plinto, su una rarefazione della carne – nella presenza della carne, la carne indistinguibile dei Santi. Il Desiderio osserva, giudica, sceglie: istigato dai Sensi, e più, da un suo diabolico Doppio. Provoca la corruzione – o è uno smascheramento? – delle forme superiori del corpo e delle relazioni; sempre ammesso, cioè, che quelle forme e quell’ordine, una diversa patria d’anime, non siano un inganno della superficie chiusa, effetto pala e palo verticale. Effetto soggetto.

Gadda frequenta certo i saperi, butta giù liste di scibile. Studierà, già studia. Migliorerà, si renderà utile ad una diversa e superiore società – crede nei rimedi. Ma quelli, i saperi, gli accentuano, paradossalmente, uno stato già accentuato di desiderio: gli dimostrano l’infinità dell’impresa, la totalità del mondo, l’impossibilità di partecipante pienezza per il Sé. Che chiamano insostanziale, e che ributtano, a riprova, nell’ordine banale e poco tecnico delle storie, con provocazione del codice fondante ed ennesimo ricostituirsi della storia prima, icona ed enigma, presso nuova stazione: proprio come in una via crucis, tra variabili minime che tuttavia significano svolgimento e progresso. L’ordine dell’inane e del vano, dei ruoli e dei numeri chiusi, delle conversazioni profane ad argomento unico (la discendenza del corpo: del corpo prescelto), tra coppie di viti e di santi che s’allineano, si moltiplicano, in una speranza di prospettiva di fuga – in una riaffermazione di prospettiva ben serrata. Il rapporto coi saperi tira, almeno per Gadda, all’incremento di sofferenza, e all’aporia:

La scienza della realtà e della necessità, delle cause e degli effetti, de’ congegni di puntamento, di percussione e di pròtasi, quella sola può leggere dal suo quaderno che in sul capo all’Autore cadrà il pomo dall’albero, piantato nel prato, e disgregatasi invece dalle torri erme dell’alpe cadrà la pietra, cercando il profondo; che il giusto colpo springherà tremendo sopra al bersaglio; e che l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà. Ma, davanti l’ombra de’ monti e sotto li stellati cieli della notte, per entro e per fuora le vene delli umani e il popolo immenso delle foreste, de’ tenebrosi fatti delle lor anime non ha sortilegio da predir se non pochi, nel gioco riconoscendo delle sue carte tutti quelli che finalmente, consumata alla faccia de’ gabbati santi la festa, anche il gufo barbagianni dottor grandissimo fattosi in sue sentenzie sapientissimamente dirà.
Est quod est.

Ovvero uno sragionare apparente, da dilettante geniale – e più, da dilettante insonnolito che pronuncia oracoli, dice ma, espone la ragione al suo rovescio, facendole ammettere, su quel rovescio e nel rispetto blasfemo che le porta, la frode in cui è coinvolta. Il rialzo aporetico è cioè ben d’obbligo, vista la preclusione dalla vera scienza, se l’idea stessa già non è un mito, la situazione denunciata dal primo proemio della Meccanica. S’innestano pertanto, qui e altrove, motivi spuri, metafore di pertinenza di altri discorsi (colpi giusti che springano tremendi… riconoscimenti di figure nel gioco delle carte…). S’innesta, qui, esemplarmente, emblematicamente, a chiudere il testo, la figura del gufo. Immagine, questa, di solitudine, nel bestiario gaddiano: di destino singolo che si accompagna, non a caso, alla coazione al vedere. Nel Pasticciaccio, in contesto analogo, ossia nel laboratorio albano di lettura delle sorti, sarà gufo imbalsamato e divorato dalle tarme. Ne avanza però sempre, resistono gli occhi, spalancati, mineralizzati in topazi – un far tanto d’occhi sulle rovine del tempo. Come dire: tra scarti prelogici e acquisti motivici, il discorso – ogni emblema di discorso, e certamente il discorso in proemio alla Meccanica – declina, con la sua costitutiva pochezza sapienziale, verso un Sé esibito in figura.

Sarà quindi il caso di servirsene sino in fondo, di questo strumento da tavolo, sul tavolo della strega. Strumento non di vera conoscenza, e nemmeno di divinazione. Ma che tuttavia s’ingegna a capire l’esistenza, l’esistente. E che a furia di ingegno riesce, con poco, con finti oracoli da ultimo giorno del mondo, a rendere numinosa la trivialità. Strumento-ingegno costretto alla visione, all’ascolto: costretto a riconoscere il proprio segno, i limiti di validità, il campo di applicabilità del segno, traccia fonico-iconica prima che verbale. Che allora sfrutti la visione, l’ascolto – starà qui il rialzo di sfida. Che cioè dalla nozione critica del limite, o meglio, che da questioni di principio che non intende né può risolvere si ritagli – è suo modo una taumaturgia – un concreto spazio operativo, gestito al singolare, di controllo sempre più tecnico della pluralità dell’oggetto del riconoscimento. Scriverà da filosofo, da biologo, da mineralogista, e da quant’altri mai: scriverà da dio, e non perché l’espressione è idiomatica.

Consumata la festa, gabbati i santi – gli eletti all’ordine del discorso –, il gufo della Meccanica, autoelettosi, dunque dirà. In tale regime di pensiero e di contraddizione, attacca peraltro subito a dire, nel presente del processo discorsivo, col secondo proemio. Un gioco di carte e di riconoscimenti: con seguito strutturale senza soluzione di continuità, e come da supporto pittorico. Un santo per scomparto e unità di testo – un San Giorgio o un San Francesco per scomparto ed unità organica. Con al centro la Vita, come da programma per altari.

I Semplici

Chi scorre tende al raggruppamento, nonostante la fistola in succhio: nonostante, nel succhio, debba patire o agire, e comunque buttarsi (e urtarsi ed errare e peccare e andare al diavolo quasi comandato, cioè ispirato, insufflato, «da parole demoniache, da dèmoni divenuti parole»). Sono i Semplici, i personaggi di Gadda. I semplificati dalla gestione autoriale del segno, oltre che dalla storia e dalla condizione umana. Protagonisti, si presentano nelle combinazioni del numero chiuso, con turni di presenza e raddoppio che danno occasione ad assenze. Non si scambiano però di funzione: non ammettono debito d’equità. Eppure hanno origine da un unico plasma; ancora se ne ricordano come di una prima collettività perduta.

Entrano in tensione. Tendono all’incontro, all’antagonismo: alla verifica del ruolo nella rotazione e nei turni. Con risultato complessivo destinato alla sintesi da parte del più Semplice e Teso – nell’aggiornamento dei dati in un punto e in un momento precisi; nel rischio d’errore, e conseguente emblematizzazione dell’errore, in cui incorre qualunque elezione di punti e di momenti. Gadda comprende tutto ciò, ne accetta la regola con la Meccanica, stringendo un patto col suo diavolo, nella stagione teoretica della Meditazione. Deve imparare ad eleggere – cosa che peraltro già fa, costitutivamente. Ma ha ripiegato almeno due volte, per errori d’elezione, dal progetto di romanzo italiano e storico, nel senso storico che ha per lui la nozione di contemporaneo. E per rimediare ora metterà in campo, ha dell’incredibile, Crispino, la Comare, Ermete, e il Pustoloso. Bisogna però capirlo, ha un suo sogno di fuochi occidentali, approdi meravigliosi, integrazione in una patria d’anime – sogno che fa con eccesso di zelo, e dunque ritenendosi in qualche modo in diritto.

La Comare gli porta doni di splendore e di perfidia, le «proposizioni vive dell’essere, compiutamente affermate» in codici usurati, rivivificati ad ogni nuova usura di mano gaddiana. Veste colori dogali, porpora e oro in metafora, per contiguità col pittorico, decide le sorti consultando Giorgione. Popola di sogni viventi i misteriosi giardini, insegue pensieri vagabondi; nella resurrezione ci sarà il suo amore, strano pensiero. Quel suo corpo è, cioè, vivo e destinato. In questo la sua fede, e per questo la ruga verticale di rifiuto di chi vivo non è, improvvisa e dritta, sulla fronte. La osserva, almeno inizialmente, il solo narratore, in un «attacco di zolianesimo» in anticipo su altri specchi. Non c’è che lui sulla scena, un convenzionato nessuno.

Subentra il Pustoloso, con diversa convenzione di inidentità. Fa le veci di Crispino, meglio noto come il Gramo e protagonista. Sostituzione di marchio genetico, in questo caso, trattandosi di cugini (motivo fortunato, in Gadda, quello della cognazione specializzata, il rapporto di cuginanza; qui trova avvio ufficiale). Ha il suo dramma del rifiuto, avrà il destino che si merita. A sentire Zoraide mangia lucertole; è invero la viltà del serpe, muove le storie da anonimo, da delatore, da rivale del rivale del protagonista. È un meccanismo del narrabile: serve magnificamente a discolpare chi altrimenti avrebbe troppe colpe. Si reincarnerà, in futuro, in ambo i sessi.

Ha il suo paragrafo, com’è giusto, pure Crispino, per quanto non ci sia molto altro di giusto nella sua vita. Crede nella fratellanza, nell’«organizzazione totalitaria della realtà collettiva», che si debba «sorreggere negli anni buoni ogni nato»: che anche la moglie vada baciata come un fratello. È autodidatta, operaio, socialista, soldato – non ha avuto gioia, a suo dire: «nessun sogno vagabondo nel maggio». Eppure possiede, legalmente, Zoraide, suo scopo e premio, sebbene non si capisca proprio come sia arrivato a quel possesso, tanto da far sospettare un possesso teorico e a tesi. È un san Francesco, nei fatti e per frequentazione di luoghi – o un san Giuseppe, nel nome dei padri: benché all’anagrafe non si chiami Francesco o Giuseppe, né tanto meno Crispino. Ma è Crispino quando gli viene mostrata la sua vita da chi, spacciandosi per Dio, ne gestisce, da Comare, il brutto favolone – nessuno gli dirà «Bravo Pessina!», nonostante abbia fatto tutto il suo dovere. E davvero morirà a tesi: tutto il suo sangue di tubercoloso lo soffocherà, con perfida realizzazione di totalità ben prevista dalle sue scienze. In morte farà allora gli occhi del gufo: anche perché Zoraide non attende resurrezioni in un’altra ancor più splendida carne per godersi le sue proposizioni. Alla scena, che all’altro capo del romanzo perfeziona la parabola iconica da lei scelta in destino, Crispino arriverà in declinazione accelerata, portatovi a guidata pazza da Ermete, l’«Adamo risorgente» del rivale, «fiammata di capelli», libero corso, ossia autentico andar franco, anche qui di nome e di fatto. Perché la vita è lotta, e risorgere di forme o nell’un campo o nell’altro – in questo, sì, Zoraide ha ragione –, da un unico «centro morfologico nucleatore». E soltanto ad alcuni dà la corsa d’un sangue fervido, ricco, «nucleato di realtà e di vita»: «da non buttare».

A turno, cioè, i Semplici portano doni preziosi di funzionalità, stabilità, connettività, tematicità, formularità, argomentatività, emblematicità, respiro narrativo. E sequenzialità, ovviamente, trattandosi di turni. Tra i lettori di Gadda la cosa passa per omaggio tardivo, un sistemare i conti con la discorsività altrui, con una superata tradizione di romanzo, in una fin troppo drastica, per quanto assai notevole, messa in ordine del proprio mestiere. La soluzione passa anche per un grido di solidarietà con la vita, coi vincenti, con la coppia che butterà via il sangue, inutile, poco vitale, di Crispino, contribuendo a farglielo dare in una eliminazione doppia, simbolica: di genia e patrimonio genetico, di Gramo ed emanazione maligna. Ma è più corretto dire che Gadda qui passa di livello, accede all’n + 1 della sua invenzione, si lascia sovraordinare dall’io delle storie essendosi affidato, dietro patto a filo doppio, all’unità dell’esperienza (ed esperienza dell’unità), pur di riaprire il pacco postale di strutture pronte all’uso che quelle gli offrono; avendo aperto, di quel pacco del soccorso, un pacchetto che in realtà già conosce, che già gli ha dato problemi. Che tornerà a dargli problemi, nonostante il progresso della Meccanica, ma con regressi a posizioni n o n - 1 più facilmente sanabili grazie a quel punto fermo. Il nodo di mancata solidarietà stretto tra i tre Semplici, con estensione all’indispensabile quarto, il villain, impone cioè aggiustamenti, verifiche – elezione di punti relativi, nello stato di stretta, cui aggiornare, di opera in opera, il grado di variabilità dell’invariabile.

Un’icona di resistenza strutturale coincide, a riprova, con la prima unità autonoma di racconto, estratta dalla primissima traccia di romanzo sociale gaddiano, quella Passeggiata autunnale ritagliata dai pochi abbozzi per Retica. Sei personaggi presto ridotti a tre, una baita in montagna, un trapasso stagionale, una linea di tendenza antagonistica, fuori, nel mondo e, dentro, nel gruppo – un lui che gli somiglia (chiede uno sguardo che dia esistenza, lo sguardo di lei); una lei che gli somiglia (ma quella guarda altrove, in direzione dell’altro, un fuggente, obbligando lui a prender nota del tipo); un tipo mobile di perseguitato (cui lei somiglia, o così si illude; cui lui resiste, perché lei lo esclude dal circuito delle somiglianze). E già viene sintetizzato un disegno, una proiezione materiale di tre ombre, fissando un primo fondamentale punto, nel finale.

Ancora a riprova. All’altezza del ritentato romanzo italiano, nel brano che avrebbe dovuto far da geminante incipit al Racconto, Gadda mette in emblema la polarità del mondo come costruzione, muovendo dalla consonanza originaria delle cose (invero subito polare: è la perfetta gerarchia della moltitudine vegetale) alla classificazione, per cernita, dell’avvenuta (avvenuta perché predeterminata) differenziazione, e da questa all’estrazione conclusiva della coppia. Prima lui, cioè un altro da sé, poi lei, poi il male – il vedere come male, come un provar male: di fronte al disegno della forma di lei, e di lui, disegnato dalla fatica: iconizzato, nell’anonimia, dall’ora e dalla connotazione di mobilità, la bicicletta allato.

Il tutto in contiguità compositiva col primo studio, quel gesto scrittorio che il titolo del passo, Assassinio di Maria de la Garde, dava implicitamente per imminente – e in cui per prima cosa Gadda riabbozza la lontananza dello sguardo di lei, la materia della Passeggiata, ma con aggiornamento alla tensione criminale di lui. Che non è l’altro, e che prima o poi davvero si vendicherebbe se il testo non cedesse alla moltiplicazione di personaggi senza seguito, o con seguito altrove ma con trapasso in altro tipo o scena, di fatto cioè e significativamente rinunciando all’identificazione esplicita della figura dell’antagonista, e così stabilendo un secondo punto fermo: la dispersione dei materiali per reazione traumatica alle forze che li governano. Punto (fermezza di punto) che è in rapporto non casuale col primo, visto che il primo (il punto fermo ottenuto con Passeggiata) alla diversa riprova dei conti presentati dalla vita risultava essersi dato quella figura con fin troppa certezza, usandola oltretutto per farsi dichiarare vincente, nell’explicit. Con peccato dunque non di tesi o di teoria, ma proprio per desiderio. D’inclusione, d’integrazione: ai danni dell’altro.

La meccanica, su questi trascorsi, elegge il primo dei supporti pittorici, stringe patti ricavandone la prima narrativa di tenuta: concede vittime nel campo dei Grami. All’altro capo del romanzesco, il Pasticciaccio dichiarerà il lavoro concluso, nella sua riuscita inanità di non lavoro, alzando non a caso in fase terminale, nell’ottavo capitolo, col supporto dell’edicola dei due Santi, un’ultima icona di antagonismo senile, diseguale, privo di oggetto del desiderio, ma ancora perfettamente risorgente. Tra i due estremi, ripetuti approcci alla forma romanzo – ciascuno una diversa tipologia di test di prova, in un regime specifico di verifica dei materiali, e con polittico dei Semplici ristilizzato dal flusso, in punti singolari, nel variare dei supporti, cartoni di scena, quadri, geometrie del fenomenico, false congiunzioni di stelle, scorrimenti di città: aggiornato, cioè, sulle lunghe distanze, al senso complessivo d’una carriera.

È convinzione critica diffusa che tutto ciò non sia possibile, perché Gadda non sa scegliere, o se sceglie lo fa banalmente, perché a queste cose non crede, perché crede nell’universale coimplicazione dell’esistente: perché sarebbe assurdo, non credendoci, credere con sotterfugio, per obliquità, per amore perverso dei retroscena, quando invece apertamente rifiuta il rapporto singolare, inquina il rapporto lineare, coltiva la multidirezionalità, l’arbitrio, il disordine, tanto da aspirare alla aselettività, alla onnipervasività, nella perdita di necessità biunivoca dei rapporti causali e contiguità ad oltranza dei materiali, ed effettivamente riuscendo, nell’aspirazione, a decostruire la catena del narrabile. Non più catena, quindi, non più ordine delle priorità e della successione – non più elezione, ma dispersione per dilatazione di un nucleo germinale e progressiva iperdeterminazione del dettaglio, moltiplicando, sul numero, l’inane similitudine del numero: fino ad esibire come incapacità costruttiva la perfetta inutilità dell’intenzione narrativa. L’invenzione della realtà non è cioè mai stata altrettanto sospetta, e dichiaratamente. Quale testo, difatti, e in genere, quale operazione conoscitiva registra più verità? Anzi, e superando anche quella remora: quando mai se ne sono registrate?

Sono condizioni di lavoro invero ideali, quelle create collettivamente intorno al Gadda maggiore a partire dalla teoria, dalla teoresi, dalla filologia, dall’intertestualità. Un Gadda ripulito del ghigno, salvo, come già è capitato di dire. Una neutralizzazione delle scorie della soggettività, della confessione d’un peccato inesistente (l’opera esteticamente sbagliata), dell’onestà-disonestà con cui, contraddittoriamente, Gadda crede di non aver potuto dire, pur avendo detto – perché il male «non deve esistere, no, per i lettori seri, per le stupende lettrici», e, più ancora, perché carità e pudore filiale gli hanno frenato e distorto la penna, il tipo di significazione impossibile confessato-esibito a Contini, già lo si è visto (e ancora lo si vedrà, si tratta di una confessione-esibizione capitale: per nulla riduttiva, perché mai). Una frequentazione dei testi selettiva, preselezionata dalla formula critica del giorno, vincente – doppiamente vincente, perché formula che si presume corretta, e perché elogio riuscito dell’economicità, rispetto al dato, rispetto cioè al dato di quei testi impossibili. Una radicata tabuizzazione dell’idea, della nozione stessa di romanzo gaddiano: della leggibilità della sua continuità (o continuità della sua leggibilità): dello sviluppo e dell’identificabilità di una sua forma. Una conclusiva perdita di attrito, in coincidenza con le posizioni della più recente modernità – condizione a sua volta appunto ideale, generata dal pensiero, il quale a suo modo pur sempre cerca e pensa lo strumento della propria purezza, della propria autonomia. Per comodità si chiami tale condizione ghiaccio di Wittgenstein, dalla citazione in epigrafe.

Sul ghiaccio delle condizioni ideali tuttavia non si cammina, ancora Wittgenstein. Si vorrebbe rinunciare al moto, la tentazione c’è. Sta lì paradossalmente il problema: le condizioni ideali possono bastare. Così però l’immaginario critico rischia la stasi, corre cioè il rischio di continuare a perfezionare il Gadda ripulito e impacchettato (insieme a un «bel busto di stucco» aggiungerebbe l’interessato) all’indirizzo dei «bidelli del Walalla» per l’entrata nel Canone dei Massimi, dove anche uno scrittore non vatesco come il Nostro verrà ammesso, è già ammesso, a patto che la sua cognizione delle cose ci includa. Ci include Gadda? Dall’impegno richiesto all’interprete sui testi verrebbe da rispondere: just (ma queste sono anche le risposte che si danno in momenti di stanchezza, la stanchezza legittima di lettori di Gadda). Nasce allora il sospetto (e così sospettiamo di chi sospetta le costruzioni d’autore) che sia per questo, per non mettere dunque a rischio le condizioni ideali, che la gaddistica cammina il meno continuatamente possibile nel romanzo gaddiano – estrae brani, dai brani elabora analisi di brani, o teorie, o punta sull’allusività, fenomeno quest’ultimo sempre esterno, con tale o tal’altro autore, o con la letteratura tutta, perché di scrittura vorace si tratta. Tutte verifiche invero affatto lecite, ma che stranamente escludono l’interesse per un’allusività strutturale intergaddiana, pangaddiana: per il rimando, sì, di opera in opera, da insieme a insieme, di macchina in macchina, ciascun testo un ritrovato, una soluzione a problemi di collegamento – preferendo dirci, lui e noi, indifferenti a tali operazioni costruttive, pur sapendo lui costruttore ossessivo, e sebbene anche invocando, per noi, indagini in tal senso (per il futuro però, sempre al futuro: il presente non offre l’occasione e lo spazio, questa la retorica della scusa) come auspicabili e necessarie.

Eppure Gadda vuole camminare (è di nuovo Wittgenstein a suggerire la ripresa avversativa, per quanto il suo connettore non lo sia: «Wir wollen gehen, dann brauchen wir die Reibung», abbiamo bisogno di attrito). Per questo si ostina a tentare la forma romanzo, ingegnandosi a far immagine e racconto dei limiti del segno (del proprio segno), delle sue vicissitudini compositive: gli annosi problemi d’officina, la progettualità maniacale, l’iniziale urgenza, l’immancabile ristagno, la difficile ripresa, la chiusura perentoria, così da escludere altri soprassalti applicativi. Le storie lo scelgono, lo appassionano più d’una utopia (per quanto esprimano anche quella: la sua utopia), brutte storie, brutto segno, sempre lo stesso. Storie-segno cui però tira fuori l’enigma, il quesito, il dato tecnico, il dato strutturale, la contraddizione con quanto apertamente crede. E cui dà, in più, una «falda scura e lenta», modello inclinazione minima, modello tetto milanese, facendone l’andare appena percettibile ma sicuro di un’acqua, per scarsa pendenza lombarda: calcolatone il «prezioso ingrediente che è il dislivello» di catastrofe in potenza. Perché la lentezza poi anche precipita, brutalmente e d’un subito, ossia la conseguenza è un meccanismo segreto dell’essere, dell’essere della specie, e in brusca accelerata arriva proprio là dove gli esiti attendono; perché le prospettive di fuga, la multidirezionalità, l’arbitrio, il disordine, ci tentano, come un inganno evocato, risorto a comando quando più ce n’è bisogno, per scherzuccio nemmeno tanto sottile del desiderio. Perché ad appropriarsi con disperazione e della sapienza e della sofferenza del mondo si perviene a un tale dolorante accumulo di perizia da riuscire a fare, del mondo, del mondo com’è, se solo si sapesse cosa si fa quando ci si impone la resa notarile della realtà, il racconto del proprio lavoro di soggetto. Anche cioè le acque luride hanno il loro piano regolatore, una «disciplina di sorpassi e di comunicazioni». Ovvero il discorso va messo ancora una volta altrimenti, con diversa formula: con diverso elogio dell’economicità.

La totale calamita

Anni, fasci d’anni, anche a non essere fascisti, e più ancora ad esserlo. Fasci di fenomeni, e relativa filologia, per passione di scienza, la passione di Milano: per capirci qualcosa in un cosmo che ripassa per dati punti, nei debiti giorni, tra germinazione e autunno, tra Carnevalone e Monumentale, o Musocco, mettendo addosso un ansimo da gorgo con quel binomio cimiteriale che attende – quasi un’ansia di traghettare subito e per primi, preferenzialmente.

Cifre che salgono indefettibilmente, come la Milano che sale – cifre tonde con cui far fasci della capitale cosmica dell’ansimo: la vecchia, la nuova Milano. La turba in toboga su un mare senza requie; la schiuma perenne che non conosce molo, pur approdando. Terribile paese, quella sponda nemica del Parapagàl cui navi approdano solo paratestualmente come da titolo, uno dei dieci, nell’Adalgisa. Ecco il vero esito della guerra tra Parapagàl e Maradagàl, paesi rivali limitrofi – tanto limitrofi da discendere dalla medesima matrice o gens. 1890-1915. Culto religioso dei parquets. 1943. Culto della dissoluzione di ogni culto.

1889-1901. Sistemazione fognaria della città su preesistenti, su antichi fognoli. 1895-1905. Balie brianzole per le vie, la desessualizzazione fatta costume: un costume invariato (Lucie Mondelle). 1902-1904 (circa). Il padule stigio: il macadàm arriva ai viali. 1900-1910. Elettrificazione dell’umanità. Arriva cioè pure quel balletto fantasmagorico. Maggio-giugno 1916 (ma non a Milano): «La cimasa delle abetaie si accendeva di faville» – da Vicenza, nelle buie notti (le notti s’accendono più che mai, qui e oggi, Milano 1943, ma di questo non è il caso di dire). 1928. Il nuovo piano regolatore (immaginario, su spunto storico: concorso 1927, vincitore il Barbarossa) – a Milano, nella Milano vecchia, si tirano giù le case, s’intensificano le persecuzioni edilizie, dopo i protomartiri. Ancora 1928 (sempre 1928), terminus a quo e/o ad quem (1920-1928: tra migliorie di un gruppo di famiglia in un interno) – discrimine invero ritualistico, chissà perché scaramantico, tanto da dare infine il figlio maschio ai corridoi del Brügna (prugna? obitorio?). Il figlio precipite diavoleria più che mai da salvare, più che mai da immettere con urgenza «nella città totale e latina, nel regno latino delle anime». Al fonte battesimale sarà Gilberto Gaudenzio, in quell’epoca, in quegli anni, in quei fasci d’anni e tra le indispensabili glosse, benché non più un rigo dell’Adalgisa lo riguardi. Glosse precise, imprecise, filologiche, filologicamente imprevedibili, indispensabili a precisare l’evoluzione (nessuna: 1880-1940) degli standard del volere e potere, della scienza e della tecnologia, della generale fesseria, o saggezza, perché ogni epoca e fascio ha la sua (fesseria? saggezza?). Per quanto nulla cambi: per quanto tutto cambi, a cominciare dalla forma della città, hélas, che dispare, è disparsa. Oggi (1943). Perché è bene ripetersi e ripetere chi e dove siamo. E poi nonostante tutto il cosmo in marcia si regge: su battesimi, vaccinazioni, seppellimenti, resurrezioni. Ha metodo. Ha i suoi refrain.

Il carnevale dei nasi, a febbraio, certo. Il dottor Piva, come in piva, sì, accorrente «ai tre ôr». La farina, come no, la farinetta del tempo, che cade sulle teste, che passa, oh umana ingenuità, per farinetta di tramezzo – farinetta di miglioria! Il concerto novissimo, quell’altro, non questo, ma di questo invero prova generale, al Verdone alias Verdi, alle 15 precise, alle 16 precise, d’un preciso giorno d’aprile del 1931: centoventi (centoventi!) professori. E la Pasqua felice, la città egemone, la «formidanda fucina di uomini». E la gara, la corsa, l’indemoniato criterion – la disperata fucina in cui batte intestardito ogni fabbro. E (anche quella) la mania della purga: la mania di purgarsi col purgatorio (dell’inferno, grazie, facciamo a meno). Perché col giusto volere ci si purga dell’aver voluto vita, vita, vita; perché il fenomenico è da sempre una questione di giusta volizione di volitivi. Come con l’obbligo di lottare, mareggiare, partitare o per Guerra o per Binda – per abbindolo strutturante del binomio, di qualunque binomio. Come col Musocco, inseparabile dal suo Monumentale. Una questione di potenza di refrain.

E tutto ciò non farebbe il romanzo dello schema inessenziale (il tempo, la forma), nell’assenteismo di miraggi superiori (il Tempo, la Forma)? Anche cioè ad essere portatori dell’insostanziale si esibisce qualcosa di fondamentalmente costitutivo (il racconto, la favola che invariata tornerà) – un portare che è il solo costituire possibile, e che in qualche modo dà senso, ragion d’essere, motivo di volere e di volersi tra le cose create, tra gli artefatti dell’umana resistenza all’informe. Nell’esecuzione-esibizione fattane da Gadda tale romanzo avrà un avantesto, una prima gettata, in prima battuta. Un’elezione erronea di modi, nell’elezione subito corretta di punti, dei punti che premono – tanto da non lasciarsi interamente riassorbire alle successive gettate: tanto, anzi, da riemergere in quelle più ancora significativa e indicativa (nel regno dei segni regna, giocoforza, la segnalazione). L’avantesto che, pur passabilmente fallito, avrebbe potuto essere un testo possibile. Ma che, infine abbandonato, infine diversamente s’espande nel testo impossibile: la cui esegesi andrà cioè pensata e auspicata come tale, dall’autore per primo. Tale romanzo, con tali esiti, con tale attacco – ossia col vecchio attacco, quello di sempre, ora titolato Notte di luna, in un presagio di entrambe (la notte, la luna). Una dispersiva estraneità proemiale, a voler credere in un certo Gadda; una premessa imprescindibile pur nell’esibizione di irrelatezza, a voler contare sul Gadda opposto (col resto del cosmo, anche la gaddistica è una questione di polarizzazioni, di volizione organizzata).

Eppure, nell’apparente e/o reale (ir)relatezza di motivi-annuncio, di soluzioni discorsive allotrie e marcanti la soglia testuale in senso paratestuale si dispiega il disegno, il primo dell’Adalgisa – si ridispongono i nuclei generativi, i già disposti Agenti gaddiani (agiscono e dispongono strutture). Sera: ma senza intermissione del Lavoro, nel diverso lavoro del Soggetto. Battito: della corsa rimasta precipite pure la sera – precipita verso l’incontro-adempimento della ventura-destino. Giardino: il ritrovato, il rinascente mitologema della preghiera prima e totale dell’essere: dell’unica legge disegnata da Chi, dal Colui Che. Vento: suo irrompere (erompere), e conseguente ri-decomporsi del preordinato volere, (ri)cancellazione della norma, (re)insorgere del male nel carneo pallore vegetale: perché il tempo puntuativo, questa sera, è anche e soprattutto iterativo, ogni sera. Soggetto-insurrezione: in-sorto retoricamente, pluralmente, ad ogni nuova battuta degli Agenti, tra inconsecutivi temporali, tra salti frastornanti di temporalità: messo e rimesso in guisa di metafora spazio-vegetale a significare un proprio difficile tempo carnale, la scansione emblematica delle sue età – prima il Giardino, poi la Strada. Angeli e Soldati: esalanti gli uni, dalle cime dei pioppi, da richiamare e far rientrare gli altri e dunque davvero per arrivare alla Strada – il tutto in modo che il Soggetto, non più totale (mai totale) ma ancora plurale, continui a potenziarsi come Cernita (individuante Cernita), con fenomeno del vedere in cui la Sera trapassa a dispetto di quello che dovrebbe essere (ma evidentemente non è) il buio incipiente.

Ora non più (marcato, per posizione, tra snodi altrimenti multipli): fermo, fermissimo punto temporale che però non qualifica nessun tempo precisamente e tuttavia in netta, precisa antitesi rispetto a un preciso, precedente tempo di guerra, precisato in nota – primo e maggiore azzardo temporale del nuovo romanzo di Gadda, serenamente riassemblato e destinato a tempi sereni in pieno (nuovo e pieno) conflitto mondiale, nell’apparente indifferenza per quello. Narrema di pietra: perché i cubi delle case bianche e chiare come verità nella notte non reggono al progetto di cui i giardini sono colmi: inseguimento impietrato, pregevolmente artefatto, fermato in figure di cupidità: insoddisfatta cupidità-pietrosità dei silvani, degli inselvati (del soggetto inselvato) cui sempre in pietra (i.e., con l’eternità temporale della pietra) si contrappone la ventura di altri artefatti, di altri amanti, i favoriti della notte. Possessori e Viaggiatori: gli uni posseggono e popolano – popolano di statuari sogni viventi il possesso, continuano a decidere le storie; gli altri chiedono di conoscere indugio presso l’altrui (l’inappropriabile) narrema (narrema-giardino) di riassegnazione delle sorti (stesse sorti). In quell’ora: l’ora di chi è giunto a tali trapassi spaziali. Il lento andare d’un’acqua: sulla griglia cartesiano-lombarda di sorpassamenti a sopravalico. Transitività motivica cui l’oscurità simbolica conclusivamente si affida, tra chiare, tra definite linee di viabilità: strada, strada ferrata, corso d’acqua, ponte canale. Sotto il vôlto (del ponte canale): l’universo, nel suo reticolato categoriale, si è volto cioè sino a tanto, sino a determinare il Punto, l’Incrocio degli Incroci. Lì s’attesta il Passaggio, lì osserva l’Osservatore (osservatore ora stazionario di passanti), perché pure a lui accade di dover lasciare testimonio dell’andare e dell’essere. Difatti testimonierà, con occasione testuale infine risistemata e ricollocata, dopo che da quasi vent’anni attendeva di riuscire a far da paese a guisa di introduzione, contaminazione di dato mentale e logistico.

Seconda ricollocazione. Di nuovo da precedenti attacchi romanzeschi (Fulmine sul 220, capitolo primo). Entrano in azione agenti specializzati, come da dizione dell’incipit, specialisti in sistemazione scenica. Germinazione: con febbraio in Acquario – ossia con guasto idrico garantito (già scorrono nasi brodosi, e il rubinetto di via Pontaccio lascia incinta la serva; solo uno specialista in umidità, un Talete Milesio per dire, potrebbe venirne a capo). Ma il guasto più grosso, la germinazione dell’uguale da disattese promesse di novità nel molteplice, ce ne mette a coniugare acqua e continuità (ci mette tutto il tempo incubatorio necessario per arrivare al secondo disegno milanese dal primo capitolo del Fulmine, dove l’Olona e il Lambro e il Seveso non scorrevano affatto, merdosi e germinativi – oh plasma!). Ribaltamento: perché a furia di voltarsi, rivoltarsi e coinvolgersi, all’universo capita pure di ribaltarsi nelle pulizie del caso, nei debiti giorni, per mano di addetti (addetti, se non proprio adepti, di Ermete – dinamizzandoli l’afflato del dio). Sostituzione: perché il cosmo, quel poco di cosmo osservabile da Milano (la parte però valga per il tutto) consuma gli agenti non le Agenzie, incessantemente chiama avanti il prossimo. Questa Milano: non si fa a tempo a scriverlo che è già quella Milano, la Milano che non c’è più. Quella Milano: la Milano di cui si sapeva tutto (parte di quel tutto). Tanto che oggi, Milano 1943, si continua a far mostra esemplare di quel sapere. Questo sapere: riguarderà Eros e Priapo, essendo riuscito a non riguardare L’Adalgisa. Ergo: quel piano regolatore, e non questo – i.e., non la regolazione fascista (benché i fasci d’anni siano proprio gli stessi).

Quei crolli, dunque, non gli attuali, e relativo polverone: perché per sostituire bisogna tirare giù. Tirare su: perché non sarebbe razionalizzante ragione (speranzosa ragione) il non farlo, non dopo il progetto demolizioni. Incantagione, ovvero la fenomenale incantagione – di nuovo quella, e non questa: l’incantagione collettiva di quegli anni (qualunque cosa incantasse quegli anni: a non volerne sapere di questi). E quindi: confidando nella Confidenza. Perché l’incantata saggezza di un’epoca è bene da passarsi, fidando, di orecchio in orecchio. Ma allora: confidando nel Girolamo. Che della Confidenza è stato agente, agente alle dinamiche dipendenze del dio (ora però agente speso, esaurito: «calvo come il più quotato degli apostoli dopo Simone detto Petrus»). Lo straordinario, il fidente girolamo, tra il mercuriale e il paolino. Funzione che davvero gira (come cioè già fu di nuovo sarà) – che girerà imperterrita per tutti i giri a venire (ma imperterriti girano pure gli alternatori Gadda & C.). Rieccolo difatti: Bruno Locati. Più che mai da rilocare, per raggiunto diritto dell’età, presso Elsa, sostitutivamente (ermetico sostituto, specie serotino, tanto del vecchio servo che del vecchio marito). Insomma, e ricapitolando, benché questo anche non sia un capitolo, non nel senso convenzionale. A Milano, di Carnevale, in una nuova e imprevedibile sintassi di concause varie (crisi multiple di servizi e di locazioni) si rimanifesta il pacchetto degli Intramontabili (letteralmente intramontabili, anche per insuperate questioni di ora topica). E valga pure questo nesso (o rescissione di nesso). La rifunzionalizzazione del capitolo primo del Fulmine (risorto, insorto da lunghe allineate di fatti psichici e discorsivi con nuova, con vecchia carica fabulatoria per l’appuntamento che si riprospetta serale) impone, cautelativamente, un inequivocabile qui però non si continua (è il poco getto della terza ricollocazione, il breve disegno-elzeviro Claudio disimpara a vivere che alla fabulante gettata dei disegni 1 e 2 oppone, per la terza battuta, un esile ponte motivico, il soggetto come navigante miracolo da ritentare la sera – tassello strutturale minimo ma deciso a far valere la diversa misura testuale convenuta, in un diverso patto col narrabile e romanzabile, in base al quale gli Intramontabili, rimanifestatisi, dovranno soprattutto ritirarsi, e saper attendere dove loro compete, nella sola altra posizione marcata disponibile).

Quarto disegno. Di nuovo con passo indietro nel tempo, così da tendere all’anno e dall’anno, quel 1928 terminus già ad quem ma ancora (grazie a dio) a quo. Le credenziali di chi in questi disegni fa da testimone e cronista continuano, cioè, ad essere ottime. Vivo (si fa per dire). Vivo e asincrono: vantaggiosamente asincrono rispetto al tempo (finché la biologia tiene). Vivo e partecipe, o perlomeno partecipato (destinatario di messaggi di partecipazione: nascite, lutti, resurrezioni). Partecipato e cognato (all’immensa, alla rassicurante vita della gens). È, dichiaratamente, lo scrivente: colui che commenta gli anni sfruttandone il frutto, facendone fascio (dare e darsi aggruppamento guadagna infatti durata alle certificazioni della memoria): che sfrutta i figli, i figli degli anni, per disegnare disegni milanesi, su cartoni vecchi: che ritrae il gruppo, il suo gruppo (specifico e universale sottoinsieme del Gruppo), saturando i supporti, corpo principale e margine, parlando e dichiarando di parlare come l’epoca, di essersi limitato a trasferire di peso. Ma quale che sia la dichiarata immunità (relativa immunità) dal tempo, il mimetico testimone satirico (caso di dissociazione ecolalica per escogitata e però insostenibile ininscrivibilità nel segno) deve a quest’altezza, l’altezza del quarto inserto, superare innanzitutto il quarto test. Che non è più quello dell’avviare e dell’avvertire questo è il proemio, questo il plot, questa la misura – adesso il segno-segnale da dare è qui però anche si procede. Con procedere allo sviluppo della materia non solo e non tanto per esibito allontanamento dalle tentazioni dell’intreccio (il set di Intramontabili che è da tenersi ben a bada). Giunto cioè alla quarta stazione, chi progetta il romanzo (ed è metatestualmente un Gadda) chiede il rialzo, chiede di ri-agire alternativamente il narrabile, di ri-tentarne un più segnato ri-assemblamento ri-tendendosi verso il romanzabile per chiamata, ossia con metaforologia idrica sempre più decisa e decisiva.

Perché il tempo scorre, non può che scorrere. E il Gadda che scrive tenacemente abbarbicato alle minime garanzie di esistenza del suo segno, scorre appunto segnato dal tempo scrittorio: dapprima resistendosi, imponendosi di ritirare e ribaltare vecchie risultanti, vecchie aspettative. Poi però anche costringendosi a traversare riempitivamente il vuoto venutosi ad aprire tra i nuovi Avvertimenti, agli Avvii, e il nuovo Recupero finale (degli Intramontabili: economico recupero, dal Fulmine, capitolo terzo, e ora disegni 8-10). Anzi, poi prontamente inclinando il testo – che di nuovo si riempie e reinscrive e riorienta. Superficie piana invero subito inclinata e richiamata (richiamato portatore mediano di funzione). Rinnovata funzione connettiva in zona intermedia (che è dove, ad essere progettualmente ri-tesi, non vanno rischiati né i ritorni anticipati di materia né la vacanza strutturale, disegni 4-7). Acquistano così pendenza gli Agenti (la continuità ri-germina… Milano si ribalta in una diversa, in un’uguale Milano… la sostituzione ancora e sempre ri-genera figli…). Accelera cioè il lavoro di miglioria (a tappe mancate, marcate, forzate, dinamizzate dalle gestazioni, dai piani di riproduzione e regolazione del corpo-casa, del corpo-città). Accelera, soprattutto, il lavoro mimetico di chi, nell’esagitazione generale, epocale, universale, tiene il complicato bandolo della cronaca degli anni nell’immane attesa dell’Anno che marcherebbe infine essenzialmente il Tempo che non si dà (il tempo, di questi tempi a Milano, si basedowizza come non mai: per quanto il novecento, a Milano, anche non sia che l’ansimo temporale di sempre).

Non dunque il lento andare d’un acqua regge le riprese motiviche in fase mediana. A partire, difatti, dal quarto cartone e fino al Grande Ritorno (dell’emblema indefettibile), ogni nuovo innesto segna un salto, una caduta, un diverso livello energetico, un passaggio di grado, di grado di celerità (già Cognizione, del resto, sorgeva in corrispondenza d’un salto nel narrabile, precisamente e letteralmente l’altezza d’un piano di casa, metri 4,25; ossia tanto poco basta, nel settore accidenti, a scatenare insorgenze energetiche tali da risultare regimentabili solo in seconda battuta, e solo in accessione scalare). Così Adalgisa 4-7 è dapprima pre-giopontiana, tendente al ’28. Esagitazione pre-discrimine, e interna, da budello del Mondo. Pre-esemplificazione in atto, ossia nel pre-tempo: anticipata allegoria pratica (gaddianamente exemplum) della legge del Budello o Gettito dei figli. Perché ci pensa poi il cervello stesso e del budello e del libro a far avanzare i generati e moltiplicati verso il Rivolgimento Massimo (centrifugante e spiritante rivolgimento: solo invero i migliori, solo cioè chi affronta l’incombente climaterio da risentito e nasuto padrone di sé, potrà, dal pre-tempo, credere di muovere verso l’Eternità per tappe ritualisticamente esprimibili in cifre). Così l’exemplum viene accolto nella città totale dell’Adalgisa, a ri-dire la totalità delle storie. Sotto il farinone che scende: sotto le locuzioni standard che salgono – col dottor Piva che salva, e col diavolo che assiste dal Fonte (battesimale). Ma nella coimplicata diceria di motivi ripresi e variati, aggravati e precipitati, il movimento successivo sarà già altro salto, altro organizzato livello – altro notiziario dal Mondo ulteriormente capovolto.

Col quinto innesto, infatti, dallo standard che lega le generazioni al tempo (la palabra oficial, sì, perché a furia di capovolgerci siamo finiti anche in un molto cartonato e saturato Sud America), nasce, per il tramite di un altro dottore (dottore qui senza nome e però più dell’altro munito di piva), la figura del Figlio – non il Gilberto Gaudenzio, già sistemato, già gaudente alla precedente ricollocazione, ma il Gonzalo Pirobutirro d’Eltino, indichiarato prelievo dalla Cognizione, parte prima, primo tratto. Su un omologato paese della fame riappare cioè il tempo, per volontà cosmica di ritorno: riparte la dialettica di stagioni, giorni, ore e cibi, una liturgia alimentare accomunante riattiva la perpetuità del ciclo. Torna, tra varie amenità (storie di case, storie anzi di ville contro la cui funzionalizzata parvenza insorge, dal salto in terreno accidentato, l’immaginosa tensione della retribuzione pseudodivina), torna dunque il pasto del figlio, dalla memoria del tempo, riccio, granchio, scorpione marino, pesce spada, la tassonomia non è chiara (si sta riprendendo, verbatim o quasi, quanto si è già scritto a proposito di fame a Longone e dunque della Cognizione: Adalgisa si appropria invero di troppe cose, in un rivolgimento centrale di risistemazioni o libere da impegni con altri progetti, il caso del quarto disegno, o impegnate e tuttavia rescindibili, disegni 5 e 7, Cognizione 1 e 6, strutturalmente persino più notevoli, da rescissi e raccolti in nuova posizione mediana, grazie anche al tassello-ponte del sesto cartone, ritagliato da Fulmine ma con aggiornamenti alla nuova connettività – il che complessivamente certo significa che Gadda non sa scegliere, perché se sapesse scegliere non sceglierebbe come fa).

Rifagocitato dalla palabra e pervenuto al proprio centro, il nuovo libro e budello è, allora, il centrato circolo vizioso tutto temporalmente preso e speso ma metabolizzante il Gesto da fuori standard (finzione di estraneità allo standard). Centrata e centrante metabolizzazione condotta (apparentemente condotta) sul tempo con occhi (è la sinestesia come maieutica introitante cui si accennava anche ai paragrafi precedenti, sotto le spoglie della metafora del gufo) – bocca-occhi che in tre salti riagisce una vertiginosa visionarietà, la sola in grado di competere (fingere di competere) con la morte continua del mondo (e qui il punto di riferimento sia il Saturno allucinato sulla propria Posa del Goya: in Gadda sguardo divoratore massimamente accelerante, dilatante, riottenuto per il tramite della Cognizione come Navi approdano al Parapagàl, disegno 7).

Perché il tempo proprio scorre. Ovvero il tempo, budello fertile, produce (produce per distruggere). E il soggetto, budello sterile, imita il tempo, invita a passare per di qua, per questa morte, per il tramite di questo centro. Tanto la via della resurrezione (Resurrezione della Specie) è assicurata (da buon portitor infernale, Adalgisa non può che dire la verità, e garantire trasporto efficace, annunciare la felicità globale dell’impresa). E mentre dal centro del nuovo libro la resistenza (al tempo) sempre più precisamente si traduce in resistenza (al mondo), quello (il mondo) in questo iper-agito torno testuale si riconferma intento a sua volta a resistere, persistere, accelerativamente, per accelerazione moltiplicativa da dentro lo standard, in gara col soggetto hybristicamente fuori categoria e fuori moltiplicazione (ritagliandosi tra i due pasti, mito, rito, realtà, prelevati da Cognizione 1 e 6, disegni 5 e 7, l’ex-attacco di Fulmine 3 e ora sesto cartone fa da potente connettore tanto tra i corpi testuali che tra le parti in causa, le quali risultano messe nella stessa causa, e dunque in guerra, dal promiscuo gioco strategico del tempo indifferentemente spappolatore – qualifica e agenzia, questa, non altrettanto sicuramente agita nel Fulmine, per quanto già indubbiamente attivata).

Rifagocitato ma portante, spiritato e spiritante: portatore dalla portata ultra-satirica. Il rivolgimento centrale dell’Adalgisa, il mondo che sfarina in un’unica pasta, il dover partecipare volitivamente dell’impasto, il dover far pasto della procreazione infinita simultanandola per tenerne il passo, quel suo gran passo di Vita a cui, a esser omini, è sempre concessa la sua Donna (mentre a non esserlo non resta che fare il finto Crono, soggetto cronico o narratore cronista, ora anche e più dichiaratamente il Gaddus) – siffatto centripetante procedere, disegni 4-7, con recupero, nel transitus, del Climax Massimo (il massimo in repertorio, in un repertorio cui certo non mancano le esibizioni di calor bianco), ri-ottiene, alle pendenze scrittorie di Gadda (tengono duro, dalla pendenza e dal centro, proprio come il creato: per quanto, di nuovo come il creato, non possano, da dure, che muovere celermente verso esiti), l’esito che ritirato attendeva, disegni 8-10, il romanzo di Elsa e Bruno e Adalgisa (funzione quest’ultima scindibile in più attanti o agenti, ma già e ab origine inseparabile dalla Coppia).

Tale anzi risulta l’abbrivo del natante duro Adalgisa (scivola felicemente su fluido testuale composito: straordinaria fluidificazione di ritagli, di parentetiche da Racconto, da Fulmine, da Cognizione, da intenzioni sparse affidate alla stampa: ritagliata fluidità intesa a bloccare eventuali risorgenze e di Pane al disoccupato, Fulmine 2, e dell’Abbozzo del finale, primo getto), tale è cioè l’impulso di evitare altri impulsi, altri centri (altre pericolose strette risorgenti dal Centro), che al reinnesto, disegno 8, Un «concerto» di centoventi professori (ex Orchestra di 120 professori, Fulmine 3 parte prima: estrattane Adalgisa 6), la velocità di crociera resta quella, affatto clamorosa, di un rivolgimento in grado massimo (ma Gadda, nel piegare quel grado a esiti infine esilaranti, tra i più dirompenti in catalogo, ha ben in mente di essere il soggetto cronico e cronista attediato dai clamori della radio – spunto che gli sutura la Grande Propedeutica, disegni 3-7, e il Grande Ritorno, disegni 8-10).

Bisogna, insomma, prepararsi per il Concerto. Dopo il sabato (dei Ritagli di tempo) cade pure la domenica (del Verdone). Sono caduti, a dire la vera verità, poco più di due mesi dai nasi brodosi del febbraio (e febbraio 1931) di Adalgisa 2 – anche se, a vivere di vertigini, il tempo ha finito per prendere la consistenza temporale dell’emblema, con anni che sono cifre esemplari, progresso numerico generatore di esemplarità. E con mesi che dirigono il Ritorno, ritorno puntuato, per punti sull’ellisse: febbraio germinazione, aprile crudeltà dell’aprile, maggio ossia sera di maggio allorché per taluni (taluni soltanto) i sogni si fanno vagabondi, la sera più bella! E ritrascorse le iniquità germinative, rimaturati l’equinozio e il dopo equinozio, ri-ecco, ri-ecco! Ri-ecco il luglio di fuoco, l’agosto che non cede: tappe sicure della Materia che ridispera di sé – ferma pur nella vampa, fermamente in attesa del suo autunno.

Che è quando difatti avrà il suo secondo equinozio. Così che il vento (c’è ovviamente pure quello nel tout se tient cosmico gaddiano) al suo secondo appuntamento coll’Equità (ed aequo pede della Morte) dipani e ridipani. Da vento che è, e prima di intermettere (intermissione breve, perché al Sole, in Gadda, appena gli esce la Vergine subito gli rientra il Pesce, o entra lui nei Pesci, senza soluzione di contiguità tra gli equinozi, e quindi con stato di tensione equinoziale perpetua – come da rebus e nota 21, cartone sesto, che dagli ansimi di Milano contempla la propria rispettosa-dispettosa indifferenza alla maggiore astronomia). Sdipanando e ri-addipanando (è sempre lui, il vento-tempo-soggetto-scarica di ogni Ritorno e Retribuzione). Ri-dividendo la fronda agli aspettanti viali, anzi e meglio: sdoppiandone le cime aborrite, la lezione di Adalgisa 10, all’explicit. Ovvero e infine appiattendosi (ma di nuovo è un appiattirsi per sempre, che è per sempre ritornante) nella misteriosa nullità del potenziale di terra e fine del libro (la fine di ogni libro, perlomeno gaddiano). Il tempo testuale rimanente all’Adalgisa dal reinnesto sul suo Fulmine più che mai cioè si tiene – con l’Equità, con la Vergine, col Pesce, cogli Sdoppiamenti (e non raddoppi) di Cima. Perché Milano deve avere il suo Concerto e Giudizio Milanese: giudizio ragionevolmente universale offerto da chi, in questo libro, tiene nonostante tutto il filo del tempo.

Il Grande Ritorno tiene tenendosi allora con Adalgisa 2, con l’ex Fulmine 1 e 3, con un’iconografia fissa di Donna Imposseduta benché alle origini remotamente goduta (compossibilità logica, questa, affatto possibile: specie in testi impossibili). All’Emblema Irritirabile è peraltro venuta meno la tenuta banalmente tensiva (romantico-tensiva) che troppo mediocremente evidenziava la propensione femminile all’incontro coll’Ombra (Allegria-Ombra di valletto-garzone profilatasi, in Fulmine 2, tra residualità varie della precedente gettata: esclusone un rigor mortis eccessivamente delineato, nel Tipo e sul Tipo, per incontrollata urgenza del getto). In tempi testualmente mutati, precipitati e però ancora precipitanti, tale Donna e Tenuta e Serie Conclusiva attende dunque che pure Bruno si tenga, torni a tenersi più propriamente risorgendo, da serotino e trapassato che è nell’insorgente lettera di Adalgisa 8-10 (a non limitarne la spiritata performance ad Adalgisa 10, nota 13, come invece tra i gaddisti perlopiù vien fatto). Ritorno con Resurrezione, da lontani, da testati prototipi di Rivale a incarnazione unica ma riavvistabile in Copie e/o in Immagine – il Trapassato che non somiglia a nessuno s’appresta infatti, con altra audace compossibilità, e a dispetto dell’universale pasta e impasto, a sostituire anche questa volta soprattutto se stesso.

Sembrerà, ai più è certamente sembrato, che del vecchio romanzo del garzone del macellaio poco sopravviva, e che quel poco ceda facilmente, e senza grosso seguito, agli ammirevoli furori dell’Adalgisa, funzione eponima solo conclusivamente rimanifestatasi, dopo le precoci manifestazioni nell’avantesto, in segno e significazione di persona e personaggio, disegni 9-10 (ma funzione di cosa o di chi, e a qual fine, vista l’entrata in scena in prossimità della Fine, in gaddistica non si dice, se non per dire e ridire o di ineffabili complessità dell’essere e del non essere, o di molto effate escursioni iper-satiriche ai generici danni del milieu).

Sembrerà cioè diversamente, ma il blocco 8-10 non è rinegoziabile – blocco duro di nessi, di tappe, prima 8, poi 9, poi 10, secondo principi operativi che evidentemente non sono proprio di Gadda. Il desiderio di Sera (già questa sera, sabato), di Concerto-Sera (per l’indomani, domenica: ultima domenica di aprile, tra mai finali ammonimenti di incombente e retribuibile Gomorra), nella città che sale per l’Ultima Volta e Voltata, precipitante Collettivo di fessissima marca milanese (precipita, col Libro, nel Libro, al motto della più illusa Continuità: dür e ch’el düra) – tale Ritorno e tappa no. 1, Adalgisa 8, riottiene innanzitutto, per Lei, per lei Elsa, che volitivo-fattiva propriamente non è (certo però vuole il suo Ermete), la riapparizione di Bruno, tra espansioni mirate dell’avantesto (mirano alla miglioria ultima e maggiore: fare del Teppista Umbratile, riemanante col bruno della sera di Fulmine 3, cromatismo e punto oltre il quale Adalgisa non intende tendersi o tenersi, l’ombra più esattamente già ripentita d’aver appena attraversato lo Stige, tra le ombre domestiche d’un barbugliante averno, in un erebo casalingo dove il Tempo chiaramente è cuoco – in teoria Cuoco di vita, ma i suoi piatti sono cotture di riflessi, pietanze della memoria).

Bruno ritorna non una, due volte, nel Ritorno: con più nuova tenuta, propria e del Libro. Il ritrovato Soggetto Progettista ci lavora sopra ben bene, piglio economicamente geniale, vantaggio netto, perché ora vede l’opera, vede il filo dell’atto. Rivede soprattutto la stazione di sosta che fa vedere, e come giungervi, con quali soluzioni di ritaglio e di collegamento, non avendo mai cessato di potenziarsi in quanto Cernita. Potenziamento però sul già visto e sul già tornato, e quindi con Ritorno affatto vizioso: circolo viziosamente progettuale della Scoperta che non rinuncia a riagirsi secondo modalità anche invariate. Eppure nel vizio il vizio si ritende, qualcosa cioè conta come obiettivo ancora da raggiungere: comporta che il Soggetto e Libro, non ottenendo di meglio dal mondo (la propria storia resta invero il massimo dei ricavati), si accinga almeno a chiudere in superiore Romanzo – superiore dal limite, nel limite. Una prosa bellica e pneumatica, ecco la più utile delle strategie economiche, un’incalzante mimesi acustica: un fare, sì, il verso al Verso universo, dalla piva. Piva di insaziato gasterofonèta, o trippofonèta, com’è sempre il caso di chiarire, glossando, saturando, in nota, o nel testo, perché nemmeno a chiarire, glossare e saturare si perde l’abbrivo: a saperci fare, nel fare il verso.

Anzi, ma come già Fulmine 3. Senza l’acustica, senza un buon orecchio, in questo disacustico bacino di carenaggio, Libro e Bacino di Dissonanza, non ci sarebbe miglioria. Miglioria per l’appunto di visione: essendo la Visione quella cosa non risintetizzabile che tuttavia s’accampa infine non banalmente a Centro Campo, il centro campo del Finale, Adalgisa 9-10, a Crescendo ottenuto e quasi sua emanazione – avendo quello ripetuto e ribattuto il suo messaggio sino all’ilarità, perché il Cosmo è in perenne fase successoria, avanti i prossimi! Il tedio di tale ascolto è cioè ansiogeno al punto da indurre, una volta di più (ma per questo libro è anche l’ultima volta), il rialzo agonistico, a furia di acustica: agone trasmesso dal mondo ri-ribaltato in Notizia di Mondo – Adalgisa 8 –, facendo il verso (di tutti i fenomeni ritmici concepibili) alle volate cumulative della radiocronaca sportiva. Il cronismo gaddiano è sempre però buon tempista, in tempisti tempi sereni. Tempi di radiocronache ad elettrizzante diffusione collettiva, sotto il collettivizzante Regime, nell’estenuante gareggiare (girare), e partitare (altro girare), legato ai campionissimi. Legato ai Guerra e ai Binda dell’indistruttibile abbindolo, per polarizzata acustica di fatto del tempo di cui era evidentemente previsto che dovesse più clamorosamente servire: servire al Gaddus! Abbindolo cioè invero legatore dell’agone polare. Che difatti lega potentemente ai cimiteri: cimiteri cui porta dritto, senza tanti giri, complessità o pieghe, da complector, come da partitanza sostenuta e vinta, artisticamente vinta, da un povero cristo dell’artisticità. Vinta e riaffermata, per questo Giro di Milano – edizione unica, traguardo al Monumentale –, in Notizia Senza Alternative: in splendida, imbattibile sutura del Grande Reinnesto. Peccato in gaddistica di queste così poco strutturali operazioni non si dica molto, o affatto, o collegatamente, preferendo l’osservazione isolata ed isolante della sola gragnuola ritmica di Adalgisa 9-10 (ad eroina eponima segue, del resto – è un classico –, esegesi primariamente eponima).

C’è insomma, nell’agonismo cumulativo-morulativo dell’ottavo disegno, tutto il necessario, dopo Adalgisa 5-7, per tornare a dire e ribattere: ecco. Ecco difatti ancora le turbe, eccone il traghettamento: preferenziale come lo vogliono gli Inturbabili. Non li turba il Trapasso, tanto dureranno anche negli avelli. Né li turbano le turbe del Soggetto, che nel traghettamento da purga a purgatorio, da Concerto a Monumentale, ne impone la malvagia e scempia compagnia. Ecco l’esagitato reame della carne della nuova, della vecchia Milano, che come più nuova Bruxelles (l’iperbolica Bruxelles che agita il grottesco di Ensor, e in cui anche Gadda leggeva la disavventura cristica dell’artista) attende, senza saperlo o saperselo figurare, un cristo, un cristo di carne: altra pasta, altro sangue, altro patrimonio genetico (ma pur sempre carne, come la carne repressa e repressiva di Milano, tant’è vero che per mestiere la maneggia). Ed ecco allora che il Ritmo che consuma (la vita) ma salva (dalle cadute dell’avantesto) sutura anche le due riapparizioni-visioni di Bruno, il Ri-disegnato di Adalgisa 8-10 (disegno voluto e rivoluto dall’Artista Supremo: che infatti lo impone come Schema ai suoi più diligenti esecutori di comando). Icona, la prima, Adalgisa 8 pre-Concerto, invero ancora solo memoriale. Icona di Monello, di Ragazzaccio sgusciato di mano al Soggetto Progettatore a pensare il pensiero e schema Cucina: che in quanto pensiero superiormente ispirato è dove alberga il plurale livido di riflessi e di impliciti delle Ombre di Cucina (non era stato altrettanto pensato in Fulmine, ed è deriva evidente dalla sistemazione umbratile della casa della Cognizione occorsa nel frattempo).

Icona memoriale pure la seconda, Adalgisa 9-10, nel maggio vagabondo del post-Concerto e post-aprile. A farsene istigatori questa volta però sono i Ritmati e Turbati. Persone (date persone), e Memorie (date memorie), prese dalla risacca del Ritmo, nel sovraeccitato rallentamento del Dopo (l’Accelerazione Massima è ormai spesa, e la velocità è tossina lenta a rientrare nella normalità endocrina). Personale Committenza Vagabonda (sognante, rimemorante, osante: osa chiedere e osa resistere il Ritorno del Tempo) che s’impone al Soggetto e Libro infine Iper-vedente (dilatante, disperante: per allucinata reattività a una richiesta non propria e soprattutto impropria). La trascorrente Città ne ricava un Centro e un Parco. Una stazione di sosta del Moto, in un Cosmo piroettante coll’Emblema: tolemaica girogiostra in pericolo (apparente pericolo) di vedersi ribaltata ad ogni Giro. Ma mentre il trottolante Cosmo non rischia proprio alcunché (nulla di quanto preme alla Specie mai lo ribalterà), l’Emblema e Allucinazione gli riaccampa, nel bel mezzo, un molto (ma anche molto poco: il getto di Fulmine 3 è stato perlopiù a pronta presa) ri-pensato e ri-schematizzato Giardino dei Fini e della Fine (o ex-Giardino delle Origini). In quel riacceduto Punto l’Icona non cessa, difatti, di far ripetere, rappresentativamente, esemplarmente, a selezionati astanti, l’Errore del Mondo – i.e., tout se tient, anche a non volerlo: anche nel milanese Parco Sempione.

Elsa è puntata, Elsa la bruno-diretta. Adalgisa è puntata, con occhi puntati su quel segreto, per vedere di coglierlo, tra pungoli. Punta Bruno, of course, il Rivale di Bruno, puntandolo dalla stanchezza per l’incommutabilità delle Parti – parti di Semplici e di Compresi nel cerchio magico della Selezione, di Estratti dal traffico morulativo dell’Insensato, a riagirne il Senso, tra i traffici dei sensi. Puntano la Scena della Rivalità, che è l’astratto risultante da no. 2 rivali, Unità Minima da Numero Minimo Necessario, i quattro occhi sincronici dei due Ragazzi dell’Adalgisa. Nella Scena leggono correttamente Lotta, testimoni ancora ignari dell’Errore che tuttavia è loro di diritto. Nel diritto alla successione – avanti i prossimi! Nella legislazione del numero che è stato intanto fatto rientrare (i due erano quattro e Gracchi al quadrato in Fulmine, con superfluità però a perdere già in Fulmine 3, nell’utilizzo dei soli figli minori per ridondanza dei maggiori, ossia con Raddoppio degli Estratti recuperato in Sdoppiamento Semplice).

Bruno si lascia puntare, pur puntando: sguardo che rapisce lo sguardo, per le prestazioni di Rito. Punta il Rivale, punta la prima stella al di là d’ogni fronda. Giravolta e ripassa sulla bicicletta, volgendo il volto – offrendosi, da volto, per il ritratto del Sorriso nel Volto. Sparisce dove spariscono tutti i ciclisti, che è in fondo allo scuro inghiottitoio del viale interno (su quello esterno continua a giostrare, da perfetto idiota che è, il Cosmo-Città). Ripassa, sparisce, ripassa-risorge in un ultimo sotto-ritorno, o sotto-paragrafo del maggiore Ritorno. Il Desiderio lo insegue per una (mai ultima) ultima volta. La Pungolatrice in caccia d’indizi non molla d’inquisirlo, per quel tramite. L’Astio del Rivale, la sua ben nota invidia dei ricchi (dei ricchi di Vita: la ricca vita delle Ombre che tornano, o sembra tornino, per troppo amore dei vivi) cede, esce di scena. Ne escono praticamente pure i due Ragazzi che contavano (dai getti di Fulmine sono stati, difatti, più precisamente contati); per quanto il Rito anche ne richieda l’atto di presenza, due volte, per marcare, due volte, il ripassare di Bruno (il Desiderio, non a caso, esattamente in quel punto si segnala: abbassa due volte il capo sul piccolo, sul più piccolo).

Adalgisa, in tutto questo Andirivieni di povere o ignare o allucinate o fulgide Ombre riconvenute dove le Linee del Tempo e delle Età si ri-aggruppano per convenienza d’Errore in significative Paia (Donne, Ragazzi, Rivali), prende a dare il suo intestardito , , . Clausola ritmica non tanto operatica (come dire evolutasi da semi-professionisti mimì giovanili) quanto egotica, per urto profondo e primario subito dalla biologia: che reagisce appunto primariamente, distogliendo (volgendo altrove, e dunque su di sé) l’attenzione. Non è facile gioco il suo, non inizialmente, benché la sua parte abbia particolari garanzie di successo (già le era quasi riuscito di distrarre dalla Coppia, in Fulmine, guadagnandone ora un Ritorno messo ufficialmente a suo nome: nome che va infine attivato e speso in una più esatta funzione Adalgisa approfittando delle assegnazioni di posto, di ultimo posto, perché per gli ultimi posti si passa, per accedere al Finis):

Di tutto si trionfa, quando si ha un carattere: nonché d’una povera sonnambula, che si affida ai vertiginosi cammini della notte: dove il cieco consequenziare della categoria di causa vale ed agisce, però al di fuori del suo sogno. Gli occhi della sonnambula parevano inseguire in idea in un remoto spazio un fuggente: forse uno che ripasserà, sulla sua bicicletta: che rivivrà nella immagine: una seconda, una terza, una ventesima, una cinquantesima volta.

Come già Gonzalo, e non come Ines, Adalgisa dà cioè il suo verso, sul verso dell’Icona (la Ines del Pasticciaccio, cui in genere la si richiama, non dà versi, mero corporeo piazzato sul verso di recto diabolico). Parola-verso, rumore-ritmo che gragnuolerà-trionferà sul recto iconico (recto di poco suono e molto Sguardo) della Visione rilasciata, accampata ed emanata quale Esito dal Clamore della Città in attesa di Rivelazioni del Centro e dal Centro. Viva fonazione (certo che Adalgisa è viva: l’ha urtata la viva esclusività dei puntamenti del Desiderio). Reattivo rumoreggiare e dare la morte al Sonnambulismo, alla verde carne del Sogno altrui; lunga, lunghissima fonazione in , così da imporre lungo, lunghissimo ascolto in (al Sogno impone il non traghettamento, o traghettamento non preferenziale: impone di vanire nell’Adalgisa, in pieno e introitante romanzo della Cognata e Partecipata, anziché passata l’Adalgisa, il piano di Fulmine, dove l’attesa di Retribuzione per Infrazione della Legge non avrebbe impedito il superiore lontanamento della Coppia lungo allineate di Pioppi negli incendi della Sera) – in quanto fonazione e funzione del soggetto è stata, del resto, a sua volta assoggettata a infinità d’ascolto, ad assordamento da Visione, ed ora è il suo turno, il turno di imporsi e di durare.

Nel suo romanzo (racconto stagionale di Materia che matura per i funebri raccolti del Monumentale) ha avuto, la si ascolti bene, il Carlo Biandronni. Pure lui vivo, e forse pure lui urtato. Urtato in specializzazione nevrotica (per infinità della natura), e conseguente (consequenziante) collezionismo d’infinite corazze (tutte trafitte, tutte collezionisticamente trapassate dalla spada lillipuziana dell’amore per ciò che è troppo vivo, previa applicazione di veleno, però, per dare la morte pulita, anticipo sulle nettezze dell’eternità). E già che ci siamo s’ascoltino, di questo Lutto in Furori che si guarda bene (s’ascolti bene) dall’incitare alla trasgressività sessuale (incita semmai alla fedeltà all’Unico, al Carlo, e relativo corollario, la fedeltà alla Sostanza Milanese), le grandi distensioni metriche, il grande rallentando di racconto tutto svolto nella morente risacca del Ritmo, nella Città giunta alla Sosta terminale. Perché pure Carlo non ritorna, e Adalgisa nell’imporsi mortalmente ad Elsa come parabola, come exemplum di Lutto per trionfo causale della Morte sulle Scelte del Sogno, oppone carica narcissica a carica narcissica, Vedovanza Incommutabile (per il Carlo) a Risorgente Speranza di Resurrezione (per il Ciclista Tutto Volto).

Ma più ancora s’ascolti il Narratore e Scrivente, dal momento che più ancora oppone – figura diegetica di Spaiato appaiabile (al Losco Rivale, al Ragazzo Maggiore, al Fermamente Deceduto, alla Vedova Fedele, per congruità psichica con ciascuno di questi). Certificata ombra di Informato, di Escluso, di Inesistito, di Innocente (non regge difatti alla propria innocenza onirica, tanto da cederla ad altri, per essere meglio sicuri, con la reinvenzione di Fulmine). Invadente, interferente Ombra tutto fare o quasi (il Fare della Coppia gli rimane precluso, ma questo anche lo sa, e ormai sa opporvi vari drastici rimedi). Ombra della Buona Utilità che doveva essere del Soggetto: su cui peraltro e a dispetto della Riuscita Inutilità continua ad agire la committenza categorica dello Schema ed Errore ed Artista Supremo (il quale davvero vuole il suo Quadro Legatore, vuole coscienza legata al Mondo). E difatti, l’Interferente in crisi acuta di Desiderio è talmente ben legato da averci perso Tutto e Tutte – ossia tutte e due le Donne che non lo hanno guardato e riconosciuto (lui però in scena s’era pur ben messo). Ma una gli si abbassava sul più piccolo senza nemmeno degnarlo d’esistenza, e anche così chiedeva Passaggio, chiedeva il Ritorno promesso atteggiandosi lei a cristo, per disperante attesa d’altro, dell’altro: «ancora per un poco, oggi, sono con voi!». E l’altra, altra Età della stessa Donna amata come volontà e bisogno («La mia volontà e il mio bisogno è di amare, perché solo un grande affetto può farmi sereno nel dolore. Il mio affetto sei tu») – beh, nemmeno lei gli si è data, sebbene a suo modo prestandosi per la trasposizione del Sé Urtato (ma questo solo alla resa dei conti figurali della creatività). Corrispondenza d’amorosi sensi dunque meramente proiettiva: a direzione unica. E che avendo troppo a lungo obbligato ancora obbliga a dichiararsi urtato a volto scoperto, a celata distolta – tanto il volto è pure quella scura cosa tutta rivoltata che non si mostra mai interamente. Il sopravanzo di rabbia, carica narcissica, urto biologico è tale, anzi, da indurre a voler far piazza pulita persino delle ombre, via di qua! («ch’io mi ci mett’io a vivere e ad esibirmi»). Da far, sì, sperare di riuscire a meglio fugarle incanalandole per di qua: per questa morte, per questa trappola. Per questo fondo sterile di Budello che esige, che implora dal Tempo i suoi veti, tentandone la mimica.

In un Libro che tra ultimi soprassalti (sono invero i soprassalti degli ultimi) anche si distende (pure Gadda s’acquieta, come Adalgisa, come Crono quando è l’ora di certi trapassi spaziali: così salvandosi per le dannazioni della primavera ventura) si perviene alle distensioni del vanire, ad uno ad uno. Prima Bruno, poi Elsa, poi Adalgisa – poi il diavolo. Avendo dimostrato, da diavolo ben speso, di saper fare tutto quello che lo perderà, che non gli darà l’amore (e pensare che invece dovrebbe dargli e le Donne e la Città). Del resto a Bruxelles, nel cuore di Bruxelles (cuore e forma di cuore che, hélas, non cambia, né dispare), è da sempre insediata l’altra carne dell’altro cristo. L’Optimum e il Minimum. Il miglior Volto dalla Generale Torpidità – troppo facile immagine di Euresi che decide le sorti del Mondo (poi però solo il diavolo sa metterlo in non banale figura). Di fronte al Segno saturo del Valore che non si è stati, valga, è valso cioè il Valore Opposto: l’aver toccato magnificamente il fondo del Comando ricevuto per cosmica fesseria del Genio della Costruzione. Dopo tutto (ma questo è un nesso tra il temporale e il causale che per Gadda agisce, deve agire prima di bruni alberi, se no davvero è perduto), Quello ai suoi più legati esecutori rilascia, al meglio, ad esser quelli capaci del meglio, superlative dimidiate Infimità, vertigini di carceri d’invenzione: le chiare, le scure.

University of Edinburgh

Nota in 14 punti
per uno o più sabati al Filologico

Fistola. Canna, canale, tubo. Canna (anticamente) di strumento musicale a fiato. Canale (med.) di natura patologica, congenito o acquisito (mette in comunicazione viscere cavo con viscere cavo o con cavità anch’essa patologica, o con l’esterno). Tubo (di nuovo anticamente) per la conduttura delle acque. Sensi tutti gaddianamente accoglibili, qui prontamente accolti, e soprattutto supplementabili con usi e abusi d’autore: canna-gola (già Pedriali 2006: 67, ora Pedriali 2007a: 94), cavabile cavità (Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 172), succhiante (ri-succhiante) conduzione d’acque (questo studio). Per il terzo svincolo autorizza il prelievo neutro Adalgisa, RR I 453 («Via del Conservatorio diventò una fìstola in succhio. Come acqua precipite in una gora […]»). Autorizza invece il nesso azzardato o figura di -fistola (succhia e risucchia a sé) Adalgisa, RR I 318 («Mi dispiace proprio, ma è una storia che bisogna risucchiarla fin dal principio») – manierismo narratoriale ritornante seppure variato (cfr. Madonna dei Filosofi, RR I 71; Cognizione, RR I 580). Il manierismo vero è però quello cognitivo, la legge della «chiamata imperiosa dell’io categorizzante» (Meditazione, SVP 779). Che Gadda ammette (nello stesso luogo, ma non è l’unico: «Ammettiamo che l’io sia un pauroso gorgo ove un fiume converge precipitando in cascata»), sigillandola nell’evidenza del disegno: lo schizzo della chiamata idraulica (o chiamata della cateratta, o abisso-io, ma in glossa esclusivamente tecnica v. Adalgisa, RR I 474, o Mercato di frutta e verdura, SGF I 39). Da cui il ns sottotitolo, anche per preparare la chiamata dell’Adalgisa, terzo maggiore risucchio narrativo in repertorio (che al repertorio critico manchi, ancora e del tutto, una lettura continuata di questa imperativa struttura, non sorprende, e serve anzi da stimolo).

Ma per piani aridi e illuni. Meccanica, RR II 469, secondo proemio e incipit del primo capitolo. Attaccante attacco avversativo, assomma tre avversativi in un’unica avversione (al cui riguardo v. Pedriali 2007a: 102, tra riserve per la genericità della dialettica vita-morte di Benedetti 1995, Di Meo 1995, Savettieri 2001, Donnarumma 2006: 54; tanto insorgere, tanto rivoltarsi del testo e soggetto, tanta segreta secrezione per arrivare all’anodino debemus omnes mori? la democrazia della morte non è il problema – if only it were). Attacco-incipit che cioè riprende la modalità avversativa del primo proemio (la cesura di Meccanica, RR II 467), e che porta a quattro il totale avversativi delle battute incipitali (ancora però fanno un’unica avversione). Ma 1 proemio 1: tutto scorre ma. Ossia scorre la realtà meccanica ma non scorrono i sortilegi, impossibile la divinazione delle anime. Ma 2 proemio 2: non scorrono i sortilegi ma. Taluno (indefinito individuante) udrà infatti di là da ogni voce dei viventi. Come dire: udrà con superiore udito nell’aldilà della morte che si devolve, e l’udire produrrà un pensare – udrà e penserà, con pensiero-ascolto risultante in una visionarietà che subito enumera e giudica (giudica il primo degli incredibili approdi; per il sintagma, cfr. di nuovo Cognizione, RR I 604). Ma 3, sempre secondo proemio: la dissoluzione dissolve una Materia dissoluta ma. Dalla sua stazione pseudo-divina taluno giunge cioè a percepire-pensare un ulteriore approdo per la trapassante corrente: tornata sacra, tornata segno o corpo di luce che fu fulgore di giovinezza ed ora è viso rivolto verso un altrove gelido, ultima composta dignità di parvenza estrema (così composto nella sua morte). Ma 4, intermettendo per la seconda volta le procedure proemiali: il testo si devolve nella figurazione del Rivolto ma. Ovvero il testo non regge, non supporta-sopporta oltre i propri traguardi – ma è meglio cambiare discorso (senza passare per questo testo, accosta e rende contigue una morte, quella del fratello, e una prefigurazione di morte, la propria, di segno ugualmente opposto, Manzotti 1996: 272, con richiamo a Gadda 1987a: 414-15 e 528-29: «si lasciava galleggiare come un turacciolo […] fino a che, inane e fetido, […] monatti merdosi lo avrebbero strascicato, alla Recoleta, […] pallone-ventre paonazzo»). Doppia procedura avversante (doppia ma cumulativa) – da ad-vertere, volgere verso e dunque contro (cfr. Psicanalisi e letteratura, SGF I 463: «non vedrei altro correttivo se non quello del rivolgere contro»). È un’area semantica, quella del volgere e del voltare e (com)possibili derivati, che è venuta montando (si va dal voltare semplice al rivoltarsi composto: dall’universo volto e rivoltato al viso e volto rivolto: dal cielo scritto e capovolto al soggetto devolto ma incoinvolto); nella Meccanica, l’avversativa successiva, la quinta, «ma lì non c’era nessuno», RR II 469, è discorso e metadiscorso invece ben rientrato, già ritraguardato sulla reazione-avversione al particolare regime vita-morte (ingiusta vittoria della vita, intollerabile sconfitta della morte) pattuito dalle prosaiche verità che il romanzo oppone ai suoi proemi. In corpo al ns testo convergono molto selettivamente sul passo, preparandone tanto la citazione a centro pagina che questa lettura in margine, echi e spunti da: Giornale, SGF II 729 (schizzo dell’Isonzo); Caratteristiche del problema idroelettrico, SVP 17 (defluenze imbrifere); Racconto, SVP 535-42 (fiume che parla, ovvero episodio del Devero); Gadda 1984a: 74 (lettera a Ugo Betti, 26 ottobre 1922, con disegno); Cognizione, RR I 693 (turpe risacca); Meraviglie, SGF I 109 (broda biblica); I viaggi, la morte, SGF I in particolare 571 sgg. (battello ebbro e alla deriva tra le parvenze; cfr. Bonifacino 2002b e 2004a). Vari e consistenti preannunci di fluvialità esistenziale comunque sin dalle poesie – qui si riporta addizionalmente il più notevole, da O mio buon genio (del ’15 e già avversante quella lezione di metafisica che non produce «nozione compiuta dei bisogni del mio spirito»): «Non metto in dubbio Platone, né Socrate, né Cristo, né il trinomio dei vecchi democratici, | Ma non voglio neppure che il fiume rabbiosamente mi sommerga e mi circonfonda delle sue prede, | Epperò nuoto e ti chiedo che il mio cuore sia franco, | Che sia duro il polso e il bicipite, e guizzante la mano» (Gadda 1993a: 6, vv. 4, 6-9).

Qui è il groppo, il nodo. Cit. a centro testo, senza soluzione di continuità, da Cognizione, RR I 604 (Oh!, lungo il cammino; v. RR I 713 per la meccanica latrice di prosciutti che dà titolo al paragrafo) e Adalgisa, RR I 306-07 (Oh confortevole aura). Groppo continuo, di testo e centro testo, che in quest’ora spesa a cedere alle tentazioni della glossa, in omaggio alle glosse di Gadda (sul soccorso venutogli dai margini, nell’impossibilità di distrarsi da sé e dalla scissione di sé, v. Bertone 1993: 125-43; sulle distrazioni pseudotecniche, nei margini cosiddetti tecnici, v. Zublena 2002a: 46-50), si lascia svolgere nella seguente allineata di nessi. La luce recede, ma recedendo chiama avanti (i chiamati avanzando recedono dalla vita). A non essere stati chiamati per primi tanto vale venir chiamati per ultimi, perché finché c’è discorso c’è giudizio, storia, rivalsa. E allora vada la nera Olona, vada il Seveso – a intrefolarsi, a scolarsi col plasma germinativo nel Redefossus: nel ri-scavato che vuole ed ottiene l’optimum natante, il minimo di resistenza: che impone l’unto, la fraternità, il limite, l’accettante strutturazione. Vadano, vadano pure. Tanto l’ultimo dei soggetti anche si conserva, per urto biologico primario, per una sua «carica narcissica, resistente e propia» – il corroborante, straordinario finale di Eros, SGF II 374 (non se n’è servito Natoli 2007; qui, invece, nel servirci di Eros, ci serviamo pure di lui). Ma meglio ancora: che nel discorrere, che nel tenersi cioè stretta la non-vita si dimostri all’avara meretrice tutto il (suo) meretricio (Je meurs de seuf au près de la fontaine, SGF I 522) e tutto il (nostro) sopravvivente amore. Lo si dimostri con quel naso a tagliamare che ci si ritrova (stesso luogo: SGF I 525) – e con cui si taglia nell’eccezionalità della propria prosa, non essendo riusciti a tagliare nella mediocrità della propria poesia. Un tagliare che è stato un discernere, il discernere che sembrava impossibile: l’impossibile discernere nelle «infinite dissenterie» che il fenomenico obbliga a mettere agli atti (Cognizione, RR I 665). E dunque (avendo cristato e tagliato: tagliato e sghignazzato) veder germinare l’invenzione: il mondo inventato e tagliato, a misura di mondo, e di ultimo soggetto. Una gestione personalizzata dei segni (di nuovo, Je meurs de seuf, SGF I 529): nel rampollare a grappoli dei doppi sensi (SGF I 530). Ma anche e soprattutto l’intimo dissidio del poeta-narratore: la «martellante ricaduta del pensiero sulla clausola tematica» (SGF I 527). A cadere questa volta è anzi l’avversativo, i doppi sensi cioè rampollano nel ricadere del pensiero su se stesso – qui ricadere sul ciclo manifesto del corpo (nella metà dell’anno in cui i viventi sono osservabili): sulla propria spaccatura in due: su un’appropriata scissione dell’anno (esempio, questo, perfetto di dissidio e subito occasione di ulteriore dissidio, già difatti ne rampollano doppi sensi parimenti scissi / parimenti sensati – i.e., appropriato come in adatto, conveniente, calzante: come in appropriato, p. pass. di appropriare). Un’osservazione del mezzo anno gaddiano (un dissidio in due semestri?) e delle sue tre stagioni (dalle germinazioni del febbraio al trapasso in autunno: ma v. anche l’attacco di Cui non risere parentes, Gadda 1987a: 527: «La sua vita non aveva conosciuto stagione») ancora certo mancava in gaddistica (eppure tra Gorni 1973 e Fagioli 2002a si è spesso commentato l’esito autunnale della Cognizione, o anche il mythos dell’autunno, facendolo rientrare nella categoria tragica di Frye – «caduta da uno stato di libertà alla necessità del movimento del tempo», De Matteis 1985: 33 –, mentre al nesso tra carnevale e febbraio accennava Lorenzini 2002 e 2004; ma meglio ancora accenna Racconto, SVP 415, che stabilisce di voler attivamente coniugare una vera ovvietà: germinazione e primavera). Di frammentazione cosale e recupero formulare a proposito di corpi parla Stracuzzi 2002, e il commento qui ha fatto un po’ da spunto insieme all’ottimo Luzzatto 1998: 120-58, tra spunti direttamente gaddiani da: Madonna, RR I 78, 79 (vivo e guizzante: come già la mano dei versi di O mio buon genio, tale è l’Emilio prima di rendersi disperso per l’eternità); Adalgisa, RR I 325 (aequo pede, con cassatura della nota di Gadda 2000b: 72: «finissima burla Gaddiana. | la morte, secondo Orazio, pulsat aequo pede»), 504 (la lancia del San Giorgio di Cosmè Tura), 499 (maturazione della passione col maggio: motivo che struttura Adalgisa a partire dall’avantesto e relativo refrain, «la sera più bella!», Gadda 2000b: 191, con brano poi passato autonomamente come Ronda al Castello, in SGF I 98); Cognizione, RR I 629, 674-677, 575, 740 (rispettivamente: terra vestita d’agosto, uragani punitivi, Addolorata); Passeggiata autunnale, RR II 940 («diavolìo di quella tempesta autunnale», su cui v. Pedriali 2002c, ora Pedriali 2007a: 213-26).

Destrogiri, sinistrogiri. Termini, ossia confini, limiti, mete. Come dire: destinazioni destinate, non rimovibili (per quanto il soggetto anche teorizzi la removibilità dei limiti periferici della conoscenza, Meditazione, SVP 698-711, ma evidentemente i limiti in questione non sono periferici). «Destrogiri, sinistrogiri: termini della chimica strutturale, della geometria e della cristallografia: e diconsi, in genere, di due strutture molecolari simmetriche, cioè metricamente eguali ma non sovrapponibili. (Vite destra e vite sinistra)». Termini qui cioè ripresi e dislocati, da una nota di Adalgisa, RR I 439, o meglio, e visti i movimenti trasversali dei testi, da una nota di Cognizione, RR I 699. Sul termine costituito da Meccanica, RR II 491-92 (Appariva allora la Purissima) merita fare addizionale groppo-grappolo, rendendo ulteriormente topica la lettera della metafora girare e derivati e derivati attanti (incluso il lavoro critico, coi suoi giri di vite: già metafora di Pedriali 2007a: 100). Anche perché, ad aver presente il girare a vuoto a-funzionale che Mengaldo 1994: 154 riserva per un suo giudizio su Gadda, le riserve per quel Mengaldo possono organizzarsi nel seguente giro di considerazioni, girovago ma funzionale esempio di controtesi, sul modello dei «giri topografici del veloce ingegnere» (Madonna, RR I 84). Gira attorno a San Giorgio Calvino (Calvino è sempre un buon punto di partenza) – non ha problemi di calendario, non ha cioè un San Giorgio nel calendario. Ma lo intriga una polarità: San Girolamo vs San Giorgio: introspezione vs azione: pensiero ispezionabile vs mistero dell’azione chiusa in un’armatura. Da cui a suo dire la felicità del pittore, qualunque pittore, nel trovarsi a dover dipingere un San Giorgio; anche se, ad essere un Calvino, pure San Giorgio si rovescia in Gerolamo – cfr. I. Calvino, Romanzi e racconti, vol. II, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto (Milano: Mondadori, 1992), 599 sgg. In gaddistica hanno San Giorgio nel calendario per ragioni molto più stringenti (e difatti gli girano attorno da tempo dandogli il primo giro di vite): Vela (Gadda 1990a: 194-95), Kleinhans 1995, Pedriali 1997, Pinotti 2004b. Con vario metodo hanno cioè da riportare una particolare gestione gaddiana del simbolo / un particolare calendario gaddiano del lutto (sul lutto gaddiano in genere, senza questioni di calendario, v. molto utilmente Zublena 2002b): stesso Giorgione in due sedi (Meccanica, RR II 491-92 e Primo libro delle Favole, SGF II 60-61, la più nuova Madonna di Castelfranco); il lapsus calami / lapsus animae sul nome d’arte di uno dei rappresentati, alla prima battuta, nella Meccanica; la restaurazione nominativa, tra licenze figurative, alla seconda, nell’explicit del Primo libro; la lotta polarizzata tra due santi (Gadda 1984b: 92), quali che siano i santi, ma preferibilmente con San Giorgio di mezzo (di mezzo e sicuramente a lato della Vergine), a partire dalla sostituzione del dedicatario di una tovaglia d’altare, che in quanto favolosa qui richiama la stoffa e mensa discorsiva di Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 165-209, nel rimando alle dissoluzioni gastriche da sostituzione di Pedriali 2006, ora Pedriali 2007a: 85-103 (ma prima di passare o di ripassare per quegli esiti si registrino e i luoghi della fedifraga tovaglia, Racconto, SVP 431, poi San Giorgio in casa Brocchi, RR II 654, e le risultanze di Pinotti, all’esame degli avantesti del racconto del ’31; Gadda cioè si dà subito il santo ascetico, Luigi o Francesco, mentre il santo che lo costringe al tema dei temi, una tovaglia due santi, un bene due contendenti, è figurazione seconda, subentrante sostitutivamente anche nei tempi del concepimento creativo – osservazione che da fuori figura corrobora, pure con la cronologia, quell’icona di Santissimi, Pietro e Paolo, che lega l’intero Pedriali 2007a, dalla prima Applicazione alla settima). Termine, simbolo, calendario – dato e data di una vita, di due vite. Azione chiusa che ferisce vs ferito chiuso che inutilmente introita. Il San Giorgio che fa felici più generici pittori e che dà o darebbe pace alla committenza parentale (e il padre, un nobile, non s’era dato più pace; finché il Giorgione glie lo dipinse per i secoli) a Gadda non rende proprio universalizzante servizio. Viva ombra dipinta (era un ragazzo dei tempi di allora, morto in una guerra di allora), gli inchiavarda anzi, avversativamente, la sua sacra conversazione (ma a sinistra San Giorgio, un giovanetto biondo chiuso). Con giro di chiavarda che col tempo gli àncora festone e non festa (per quanto lui anche dica di feste che si gabberebbero i santi). Teoria-festone di sin troppo funzionali strutture narrative, da Meccanica a Primo libro, da Meccanica a Pasticciaccio, da Meditazione a Pasticciaccio. Funzionali cioè a quella requisitoria sullo stato e sulle operazioni della Materia che essendo passata per le disgiunzioni dell’esperienza (Il faut d’abord être coupable, SGF I 613: «[…] le disgiunzioni operate ed espresse da una storia, vale a dire da un’esperienza […]», più estesamente cit. in Pedriali 2002b, ora Pedriali 2007a: 58) passa pure per gli insospettati avvitamenti dell’Adalgisa (tra Seroni 1973: 52 e Mileschi 2007a: 282-88, la gaddistica perlomeno non fa mostra di sospettare). Grandi narrative, su grandi schemi narrativi (vecchiotti, certo, gli uni e le altre: ma non ci si aspetti che Gadda riformi la pochezza dell’universo), anche perché rifunzionalizzate (reinventate e ricollocate: è la classicità di funzione ottenuta, per dire, da un Carlo Scarpa, a Castelvecchio, col vecchio Cangrande carrucolato in nuova finestra). Qui, in corpo al testo cosiddetto principale, dunque vecchie (grandi) narrative, e vecchi (grandi) schemi, nel lavoro come sempre molto stretto sul differenziale semantico gaddiano (Come lavoro, SGF I 437), tra spunti dai due disegni conclusivi dell’Adalgisa e dall’avantesto: RR I 496 (giravoltare e ripassare di lui; suoi capelli a vampata; suo rivolgersi col sorriso nel volto), 513, 519-20 (suo ripassare lento e preciso, come pensiero inesorabile e fulgido), 489, 493, 496, 499, 500 (occhio allucinato, dilatato, sognante, inseguente di lei; capelli sognanti sottoposti alla legge del pettine; viva proposizione femminile e immagine musiva; viva sonnambula sul cui sogno serale prevarranno tanto la cognata che la categoria di causa – divagare, tentando un tempo-spazio «da lei sola presagiti», al trascolorare del giorno nella sera, che sarà anche di Liliana, Pasticciaccio, RR II 21, 26; sull’imbrunire del mondo v. Pedriali 2004e, ora Pedriali 2007a: 72, 79-80); Gadda 2000b: 31, 83, 85 (fiammata, vampa di capelli), 91 («la mia fiamma»); Ronda al Castello, SGF I 101 (aria a guisa di fiamma). Cit. a centro testo da Adalgisa, RR I 499 (Il risultato complessivo; cfr. Gadda 2000b: 135); per lo spunto Ford, Meditazione, SVP 655-56, 887-88. Sul progresso del racconto del garzone del macellaio, v. Gadda 1974c: 39; per un primo annuncio del Bruno, sempre il ciclista dell’Adalgisa, mai il più famoso Giordano, v. Pedriali 2002d. E chiudendo il giro (questo giro). Come già per la funzione Ines (Pedriali 2004c, ora Pedriali 2007a: 46-47), pure per Adalgisa merita parlare di verso vivo di recto diabolico (l’orientamento è diverso, prima Adalgisa poi Ines, anche per ragioni di cronologia, in Pinotti 2003b: 361-63; questo per dire che l’accoppiata è un dato tentato ed acquisito). Attenzione però. Il romanzo-nel-romanzo, il racconto-gragnuola inarrestabile prodotto da personaggio e narratore in combutta arresta, difatti, letteralmente, i quasi amanti (da sempre i quasi amanti), ma non per salvarli. Adalgisa, personaggio e funzione, salva cioè il testo (dinamitandolo: il commento di Isella, nel suo apparato di commento, Gadda 2000b: 292, e successivi commentatori), non portandolo però altrove. La morte (e con lei il diavolo, anche per mera nominazione, come da parola-explicit, Adalgisa, RR I 552: «Ma è quasi certo che la mandarono al diavolo») ha davvero l’ultima avversativa su entrambi i versi. Solo che un po’ come Ines Adalgisa fa da tramite e schermo, illusionisticamente, strategicamente. A voler per forza capitoli vivi, sì, altro capitolo tra i più vivi. Ma nel senso tutto inchiavardante di Pedriali 2007a, Applicazione 2 e sgg. (sgg. che ha il suo principale esito nel finale di questo studio).

Col fare insonnolito dell’oracolo. Gadda scrittore ha talmente poco sonno da potersi permettere tanto il sonno divinante (non divina gran che, ma a qualcosa accede; è il sonno analogico di Ingravallo a partire da una sua certa qual sonnolenza d’aspetto, Pasticciaccio, RR II 15) che quello ambulante (il sonnambulismo dei suoi sonnambuli, quasi automatismo motivico, cfr. Castello RR I 151, Meccanica RR II 585, Cognizione RR I 587, 687, Pasticciaccio RR II 252, 259, ma con origine più traumatica che automatica, per cui v. Pedriali 2006, ora Pedriali 2007a: 102, anche perché lì nel connettere sonnambulismo e allucinazione si distingueva tra sonnambula e sonnambulo, due dramatis personae in più modi contigue e tuttavia ben distinte, con distinzione pronta a tornare in circolo in questo contesto; già s’è detto della viva sonnambula sul cui sogno prevarranno retributivamente tanto la cognata che la categoria di causa). Gadda concede cioè così poco sonno («continua tensione che non conosce mai distensione», altra riserva di Mengaldo 1994: 154) da dover noi trovar modo di rimanere svegli, a dispetto della stanchezza, nelle sue iperattive soste e stazioni di sosta, quel degenere regime in p, pavone-pirla-palo-Pargolo-Pietro (Pedriali 2004e, 2006, 2001b, ora Pedriali 2007a: 74, 87-90, 180 sgg.) con cui variamente congratula l’io piazzandoglisi davanti a leggerlo, a riflettersi, e cui qui s’aggiunge ufficialmente la p di pala (ma su questa p è da Pedriali 1999a che siamo all’erta, coi Santissimi), anche in omaggio allo stato di ebbrezza (gaddiana ebbrezza di gratitudine: per un’immaginazione fiorita entro precisi confini materiali, oltre che sul metodo, cfr. Adalgisa, RR I 504) in cui lo mette in particolar modo il supporto pittorico. Mima, a ben vegliare, le condizioni del pittorico (supporto e termine verticale) pure la pala testuale del primo proemio di Meccanica, RR II 467 (altra p di soggetto degenere), che qui difatti è stato rispettosamente esibito a centro testo, come già l’altro proemio; mentre il titolo del paragrafo appende e mostra Gadda 2000b: 181 («con un fare insonnolito da oràcolo che sta chiudendo bottega», sintagma caduto col resto dei materiali che avrebbero potuto portare Fulmine ma che certamente non portano Adalgisa a incendiaria soluzione dei problemi di coppia). Dormita della ragione (che intanto è frode) – nella veglia dell’irragione (che intanto ci chiappa solo il soggetto). Pur cioè nella cesura (la cesura del tutto scorre ma, già lo si è visto: scorre la realtà meccanica ma non scorrono i sortilegi-lettura delle anime), tale pala e passo offre invero un’unica declinazione insapienziale: da cosiddetta scienza a cosiddetto gufo. Declinazione effettuata per il tramite di quella conduttura, o condotto, o fistola, che è una sintassi inizialmente a lista (il soggetto-lista di determinazioni: la scienza della realtà e della necessità…). Poi sintassi cadenzata formularmente (la ripresa del che e del tempo verbale, per le letture dal quaderno scientifico della realtà: cadrà il pomo-pietra, springherà il giusto colpo, mangerà chi campato sarà). Poi ribaltata e inclinata in sviluppo avversativo, nell’accentuata pendenza degli elementi (di nuovo in lista, dalla metà non scientifica dell’esistere), e loro attesa di risoluzione (tensione d’attesa, visto quel ma da cui interamente dipendono, pur non trattandosi di ipotassi). Risolve il quadro, in extremis, nel girotondo del gorgo preconclusivo (nel gioco riconoscendotutti quelli che finalmenteconsumata alla faccia…), infine chiudendo il circolo predittivo (interamente coniugato al futuro e rimasto in sospeso dal primo periodo), il verbo dirà – elemento figurativo doppiamente posticipato, e quindi clausola ritmica su cui ricadere (o precipitare: la pala-proemio dopotutto non è che un’applicazione del teorema dell’io cateratta) con pensiero tanto più martellante. Doppiamente cioè posticipato anche per accumulo degli attributi del gufo, verso il cui dire il testo pende a partire dal ma (il getto tensivo ma-dirà, preparato da cadrà-springherà-mangerà che campato sarà). Est quod est – certo. Ma se questo è quanto (è quanto pensa Donnarumma 2006: 53-55, già Donnarumma 2004a, concludendo in un suo troppo risolto precipitato: «L’unica scoperta è ben misera: alla fine, si muore»), beh tanto vale approfittarsene. E agire, o dar vedere di agire sul cosmo, lo scriteriato panta rei: così che passi e trapassi, o sembri far tutto ciò, per quel risucchio e inghiottitoio d’occhi spalancati che lo attende, col suo dire e vedere, in forma e collocazione di gufo (sugli avanzi mortalmente eterni di quest’ultimo, v. Pasticciaccio, RR II 151, non dimenticando, appunto, i vantaggi delle ultime posizioni, vantaggio che è pure dell’Adalgisa; sul noctis monstrum e sul suo malaugurio all’eros, v. Bajoni 1999a: 98-99 e Grossvogel 1980: 142, 144, 148).

I Semplici. O del numero chiuso. Titolo di paragrafo, inclusa la maiuscola, e varie riprese, verbatim o quasi ma tra dislocazioni (come già sopra, nel testo, i limiti di validità e campo di applicabilità del segno, e sotto semplificati dalla storia e dalla condizione umana), da Meditazione breve circa il dire e il fare, SGF I 453. Del passo, all’origine, si osservi la sequenza che segue (anche perché Gadda sarebbe incapace di sequenze: incapacità tale da suggerirci di rimarcarla, provocatoriamente, nei suoi esiti di capacità). La parola è magia, è ossessività. L’autore, posseduto, possiede, imbocca i personaggi, li nutre di parole. Imboccati, insufflati (come dire, insufflati in agenti-piva: dal Piva accorrente ai tre ôr dei ritorni d’aria oltre che di fiamma di Adalgisa, RR I 323, 443, 452, 467, 473), quelli si buttano («si urtano ed errano e peccano e vanno al diavolo») interamente spesi nella precipite diavoleria autoriale (che difatti precipita dalla parola, con cui li muove pre-operativamente, per crearli, alla parola con cui li ha davvero mossi ed eseguiti: «insufflati, da parole demoniache, da dèmoni divenuti parole, dopo che sentimenti o impulsi»). Che a tutto questo nominare il diavolo sia implicita la speranzella divino-demiurgica va da sé e va a corroborare il nesso dio-diavolo, nesso mai disatteso dal pensiero ai suoi varchi (Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 186-87). Meglio allora invece osservare, in seconda, la gaddistica. La cui attenzione per il personaggio (Ingravallo, Liliana, Assunta, Ines, Virginia, o Adalgisa, principalmente, con varia e produttiva attenzione tra Merola 1978 e Pinotti 2003b, o Italia 2004b, o Papponetti 2004, o Donnarumma 2006: 64, 72-74, ma anche già Donnarumma 2001a: 50-51) lascia i gaddisti peraltro esposti all’apprensione. Quasi, sì, che occuparsene in modo troppo narratologico contraddicesse le migliori premesse del gaddismo, filologico e/o di concetto (entrambe le facce della disciplina aborriscono difatti e in egual misura da tale semplicità; aborre per primo del resto pure Gadda, «aborro dal personaggio-simbolo, come aborro dal personaggio-araldo», Un’opinione sul neorealismo, SGF I 629-30, ad essere però davvero sicuri di star aborrendo sulla stessa faccenda). Mancava cioè in gaddistica una concertata teoria di personaggi-funzione (così si è dichiaratamente preso ad intenderli e a chiamarli a partire da Pedriali 1999a e 2004c, ora Pedriali 2007a: 47, e osservando in Pinotti 2003b: 361-63, già richiamato, la tentazione di legare due diversamente perfettive operazioni di riscrittura strutturale, Adalgisa e Pasticciaccio, a specifiche reinvenzioni di personaggi-pernio, così a tutti gli effetti neutralizzando la riserva di Lucchini, alle Note di RR I 842, circa la limitata attanza dei personaggi gaddiani). Ma chiaramente tale teoria ancora manca, o manca l’obiettivo, se il tenore dei commenti rimane: «possiamo sostituire al nome di Assuntina quello di Virginia e tutto torna» (che è poi il tenore dell’astratto permutabilità = personaggi diversi / stessa funzione – Donnarumma 2006: 74). Mai però desistere, specie in vista di un’applicazione dimostrativa sull’Adalgisa: anche a rischio di finire d’insistere, in corpo al testo e in nota. Volendo variare addizionalmente l’insistenza (è l’addizione di teoria, e quasi di teorema, estraibile, ad es., dal Club delle ombre, RR II 843-48, summa minore di motivi maggiori che qui si stilizza ulteriormente, tra corsivi traccianti). Una signorina di storia dell’arte tiene lezione di dolore primaverile: alla classe mostra la vivente prestanza di altri giovani (ha perso il fratello), mentre nel ribollìo vivo degli allievi cerca i redivivi di mantegneschi, di caravaggeschi modelli – il pastorello della giorgionesca Tempesta, il lampeggiante San Giorgio del Carpaccio. Ma una sera d’aprile un trio di studenti la porta al vecchio torracchione, non-luogo sul poggio dei morti (una folgore di guerra vi ha scavato davanti un cratere, cerchio d’orrore traversabile sulla fune-ponte di un diametro di fortuna). Lì l’attende la lezione di cui le fanno matematico omaggio gli alunni. Vi preludono il cerchio in cui il trio la stringe, l’invito al club del tre di cuori fatto da sei occhi irrefrenabili, l’arredamento della torre, tre tavolini affratellati, tre fiori eretti, tre lettucci – poi però le tazze sono quattro, così da poter avere l’ospite, forse il Cristo a parete, o, più probabilmente, il viluppo d’ombre collettivamente vaporanti, dalla torre-carcere, ma di marcatura singolare (sono una luce, un sorriso, dal repertorio dei sintagmi gaddiani davvero fissi per eccesso di referenza: v. ancora e sempre il precedente di tutti i precedenti, la poesia del ’19, Sala di basalte, Gadda 1993a: 23-24, vv. 35-36, e relativo contesto, vv. 31-48, precedente diretto, a quasi trent’anni di distanza, del movimento d’ombre del racconto del ’48, al cui riguardo v. anche Pedriali 2002c, ora Pedriali 2007a: 226). Da tali premesse una semplice ars combinatoria («a due per volta, nelle tre combinazioni matematiche a + b, b + c, c + a») produce tre moraluzze a variante (variano in un unico messaggio): non ci sono redivivi (il messaggio anche e soprattutto dell’Adalgisa, scena al parco, LA 9-10, dai cui avantesti e pretesti scatta la reinvenzione di Fulmine come impossibile Grande Ritorno). Messaggio in congiunzione astronomica con un segno nel cielo – stella o costellazione, chissà. E su cui il chiù dà inoltre voce e dittongo (altra potente unità motivica, già osservata in Pedriali 2002b, ora Pedriali 2007a: 52, 61), con moralona affatto strutturale nella coniugazione di favola e numero (numero e funzione delle dramatis personae). Nemmeno, cioè, di fronte alla pluralità dell’umbratile sono necessari numeri grandi o complessi – la moralona di questo paragrafo (testo e nota). Con spunti ed echi non esclusivamente da: Meditazione, SVP 894 e Pedriali 2004e, ora Pedriali 2007a: 76 (debito d’equità); Viaggiatori meravigliosi, Gadda 1993a: 32-34 (approdi che in Gadda vanno, per gamma, da incredibili-meravigliosi a incredibili-lutulenti); Meccanica, RR II 471 (proposizioni vive, colori dogali, richiamo ai codici: l’ironia alle spese del «dannunziano in ritardo», l’attacco di zolianesimo), 489 (il giardino come sogno popolato di figure: formula già di Racconto, SVP 421, poi passata, tra gli altri, a Adalgisa, RR I 293, essendo già di Viaggiatori meravigliosi, poesia di datazione incerta, ma di sicuro precedente al Cahier, Gadda 1993a: 34, 114-15; Rebaudengo 2002 e 2004), 475 (pensieri vagabondi, in cerca di oggetto, e infine puntati su un mobile Ermete novello), 494 (resurrezione: tema già ambiguo a quest’altezza, l’altezza di Meccanica, per il coimplicarsi di resurrezione della specie – la sua forma o continuità genetica –, e non resurrezione dell’individuo – l’impossibilità del ritorno –, motivo quest’ultimo invero già attivo, senza coimplicazioni d’ordine scientifico, che sono quelle che la gaddistica invece preferisce, nei testi poetici, v. Gli amici taciturni (ovvero «ritorno»), titolo plurale-singolativo, i.e., già stilema motivico, o più ancora Sala di basalte, e cementatosi davvero in roccia dura a una particolare categoria di non ritornati, il minatore di guerra, da memorie ed incubi di guerra, con Notte di luna, RR II 1076-077, cfr. Pedriali 2007a: 199; così coimplicata la resurrezione arriva al Bruno dell’Adalgisa, riemerso vivo nel giorno dalla tomba infernale della miniera, con elezioni evolutive questa volta sì tra il positivistico e il leibniziano; ossia con risultante pensiero di nuovo invero assai strano, o meglio, con nuova tentata infrazione dei veti disumani del tempo, come ancora si dirà tramite sintagma non passato nell’Adalgisa: «E pareva che dovunque, tra labili fiori, insorgessero i veti disumani del tempo», Gaddda 2000b: 138), 488 (fede di Zoraide: «Quel corpo era per qualcuno»), 472 (ruga verticale del rifiuto, della paura, dello sdegno: passerà alla Tina, nel finale del Pasticciaccio, essendo passata, nell’assestamento di valenza, sia per la Marianna di Gadda 2000b: 124, 169, che per l’Adalgisa di Adalgisa, RR I 542), 479 (pustoloso: con spunto dalla lista delle categorie rifiutate da Zoraide), 495 («detto il Luigino gramo»), 480 («come se per economia mangiasse lucertole»), 512 (organizzazione totalitaria), 504 (sorreggere negli anni buoni), 525 («come si bacia un fratello»), 496 (nessun sogno vagabondo: con ovvio contrasto coi vagabondaggi della sognante Zoraide), 513 (Zoraide scopo e premio, ma con dubbio e convocazione idiomatica dell’autore di tutte le storie: dove diavolo l’aveva pescata?), 503, 505 (spazi francescani: la sede dell’Umanitaria), 512 (San Giuseppe), 527 (favola di Crispino e la Comare; da Meditazione breve, SGF I 446, il termine favolone), 528 (bravo Pessina; tutto il mio dovere è invece espressione qui di nuovo accorpata da Giornale, SGF II 547, anche per convenienza di simmetria col successivo), 524 (soffocato da tutto il suo sangue: nel sintagma e nelle pagine sul male dissolvitore immediatamente precedenti, Gadda, autodidatta di suo, riversa il sospetto di malattia in cui, tra le molte morti per tubercolosi, lo tenne, a Celle Lager, di tutti i mesi, proprio l’aprile del ’18, Giornale, SGF II 768-71), 585-86 (metafora del sonnambulo, suo primo innesto narrativo, per arrivare a fare gli occhi del gufo, «maschera livida e desolata dell’inutilità»; s’innesta qui uno stratagemma figurale, il motivo del sonnambulismo vedente; avrà variabili e manierismi, ma nei casi maggiori, maggiore fra tutti Adalgisa, procura la scusa e la metafora per la gestione d’una causalità testuale allargata, analogica, e tuttavia causalmente non esentata – tutto l’opposto di quanto in genere si dice a proposito di cause in gaddistica tra, diciamo, Benedetti 1987: 60 e Donnarumma 2006: 70, già Donnarumma 2004a), 534 (Adamo risorgente, fiammata di capelli, come poi il Bruno, che ritrova forma ed immagine per far prender fiamma, banalmente, all’imbrunire; sulla funzione Ermete, preparata da Applicazioni 1-5, in Pedriali 2007a, v. ancora tutto quello che segue, ovvero il resto di Applicazione 6, e buona parte della 7 – insomma, il più del libro), 583 (corsa pazza e vertiginosa, su mezzo di trasporto franco, da cui certamente anche il non-servo, il non sottoposto a condizione servile Franco Velaschi: Zoraide non ha forse scelto l’ammiratore più rapido? non corre così la ventura delle venture, con rovesciamento davvero perfido del senso originale – il sintagma è lo stesso e ribattuto – degli esiti fissi, che nessuno impedirà, in una corsa trasgressiva, che nessuno impedirà?, cfr. RR II 529, 559, e ovviamente Racconto, SVP 419 / Adalgisa, RR I 291, ossia di nuovo Pedriali 2004c, ora Pedriali 2007a: 37-50), 547 (centro morfologico), 544 (sangue fervido, ricco, da non buttare; nucleato di realtà).

I Semplici bis. O della coppia. Nomina conclusivamente il male, provandolo di fronte alla bianchezza di lei, l’incipit di Racconto: con seguito di conio dispregiativo per lui, il velocipedastro, ed emanazione, dal narratore, di un osservatore secondario ingenuo – ingenuamente dolorante, interno alla scena (il quindicenne bocca semiaperta, SVP 423-24). All’altro capo del passo, l’anticipo e la simmetria – ossia le altre occorrenze del lemma («[…] un turbamento inavvertito che si faceva un male violento e selvaggio: e allora questo male attutiva ogni ricordo e ridecomponeva il preordinato volere», SVP 420). Anche di tali minimi rimandi è fatto il paese di maniera dell’anima: contaminazione, sì, «varesino-brianzuolo-vicentina» (Adalgisa, RR I 297), ma per esibire una tipicità dinamica di configurazione interiore. Sulla coppia come manifestazione dell’idea dal lavoro di cernita, versione serale, questa sera, ogni sera, v. di nuovo Pedriali 2004c, e Pedriali 2002d per l’estraibilità ed autonomia del passo. Dal 26 luglio ’24 Gadda non riprende il brano fino al 6 dicembre («Segue coi due: velocipedastro e ragazza e attacca un fatto “abnorme”. […] Si allontanarono lungo il filare alto dei pioppi», SVP 493). Si tratta, certo, di una declinazione compositiva che riparte (Manzotti 2004b: 173, 177). Ma è anche vero che, con lo stacco, la coppia muta segno. In prima battuta difatti è Forma: il narratore la vede, non riesce a udirla (SVP 423). Con esclusione che attiva la pronominalità dell’inesistenza, perché nessuno deve sentire quella voce. E poi che possono dire i passanti? Niente poiché non odono niente. Forma cioè del desiderio, valore antropologico. Oggetto di sogno e d’invidia da parte dell’Ingenuo: che, parimenti impedito nell’inclusione, sigilla la modesta icona con un risentito orcodio, riprendendo il cammino e lasciando la scena «senza rivolgersi» (poco sospetta, col narratore, e con Gadda, quanto la visione darà ancora da rivoltarsi, letteralmente, o come dire, in vari grappoli di lettere). Forma che si delinea e vanisce: che dovrebbe vanire in direzione dei fuochi occidentali lungo allineate d’alberi (l’esito soprattutto di Ronda al Castello, e dietro analogo processo estrattivo). E che invece trapassa, con la ripresa, in un nuovo e meglio abilitato campo d’osservazione, quasi il raggio di influenza d’un Totem Jettatore, tanto corre la iella, in quel campo, ai danni della coppia, e più ancora, ai danni del racconto. Difficilissimo ricavare alcunché da tale materia, il problema della ripresa; potendo infine accompagnare, ascoltare gli amanti, il racconto infatti devia, scade (diciamo, per semplicità?) nell’appendicistico. Difficoltà con la maniera sentimentale? Solo fino a un certo punto, e come parte d’un problema più ampio di cernita psichica che ritrova ogni volta i suoi esiti: al punto da suggerire, vista l’ineliminabilità degli esiti, e specie a partire dall’eccezione della Meccanica (ma quella, s’è visto, è un’eccezione ad un patto, e in più non libera dalla disdetta), di limitarsi, in questioni di coppia, alla resa iconica, emblematica – i.e., per stilizzazione, e con valenza strutturale.

I Semplici ter. O del rivale. Censurato, privo di oggetto manifesto, pluralizzato per convenienza di sottintesi eppur sempre avversativo («Ma quando il nostro amore ci abbandona […] la mamma che conforto può darci? […] Ella comprende quale è il nostro dolore, ella sa che la separazione infinita è anche la sua, essendo quella dei figli», SVP 401), il pensiero-sguardo di lei, in Racconto, primo studio compositivo, si presta all’equivoco, mette in sospetto. Difatti è ben svelto, quel primo studio, a sottintendere il vendicatore in potenza: si orienterà su uno sguardo non orientato su di lui, e questo basta. Fuori di studio, tuttavia, e non bastando censura o equivoco o mito per rappresentare un po’ compiutamente un’intera società, Gadda progetta intrecci di personaggi, butta giù liste di opposizioni per tipi. Mette in conto, a freddo, di doversi dare l’antagonista. Incappa subito, a caldo, nel velocipedastro – poco più d’una comparsa. Ma la funzione è quella giusta: sottrattore di Madonne, ladro ai Trapassi. Come subito giusti sono i ferri del mestiere: origini e tendenze meccaniche (in cui lavora certo, se con diversa lettera, o meglio con lettera pre-novecentesca, anche la debolezza per un paggio ossia per persona meccanica del Fermo – A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, I, 155), con corollario di mobilità su mezzo meccanico (e conseguente inafferrabilità per superiore velocità). Nulla cioè a che fare con l’antagonista previsto dai calcoli. Un rivale invero non ancora in azione: eppure materiatosi dall’ora topica, e come già risortone: destinato a ripresentarsi. Inutile tentare di disfarsene disperdendolo, moltiplicandone l’aspetto o la storia. Eppure per capire come davvero sono messe le cose bisogna commettere errori. Non altrimenti del resto era incappata Passeggiata – per quanto lì non avessero difettato certezza di agnizione e illusione di vantaggio, grazie anche al numero ridotto dei coinvolti (Pedriali 2002c, ora Pedriali 2007a: 213-26). Da cui qui l’ipotesi del nesso: tra agnizione e dispersione.

I Semplici quater. O della semplicità. Perché a chiamare (chiamare idraulicamente) dal concreto si ottiene, a furia di dai e dai, l’astratto (non troppo diversamente la pensa l’interessato, cfr. Gadda 2000b: 22, 26). Impossibile cioè concludere sui Semplici senza chiamare in causa i Complessi. Analogalmente, del resto, chiamano quelli: «Complessità non va però intesa nel senso corrente di complicazione dei fenomeni che la conoscenza dovrebbe in qualche modo dissipare, fino a rivelare l’ordine semplice a cui obbediscono. Questo è piuttosto il modo di ragionare del pensiero semplice, o semplificante, e che Gadda chiamerebbe astrazione. Complessità va invece intesa come consapevolezza del nostro essere immersi in un sistema di relazioni molto più vasto di quanto la conoscenza sia in grado di cogliere volta per volta» (Benedetti 2004a: 21; altre indirette chiamate in causa Antonello 2005, o Porro 2004a e 2004b). Da caparbio partitante dell’altro partito, ammetto (con ammettere in prima persona: la polarizzazione della gaddistica è occasione qui da non perdere) il fascino di tali proposte di emendazione dell’intelletto (Benedetti 2004a: 21, 30). Ma anche osservo che pure quelle producono pensiero semplice, semplificante, astrazione, mito. Credo inoltre che ciò sia vero innanzitutto per Gadda, con non intero torto della scuola di pensiero complesso che a lui cerca di ispirarsi coerentemente (un po’ di torto l’avverbio conclusivo invero lo comporta, visto anche che la dichiarata inclusività del metodo poi si ferma alla prima differenza in cui s’imbatte, rifiutandola). Credo cioè che in Gadda, e non solo in lui, complessità e totalità siano tra le più compromesse figure del desiderio, in spuria coesistenza con altri miti (primo fra tutti, nel suo caso, il semplificante mito biblico). E credo pure che l’auspicata superordinazione emendativa o complessificazione / ascensione di livello o sistema o caos in genere comporti, debba comportare, nell’emendando, per ossequio alle cosiddette leggi di sistema, la prospettiva non solo teorica di totalitaria riduzione di complessità e differenziazione – ossequio di cui è testimone tanto l’immaginativa fascista del Gadda autarchico che l’immaginativa antifascista di Eros e Priapo (entrambe immaginative invero assai prossime ai miti centrali di Meditazione, argomento, questo, della prossimità di tali estremi già di Pedriali 2004e, ora Pedriali 2007a: 67-84, e a monte Pedriali 2003). Credo inoltre (con accumulo assertivo, ma tant’è: anche i Semplici, come i Complessi, sono obbligati alla semplicità) che il pensiero complesso, che considera errore critico (Benedetti 2004a: 27-30) l’attribuire a Gadda un errore di Gadda, non riesca a dirne in termini non generici (di fatto e di regola estremamente generici: quei descriptor di così buona volontà, a tutto e a tutti adatti per ecumenicità di dizione critica) l’ubi consistam di strutture a personalissima lunga gettata. Credo pertanto, visti anche i regimi discorsivi in circolo attualmente, che nell’ordine della semplicità (le categorizzazioni della specie) ci sia qualcosa di molto meno semplice, perlomeno a livello narratologico, delle soluzioni strutturali della complessità, e che Gadda sfrutti questa imperfezione sistemica a meraviglia. Concordo di certo con Casini nel fare dell’aspirazione al passaggio di grado e di funzionalità in un n + 1 l’istanza principale della Meditazione (Casini 2004b: 36-40), ma credo anche che, in un mito di emendazione mancata – circostanza territoriale oltre che etico-cognitiva (già Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 165-209) –, la fattività elaborante ripieghi fattivamente su un io inevolvibile e difatti (sì, difatti) evolutosi in pauroso gorgo, precipite cascata. Chiudo questo minimo, antinomico credo – degno tenace compare del non credo gonzaliano – dichiarando di non credere che il racconto mitico per cervelli pleistocenici (proprio incluso) da Gadda svolto in più battute e variabili ambisca mai, in alcuna delle sue fasi, a trascendere principi empirici, la tesi proposta ma solo up to a point da Donnarumma 2006: 29-75, già Donnarumma 2004a. Credo agiti, piuttosto, uno spauracchio di pensiero complesso, di storia totalizzante e totalitaria, di desiderio di fuga, di civile speranza, di inconfessabile ma confessata involuzione – a inutile beneficio proprio e di quel coagulo di irragione che ha come risultante, o esito che attende, l’umano e l’umanità. Forse, in questo, il romanzo di Gadda ha davvero a che fare con la filosofia. Ma poi anche la filosofia ha peccati da scontare. Un Gadda prima filosofo che narratore? Non credo. Un romanziere invece ancora tutto da leggere (si pronuncia similmente Lugnani 2004; poi però, avendo invocato lettura di romanzi, produce il classico pezzo di bravura su una serie minima di dettagli testuali). A riprova la sezione conclusiva di qs studio affronta in maniera tenacemente continuata l’Adalgisa, il romanzo gaddiano invero meno letto: «romanzo storico e anche idrologico», come Gadda ebbe a dire del Po gonfio eppure canalizzato e savio di Bacchelli (La grande bonificazione ferrarese, SVP 157). Un Gadda dunque savio, dopo così semplici premesse? Certo, e perché no, pure savio. E con una sua assurda coerenza, o linea – come era ancora possibile dire, senza doversene preoccupare (non se ne preoccupa affatto Pirandello nell’Umorismo), almeno per parte del secolo (e discorso del secolo) non più nostro. Il guaio – che non è guaio – è che «la linea del Gadda, le più volte, s’impenna e diverge dalle linee più accreditate: donde la severa imputazione che gli vien fatta, non aver egli avuto la reverenza debita alle linee degli altri, rette o curve che fossero» (dal risvolto di copertina dell’edizione del ’58 dei Viaggi la morte, ora SGF I 1300). Un romanziere azzardato. E in più (perché il romanzo è solo una manifestazione del sistema Gadda), un ipergravidico tale da osare passare per un centrifugato puro (tanto in qualunque punto lui rimane puro centro). Uno, cioè, che in qualunque modalità azzarda una fenomenale visione d’insieme, facendo lavorare a quel fine anche le sue peggiori cosiddette distrazioni (il suo cosiddetto perdersi, poco a tanto, a seconda della disponibilità e del metodo dell’interprete): anche il suo peggior rumorismo (rumorismo di carcerato e allucinato dalla visionarietà). Qui dunque con rinnovato azzardo di controtesi, e risultante ribaltamento di molta received opinion, a partire dall’accapo: è convinzione critica diffusa. Seconda metà di paragrafo inizialmente peraltro pochissimo vergine, per l’ampio ricorso al repertorio frasale della gaddistica degli ultimi vent’anni, da Guglielmi 1986 a Donnarumma 2006, a cominciare da quel non sa scegliere che è affermazione (o negazione: insomma, sì, affermazione di una negazione) sempre riproponibile e di fatto sempre riproposta, per applicazione diretta, o indiretta, via prassi critica, dell’autocommento: «è questo il mio male. Bisognerà o fondere, (difficilissimo) o eleggere» (Racconto, SVP 396). E poi azzardo corroborato e ricorroborato con prelievi da un repertorio a questa altezza ben sfruttato: Eros, SGF II 272 (inane similitudine); Contini 1989: 42, o Gadda 1988b: 103-04 (lavoro esteticamente, narrativamente sbagliato; penna frenata e distorta – già Pedriali 2004c, ora Pedriali 2007a: 39, e continuando a non farne la «grave e riduttiva dichiarazione sulle ragioni del proprio stile» di Terzoli 2005: 8); Come lavoro, SGF I 427 (non deve esistere); Contini 1988b: 75 (anche se con dizione qui due volte rovesciata rispetto all’originale: «paga la sua riuscita non con la sua illeggibilità, che sarebbe ipotesi risibile, ma con l’illeggibilità della sua continuità», spunto rimesso in circolo da Stracuzzi 2004a; sull’argomento v. anche la felice polarizzazione Rinaldi 2003 / Savettieri 2003); L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, trad. inglese con tedesco a fronte, a cura di G.E.M. Anscombe (Oxford: Blackwell, 1998), 107 (qui reso come ghiaccio di Wittgenstein, ma lo cita per esteso l’epigrafe, in mia traduzione); Come lavoro, SGF I 427 (busto di stucco, bidelli del Walalla), 431-32 (vate, atteggiamento e cipiglio vateschi). Il tutto, anche ironicamente, per arrivare con miglior agio, ma pur sempre inaspettatamente, alla domanda, scomoda (per quanto scomoda qui non fa il gioco dei detrattori): ci include Gadda? Seguono, con rientro dell’ironia, spunti e accorpamenti sparsi da: Meditazione, SVP 876 («la macchina risolve un problema di collegamento logico fra i dati»); Come lavoro, SGF I 427 (problemi d’officina); Il pasticciaccio, SGF I 510 (soprassalti applicativi); Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia, SGF I 1178 («Una storia ci può appassionare e incitare più che un’utopia»). Ritrovano, in chiusura-chiusura, il motivo della declinazione, per inclinazione (di un piano) e scorrimento: Adalgisa, RR I 293 (falda scura e lenta, «lento andare d’un acqua» – già oggetto di poesia nel ’19: «Il tuo filo cerca | Nel piano una via | Verso le lontananze | Del mare. | […] Lo conduce | Il declinare | Del piano, | Non furore, non esperta | Virtù, né il dolce | Silenzio della vendetta», Gadda 1993a: 14, vv. 4-7 e 12-17); La grande bonificazione ferrarese, SVP 163 (il prezioso ingrediente economico del dislivello: idea qui coniugata con la nozione, a sua volta evidentemente economica, di catastrofe in potenza, dal lungo segmento di «Parabola quanto all’economia del racconto» occupato da tale agenzia in uno schizzo del ’34, Gadda 2000b: 321; sullo sfruttamento tecnico del potenziale energetico-catastrofico del dislivello, e pensando tanto alla funzione idrovora di Adalgisa che alle pompe di Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 173, v. di nuovo SVP 163: «Ribollono dentro la bocca vorace delle pompe, che bevono e bevono, e le portano a raggiungere il nuovo specchio, la nuova quota»); Passeggiata autunnale, RR II 944 (ma con variazione rispetto a quella, ovvero rispetto al sintagma, molto pangaddiano, meccanismo segreto della conseguenza, e con ripresa libera del contesto della sua prima occorrenza: «[…] arrivava là proprio, dove quella conclusione pareva aspettare»; per un’ulteriore ripresa v. Pedriali 2002c, ora Pedriali 2007a: 222); Adalgisa, RR I 337-38 (motivo delle acque luride e loro sistemazione-disciplina cittadina).

Ansimo totale (totale calamita). È Gadda ad offrire la clausola ritmica «Anni, figli degli anni!» (Adalgisa, RR I 326, o Dalle specchiere dei laghi, SGF I 298, occorrenza, questa, che torna a centro testo in Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 168). Non declina l’offerta, anzi l’accelera il ns anni fasci d’anni, battuta incipitaria di un esercizio di riscaldamento muscolare in vista dell’agone coi muscoli dell’Adalgisa (fasci di muscoli, aha!, come autorizza pure Meccanica, RR II 533-34, sempre a proposito di disegni su carne, la carne, ahi!, dell’Adamo in eterno risorgente del Rivale, RR II 534, di cui tra l’altro, sempre in quei torni di testo, RR II 530, bicicletta, motocicletta ed auto vengono detti esser stati, in sequenza, «la grammatica, la retorica, e la umanità» di un addestramento alla vita come lotta-arrembaggio; qui, cioè, con addestramento pure ai ritmi feroci dell’ironia, tra fasci anche fascisti di anni-muscoli, su cui del resto già un po’ s’esercitava Pedriali 2004e, ora Pedriali 2007a: 67-84). Cifre che salgono. Innesto esterno, di nuovo preparatorio, sfruttando il sintagma, su tela, di Boccioni (La città che sale). Battuta ed innesto permettono di osservare, sempre propedeuticamente, due dati: ansimo dell’aggruppare (Adalgisa, nelle glosse, aggruppa e riaggruppa il tempo con compulsività, per sentirsene testimone), e ansimo del salire (pur attestandosi su una quindicina d’anni, tra 1920 ca. e 1934, ossia tra pre-giopontiano LA 4 e post-milanesi LA 5 e 7, Adalgisa sale metatestualmente al più che presente per quanto vuoto oggi 1943, RR I 341, 342, 352, 421, 476, 554, 562, così ansimando perlopiù, o con più metodo, tra 1880-1890 e l’uscita a stampa del libro, nell’aggiornamento del termine dichiarato di Gadda 2000b: 64; il tempo, gli anni, i figli e fasci d’anni salgono cioè alle cifre che continuano a riguardare l’autore in quegli anni, sintagma e manierismo temporale, questo, non esclusivo all’Adalgisa, basti ricordare l’attacco di Cognizione, RR I 571, e cui i corsivi qui non fanno giustizia, tant’è vero che bisognerà tornarvi, come già fa, o ha fatto, dipende da come si legge, il testo principale). Contribuisce ad allenare il fiato, sempre fiato di premessa, le seguente attrezzeria minuta: Adalgisa, RR I 483 (il battere stentato dei quattro ferri del rara avis e cavallo araldico di LA 9: «pareva stentasse ogni volta a levarli […], come li succiasse il magnete: forse la totale calamita del sottoterra. In quella mazurka stanca si richiudeva il malinconico giro del dovere»), 301 (debiti giorni), 315, 319 (Carnevalone ambrosiano: il lasco milanese mentre già è quaresima), 476-77 (binomio cimiteriale, stabilito e curato in nota: «Entrambi i campi santi testimoniano della pietas milanese e lombarda: molto ben tenuti sempre, molto ben sistemati (1880-1890)»; a rigori però i cimiteri dell’Adalgisa sono tre, a non escludere la Recoleta di LA 7, RR I 429); Eros, SGF II 220 («La moltitudine anelante al tragitto implora il tragittatore, come rapita al di là d’ogni conforme brama verso la riva: e il poeta ne signifera le voci e i gesti, […] d’ognuno il gesto onde sollecita la sperata preferenza» – non occorre dire tragitto verso quale sponda; si dica invece che questo Eros ci servirà a corroborare il rifiuto di traghettamento preferenziale opposto dall’Adalgisa); Adalgisa, RR I 428-29 o Cognizione, RR I 692-93 (tagliando, con queste cifre o numeri di pp., nel pieno del delirio di Gonzalo: turbe in toboga, mare senza requie, schiuma perenne: anche perché davvero intrigava il titolo di LA 7, così gaddiano per quanto a Manzotti 1996: 225 sia sembrato così poco gaddiano; e poi in quale rebus consisteva mai l’approdo? – insomma, palestra affatto irrinunciabile), 330 (culto religioso dei parquets), 337-38 (l’intricata scolatura cittadina: tra successivi piani di risistemazione comunale, sul poco inclinato piano padano), 479 (desessualizzazione balie), 483, 503 (asfalto arrivato ai viali), 331 (elettricità arrivata in scena), 292, 297 (accese notti di guerra, dell’altra guerra: evitando di dire di questa, in corso, con le sue accese notti milanesi), 357, 375 (il progetto Portaluppi, tra menzioni di altri o dello stesso piano regolatore, RR I 318, 324, 338, con licenza gaddiana non insignificativa rispetto al titolo originale, Milano com’è ora come sarà, ma anche con sua fedeltà all’autoritratto voluto dall’architetto-Barbarossa – Morsink 2002; Selvafolta 2000: 97), 325 («In quegli anni della sua prece postrema il vecchio campaniluzzo de’ pauperi, il protomartire delle persecuzioni edilizie […]»), 355-73 (o messo in cifre temporali, 1920-1928: i.e., l’arco temporale delle migliorie di LA 4 all’apparato riproduttivo del Brügna, RR I 375, e conclusivo battesimo del maggiore neonato, RR I 377), 475 (standard del volere e potere: aggruppati tra due cifre), 557 («A ogni epoca la sua saggezza»: periodo che chiude in brevità la lunghissima nota 8 di LA 10, qui eco attiva già in Pedriali 2004e, ora Pedriali 2007a: 67, 77), 326, 341 («è la Milano che dispare: e quale la lasceremo non era, e qual’era neppur più la ricordo: la forme d’une ville – change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel»: Baudelaire già saggiato in Gadda 2000b: 44, 205, 267), 374, 472, 466, 458 (ovvero un metodo e refrain per numero di pp., come da lista, tra battesimo e resurrezione, quest’ultima al migliore dei motti: «Ego sum resurrectio et vita»), 450 (carnevale dei nasi: con menzione che cade ancora ad aprile e dunque in LA 8, a varia distanza dal carnevale di LA 2), 323, 443, 452, 467, 473 (ossia tornando a dare i numeri del dottor Piva: perché pure qs ns testo trascorre, e pure il suo ricordo dispare), 355, 363 (farinone e farinetta di miglioria, ad libitum: ma con motivo forse anche più deciso, al primissimo getto, in Gadda 2000b: 16-18, tra infarinati figli di Adalgisa e infarinato funzionario inquirente), 455, 458, 469, 474 (concerto novissimo al Verdi-Verdone, prova generale di questo Giudizio: annunciato con organico orchestrale davvero straordinario, sin dal titolo, già di Gadda 2000b, oltre che dagli annunci-ammonimenti murali di LA 8, RR I 443; poi però l’organico effettivo risulta al 50 per cento, RR I 460, lasciando traccia del superiore orchestrone che Gadda 2000b: 195 intendeva mettere insieme oppositivamente da due divise organicità: teatro e parco), 451-61 (accumulo di prelievi dal gorgo-ansimo di LA 8, tra pasqua felice e polarizzato partitare o per l’uno o per l’altro campionissimo del ciclismo italiano dei primi anni ’30).

Lettere che salgono. Non hanno l’evidenza immediata delle cifre (le cifre del tempo di quest’uomo, in questa città: ordini modesti epperò chiari di grandezza numerica). Salgono però pure loro. Sono le lettere della perfettibilità dell’opera, o favola, o favolone (brutto favolone: brutto pasticciaccio), «l’ho riscritte, e così l’ho perfette» (Primo libro, SGF II 73): «intrinseca perfettibilità dell’opera» («silentemente, agiva negli esecutori e nel tempo», Tecnica e poesia, SGF I 249, con verbo che comincia a darsi da fare, pure nel ns testo). Costituzione intrinseca al Libro, al progetto di Libro Perfetto – al progetto d’opera testimonianza di un’anima (cfr. La chirurgia dei quadri all’Istituto Centrale del Restauro, SVP 186-187). Realizzata cifra-lettera su cui attestarsi, oggi-1943, pur potendo benissimo continuare (a perficere), e in effetti anche continuando (a metter mano, o a lasciarla mettere: in un diversamente costitutivo cecidere manus). Perfezione nel tempo che ufficialmente si autoauspica, e contrario, già dal primo libro a stampa (dagli Studi imperfetti di quello). Qui la si è osservata con incanto anche ingenuo (Gadda, del resto, per amore e mito di «tempo teso e limpido sopra il lavoro» non si tira indietro da incanto e ingenuità, «l’opera suol essere motivo di incantagione», «l’opera suol essere cagione d’un incanto»: di nuovo Tecnica e poesia, SGF I 250, 239, 240, ma v. anche Adalgisa, RR I 537, e sebbene gli sia toccata l’altra metà del tempo, «la metà opposta del tempo», Pasticciaccio, RR II 191). Così si è ingenuamente osservato lo specifico della perfezione: il chiarirsi del disegno (cfr. SGF I 1238, cit. in chiusura di Pedriali 2004c, ora Pedriali 2007a: 48), rispetto alle elezioni ancora erronee degli avantesti – essendo Gadda tornato a ri-agirle e ri-agirli. Ad altri commentatori altri ordini di grandezza esegetica: il molto piccolo filologico-linguistico (non scarta nulla, ma nemmeno si tende sul dato, coi dati), il molto grande dei grandi numeri (scarta troppo, si tiene sul vago: non frequenta le determinazioni del particolare). Qui, cioè, e coll’ausilio degli anticipi in particolare di Pedriali 2004c, ora Pedriali 2007a: 37-50, Notte di luna prende a reggersi, si regge sulla sua rinnovata gettata: primo disegno della perfetta Adalgisa. Non autonoma, non allotria, non quasi divisa in due parti (Cortellessa 1999: 151; Zollino 1998a: 33, 75). Non stilismo disforme poi espunto, poi restaurato, giustamente restituito alla funzione proemiale: proemio se non altro motivico (Lucchini 1988a: 88, e RR I 845, 847). E neppure soglia-cornice imprescindibile che compie in sé il movimento tra i due tempi del Tempo che sarà dell’intera raccolta (Savettieri 2001). E tanto meno inno alla materia della vita, unitaria e tuttavia divisa: spesa tra Sehnsucht per l’idea assente (finalità, ratio, Idea) e confronto delle due società, la vegetale e l’umana (Manzotti 2004b: 199-200, 204, 192). Ossia imprescindibilità, sì, ma che esibisce un’unica esecuzione, eseguendo il tempo che matura, che procede nel soggetto (con graduale procedimento conoscitivo – Gadda 1993c: 153): in lui solo (non c’è traccia di altro tempo cosmico, in questo passo, come pure in altri passi). Tempo, soggetto, e relative lettere, che salgono di notazione in notazione, di simbolo in simbolo: consecuzione preordinata di moti psichici che si mette in figura e parabola: esibizione dinamica di discorso a serie fissa, finita, da ripercorrersi come svolgimento di un elemento nell’altro, uno dopo l’altro (le due società non sono alternative compresenti, non invitano vero confronto), nel decorso dell’idea come cernita, principio operativo sempre, per quanto nel cantiere non sovvenisse, e benché nel giardino si sia ri-ribaltata (preordinato volere che si ridecompone: il moto psichico, ricevuta la sua formazione, si ripete nel giorno, ogni giorno, circuito d’età che contiene ogni età, l’età). Se così non fosse, non ci sarebbero difatti né cantiere, né preghiera, né ribaltamento della preghiera. Né successione (da vento a soldati a cubi a giardini popolosi di pregevoli inseguimenti). Né opposizione (possessori-viaggiatori, amanti e non amati). Né griglia spaziale (reticolo categoriale), né quell’ora (che giunge a quel punto). Né incredibile approdo (l’universo, s’è detto, si è volto sino a tanto) nella Cernita compiuta, o perfetta. Cernita fatta con occhio che ignora il buio: che ci vede benissimo nella sera-notte. Occhio cernitore d’animale notturno obbligato cioè all’idea dall’idea. Evidenziano tale percorso, nel ns testo, i corsivi traccianti, tutti lemmi o sintagmi da Adalgisa, RR I 291-97 – con l’eccezione di RR I 839 / Gadda 1974c: 60 (destinazione dell’Adalgisa a tempi normali e sereni: da una lettera al cugino, del gennaio ’44, tra notizie di bombardamenti); paese a guisa di introduzione (dal sottotitolo della Notte, nella versione del ’42 per Primato); Cognizione, RR I 638 (avendo gettato un ponte tra i silvani di LA 1 e Gonzalo «celta inselvato»). E passando agli agenti specializzati, ossia LA 2: RR I 301 («inviava ne’ debiti giorni i suoi agenti specializzati»), 309 (febbraio in Acquario), 324 (specialista in umidità), 306-309 (il lungo Oh! fluviale-germile, già cit. per esteso, nel testo, e qui occasione per osservare come il primo degli specialisti, Germinazione, campo semantico d’aspetto euforico in Gadda, germini immancabilmente sul già germinato, disattesa promessa di novità del divenire, mera per quanto viva riproposizione di assestato molteplice sessuale, il caso anche della novità di Bruno – di contro alle apologie critiche della novità-trasgressività sessuale di un Gigi Brocchi, di un Bruno Locati, ha ragione Roscioni 1995a: 119, trasgressivi? liberatori? gli amori ancillari di Gadda?), 301 (dinamizzandoli l’afflato del dio: che è quell’Ermete da spendersi tra Ribaltamento, lemma su cui Gadda innesta la definizione tecnica di nota 3, RR I 330, e Sostituzione, perché Bruno-il-nuovo sostituirà Zavattari-il-vecchio, servitore tornato papabile vs non più passabile di trasgressioni erotiche, non perlomeno da parte di giovani padrone), 317 (ossia prendendo spunto dal progetto demolizioni, che è sempre logica di ricostruzioni: e avendo giocato, sopra, nella stessa logica, alla demolizione deittica del silenzio di Gadda su quel 1943 e dintorni da cui scrive), 315 (fenomenale incantagione, già vi si accennava in Pedriali 2004e, ora Pedriali 2007a: 78, a proposito di non ree confesse ex-incantature; per una cronistoria dello specifico dell’incanto di quegli anni, il crack milanese del ’31, v. Martinelli 2006), 302, 303, 304, 316 (variazioni sulla Confidenza, «cogliona qualità dell’animo umano» oltre che ditta delle pulizie, e per approdare al «più quotato degli apostoli dopo Simone detto Petrus»: funzione di cui qui si dice che gira, anche per ns ingenuità d’incanto di fronte agli imperterriti alternatori Gadda & C., RR I 341), 301 (imprevedibile sintassi). Non sono gaddiani, ovviamente, i corsivi-segnaletica Intramontabili e qui però non si continua (cartello appeso, quest’ultimo, al Claudio disimpara a vivere, minuto ma fondamentale tassello bloccante, ossia parte integrale della più vasta reinvenzione del Disegno in 10 disegni, non cogliendo il Quale e successione dei quali, i commenti finiscono in genere di limitarsi ad osservare la sola marginalità di prosa minore).

Col vuoto nel centro (accelerazioni di riempimento). È l’azzardo costruttivo maggiore: maggiore persino rispetto agli azzardi del Pasticciaccio anche perché viene prima di quelli (ma su questo punto ha ragione Bersani 2003: 116, «Gadda poteva scrivere tutte le Adalgise del mondo»: nelle classifiche dei lettori vincono Roma, il giallo romano, e il genio linguistico). Ossia il maggiore azzardo del centro vuoto, svuotato. Fulmine 2 cade. L’ex-Fulmine 3 assume il ruolo di Esito e Termine (della Parabola di Percorso, dell’Avvio di Percorso, del Blocco al Percorso: LA 1-3). Centro dunque in depressione ciclonica (venga pure in mente Pasticciaccio, RR II 17, lo si aveva in mente: ma si pensi anche alla centripetìa puntata sul boccone di Meditazione, SVP 660, argomento di Pedriali 2001b, ora Pedriali 2007a: 172-73). Centro depresso su cui convergono, a ri-riempirlo, a ri-agirlo, a sostenere il succhio di LA 8-10, i prestatori d’azzardo (più che di soccorso): LA 4-7. La cui formula di progressione (continuità di rialzo della discontinuità) consiste nello sfruttare l’accelerazione moltiplicativa ottenibile col genus, dal genus, dalla tipicità di categoria, nel numero sempre rilanciabile dei generati: LA 5-7 (sezione di Budello particolarmente prolifica, grazie anche alle migliorie riproduttive di LA 4). Accelerazione che salta, che fa saltare cioè di grado, nei punti dove il livello energetico supera una data soglia: i tre salti LA 5-7 (le due rifunzionalizzazioni di Cognizione 1 e 6, estrazioni-salto non contigue e tenute ben distinte, i.e., non ri-aggruppabili in un sotto-romanzo a sé, dal Tassello Separatore di LA 6, morulativo già di suo, e però anche ottimo connettore proprio per l’adozione di derive da Cognizione). È questa una sintetica ritracciatura, in seconda, della tracciatura argomentativa svolta, in prima, nel testo principale (ma come i gatti anche l’esegeta rifà la mossa che potrebbe costargli lo zampino per vedere di quale lardo si tratti). E cui segue, in terza, il rendiconto, di massima, dei luoghi gaddiani corsivizzati e dei corsivi evidenziatori di quella prima tornata: Adalgisa, RR I 376, 475, 557 (lo scrivente e autore di testi gaddiani: informato da informatori sicuri e sempre un po’ loro parente: destinatario di loro biglietti di partecipazione, poi partecipatamente trasferiti di peso, ossia verbatim, in nota, a far da esempio di standard frasali d’epoca, RR I 376), 469 («[…] ugola degli ottoni basedowizzati»); Cognizione, RR I 628, 677, 712 (altezza d’un piano: nella Cognizione è il salto su cui è dislocata la casa, con risultante terrazza a livello, sul retro dei livelli, e facilitante l’accesso impreveduto, cfr. Manzotti 2007a: 1, o Italia 2007c: 78-79, e più in generale Lorenzini 1999: 139-53 e 2002, o per il testimone fotografico, Terzoli 2005: 27-29, già Terzoli 1993a; nell’attenzione per il livello non si osserva però il potenziale energetico del dislivello – casa, sì, squadrata alla costa e semi-ctonia in parte, dalla parte del seminterrato, ma anche in parte aggettante su vuoti: seduta sui fornici vuoti della chiamata); Adalgisa, RR I 357, 361, 375 («mentre ancora s’aspettava l’avvento rigeneratore dei Portaluppi, dei Gio Ponti»; «intestino pre-giopontiano»), 360 («lungo le anse del budello noeufcentdesdòtt»), 355 («ci pensa il cervello stesso dell’esagono»), 374 («spiritati come da un centrifugante rivolgimento […] o forse anche solo da […] un momentaneo scompiglio del sistema endocrino: avvenimenti che camminano invece di pari passo […] nella disfunzione di Basedow»), 303, 314, 362, 368 (climaterio, ossia ed etimologicamente, con diverso salto; nell’Adalgisa età tipica, generica, come dire facente genus, e di cui non è chiaro se abbia effetti sul naso, che a Milano sembra esser comunque sempre padrone di sé – gran capitolo il naso di Gadda, non solo perché nella nevrosi ci gavazza, Leucadi 2000, specie sotto e grazie al fascismo, Pedriali 2003, ma anche perché, perlomeno a Milano, con la sua forma dice l’esserci e il restarci, RR I 520: calcolato, affilato dal calcolo differenziale e sublimm, RR I 415 / Gadda 2000b: 212; tagliato a timone, alla timoniera, alla tagliamare, alla becco di gufo, RR I 458 / Gadda 2000b: 258; conservato e anzi moltiplicato nei figli, uno per figlio, a seconda del numero di quelli, poveri nasoni, RR I 533, 524-25 / Gadda 2000b: 80, 81, 155; salutato, fatto oggetto di saluto, ciao nasone! ciao canapione!, fatto oggetto di glossa esplicativa, RR I 496, 497, 507; salutato, maturato a maggio, nei racconti del maggio, nel naso dei protagonisti, ultranerviano per Carlo, alla francese per Adalgisa, RR I 543, alla Carlo per i figli di Adalgisa, malinconia di naso nell’uomo del sacco, mentre niente naso per Bruno e per Elsa, il loro volto è troppo preso da altro; e pensare che tutta la storia partiva anche da un carnevale di nasi, brodosissimi a febbraio, RR I 450, di nuovo nell’anonimia della tipicità e della classe; insomma varia nasologia, vario contributo di climateriche forme da aggiungere alle raccolte, ai trattati, alle dicerie de’ nasi), 374, 376, 404, 405 (esempi di standard locutivi riportati e glossati in nota; è nelle note di LA 4-5 che il lemma tocca la sua massima circolazione; interessante che cada in LA 5, non tanto per le dicerie del titolo quanto per l’opposizione tra dentro e fuori standard, opposizione in cui il soggetto, pur «così fuori da ogni standard», RR I 397, non la spunta, giocoforza imitativo anche lui della palabra oficial, Cognizione, RR I 655, benché lasci il lettore ammiratissimo-frustratissimo proprio per la sua inimitabilità locutiva – v. a riguardo l’irraggiungibile Arbasino 1971: 185-93, ora anche Arbasino 2008: 11-42, a sua volta reattivamente riscaravoltato dalla «sublime» Adalgisa in pieno genius loci), 383 («Questo sospetto della nostra immaginosa tensione era divenuto scarica della realtà»); Eros, SGF II 219 (portitor, come più sotto transitus, altro prestito da Eros, SGF II 232, «il transitus da follia a vita ragionevole», perché pure Adalgisa prospetta, promette, s’impegna col suo si passi per di qua ossia per lei, per questo passaggio a una resurrezione: cioè si passi, si passi intanto per questa demolizione, poi si vedrà – ovvero spunto incrociato, dalle compromissioni e dell’uno e dell’altro testo con la parola topica, nell’ora topica, «l’atto di conoscenza […] prelude la resurrezione», Eros, SGF II 223, e più in genere pensando all’antagonismo che si viene a stabilire in Gadda, al trapasso, tra traghettatore-portitor infernale, tipologia carontina in aspetto di ex-Palinuro / ex-gubernator, e il più mobile-versatile-dotato-risalente-risorgente Ermete psicopompo); Adalgisa, RR I 409 (tempo spappolatore: in Fulmine faceva già e abbondantemente la farina ma ancora non era cuoco di vita, RR I 449 / Gadda 2000b: 105, né aveva schidioni su cui girare il suo gocciolante arrosto, RR I 461 / Gadda 2000b: 111, né girava, alternatore imperterrito e assordato pure lui, sulle allineate e batterie interminabili di prodotto, RR I 467-68, sull’assordante socialità vittoriosa di quello, Tecnica e poesia, SGF I 239, non essendo chiaramente ancora passato per le promesse di Cognizione; derive nette della quale agiscono invece su LA 6, tassello minimo ma popoloso di volitive ombre, «scure immagini di vita, con soprabiti», RR I 416, corpi gravi raccolti in più civile società industriale a fare il sabato inglese, tra figure di giocatori di scacchi impietrati in un’apparenza di sottoterra, nei sottoscala del Filologico e Biblioteca Linguistica, mentre fuori incombe il dovere, i «distribuendi kilowattora» della polarizzazione a un fine – la logistica, in Fulmine, c’era però già tutta, non attendeva infatti che di venire riempita, come dev’essere dei ritagli, appunto, di tempo, RR I 412: «Talora, e più specialmente di sabato, il Filologico era affollato in ogni sala e fin ne’ recessi», Gadda 2000b: 100, mio corsivo), 399 («estremamente farinose […] le si sdilinquivano subito in un’unica pasta»: ma tenendo presente, oltre ai pasti, pure i pastifici, già di Gadda 2000b: 28, perché la borghesia vieux Milan, pur rimanendo altrapasta, Gadda 2000b: 44, ora si dà anche agli impasti), 404 («Attediato dai clamori della radio, avrebbe voluto una investitura da Dio […]»).

Bruno com’era e come sarà. Il caso critico ha pochi brevissimi capitoli. Bruno-il-ridimensionato (Gadda 1995: 293, e Gadda 2000b: 278-79, 285, 296). Lo stratificato-nei-millenni (Bertoni 2001: 82). Il quasi-gemello (ahi!) del rivale, ma in positivo (Cortellessa 1999: 154). Bruno-la-nota (LA 10, nota 13). Ossia la prova non difettiva dell’insondabile, dell’inattingibile, dell’infracosciente, del piccolo psichico leibniziano (Antonello 2005: 43, 56-57, con piccolo teorico che viene cioè assai utile per il grande no narratologico, Gaddanon sopporta: «non sopporta soluzioni chiuse, definitive, […] il possibile scandaglio si perde nella oscurità dei rivoli decisionali, […] iceberg psico-somatici non organizzabili in un récit conclusivo ed esaustivo»; categoricità al negativo che quando s’accumula come s’accumula tra Donnarumma 2006 e Stellardi 2006 lascia l’impressione, sì, lo si dica, d’essere stati messi in compagnia d’un bel deterrente: non è temporale, né selettivo, né lineare… non ha né amore né interesse per la realtà in sé… non c’è, né c’è stata mai uniformità sufficiente a enucleare non dico un sistema ma neppure una posizione coerente…). Bruno-lo-schema, certamente lo schema: schema fisico, o forma, e relativa storia organica, tra evoluzione ed entelechia (Roscioni 1995a: 35-38). Capitoli che erano da verificare, impolpare, munire (una serie infinitiva promette sempre di essere battagliera, e merita corsivi), a cominciare dal Bruno com’era, per arrivare al come sarà. Qui di seguito con verifica munita di dati in seconda, supplementare alla prima battuta, e senza arretrare dinanzi ai rischi dell’accumulo (altro rischio di cui Gadda è incantante maestro): Gadda 2000b: 28, 37 (Bruno si manifesta, anonimia di voce irrispettosa di garzonaccio: ma è lui, come viene chiarito), 31-32, 33 (si materializza, s’incarna in visibilità, tipicità che non somiglia a nessuno – è il pupilla rigida senza luce, senza sorriso di una Teppa che ha sinistre contiguità con la Tenebra, come LA 2 evidenzierà rispetto a Gadda 2000b: 73-74, cfr. RR I 327, 329-30: «lui invece intenebràtosi nella chiocciola buia»; «paggi e valletti a tutte le probabilità della Tenebra»), 38-48, 54 (tra insufflamenti di prova, oscillazioni nel nome, che però si era subito manifestato anche nel cognome, Gadda 2000b: 33, ma soprattutto nel fissarsi del motivo della carne, carne franca e sicura di lui, curata a furia di grasso di beccheria, e carne-carnagione ancora volatile di lei, tra la Madonna e la bella Mora: ossia no. 2 carni destinate, «il destino non si può vincere», all’unione ustoria, due semiusti fanno, è ben vero, un’ustione o carne unica, dopo le rosticcerie di prova dei temporali del venerdì, Gadda 2000b: 230-31, 233 – e qui, pensando infine anche al Bruno-l’Arrostito, l’umbra profunda di Castello, RR I 119, si pensi pure che perlomeno in Gadda ogni crimine e retribuzione ha il suo crimine-retribuzione di prova), 73 (al primo getto della crisi di locazione: «il Bruno Locati era privo adesso non solo della “carna”, ma anche del pane»), 83, 85, 91 (dagli automatismi dell’immaginario in libera uscita, mai fidarsene; Gadda, obbligato cavatore di sé, proprio ci casca, eppure proprio non ci crede: «L’imagine […] dell’ingegnoso demiurgo che cava di sé liberamente la libera splendidezza dell’opera e nei liberi modi […] è imagine in sul nascere viziata», Come lavoro, SGF I 427-28; qui per dire dei rischi in cui cade Fulmine 2, lavoro d’uncinetto in automatico sul nascente romanzo d’amore, sul Bruno-la-vampa: vampa di capelli che mette l’incendio nelle more-morose: irridente voce che ride, che chiama Elsa la mia fiamma: che si disegna, su sfondi di damaschi pronti a fargli da tela, in figura di valletto allegro, perché l’allegria è il vecchio tormento gaddiano, «L’allegrezza è dono ad alcune privilegiate nature […]. L’allegrezza move da Dio», Gadda 2000b: 257; ha pure un naso camuso che perderà nel regolarsi, nel mettersi in regola per le locazioni dell’Adalgisa; pure Elsa del resto aveva il suo, «un nasino da beffarsi […] degli starnutazzi d’un prete», F220 80, caduto nel passaggio al maggior transitus), 102, 105 (di nuovo rilocato, di nuovo sostituisce-subentra, per gli avanzamenti di Fulmine 3, ma in realtà sostituisce se stesso, lavoro di miglioria sul Tipo che già ottiene qualcosa col Bruno-monellaccio di cucina, «cucina piena di accoglienti penombre, che pareva che Jacopo da Ponte, il mio Bassano adorato, l’avesse cavata dalla sua anima»; di nuovo cioè con occorrenza che s’aggiunge alla lista delle libertà dei cavati e cavatori, tant’è vero che, a questa altezza, e tra molto prosaici incidenti d’impasto, bisogna pure liberamente cominciare a pensare di purgarsi l’anima, in un qualche purgatorio – la futura LA 8 è insomma ormai impostata), 122, 123, 124, 125 (istanze singole, tutte cadute: Elsa mentalmente vede e ri-vede l’aureo garzone nel cui volto la vita raggia vanamente), 132-50 (il ritorno vero e proprio, già Ritorno in tutte le sue parti – parti che nell’Adalgisa avranno dilatazioni, certo, dilatazioni anche materiali di occhi, adesso «dilatati nell’ora di fulgore», RR I 493, e varie cassature, ma la sequenza rimane quella di Fulmine, in queste tappe: (1) è passato anche lui, con polarizzazione dei Ragazzi, non ancora qualificati come «quattro occhi sincronici», RR I 494, ma neppure più «Gracchi al quadrato», Gadda 2000b: 82, con marca-segnale della polarità del Mondo nel litigio per questioni, guarda caso, di no. 2 marche di biciclette, Gadda 2000b: 132 / RR I 493; (2) tentazioni e resistenze dello sguardo, tra trappole, e nell’errore di Adalgisa, sul deittico, Gadda 2000b: 135 / RR I 495; (3) episodio col Rivale, che più avanti è pure quel rivale alla cui inesistenza si deve la prima formulazione del sintagma, così adatto al soggetto-vittima della nominazione collettiva, «Tutti ormai lo chiamavano “el rochetta”», Gadda 2000b: 221; qui risulta già pentito del gesto, Gadda 2000b: 135, ma non ancora ripentito dello stesso, RR I 496, del resto ancora non può contare sulle addizioni d’ombra, sul sintagma «non ostante il gioco dell’ombre», RR I 495; (4) episodio del Volto, molto rivoltato per il Ritratto del Giravolto, RR I 496, in un’espansione dello spunto, peraltro già direttivo, di Gadda 2000b: 135: «Si volgeva ancora e sorrideva»; (5) «guardò ancora verso dove sparivano tutti i ciclisti», Gadda 2000b: 137 / RR I 497, con rimozione momentanea e di Bruno e di Adalgisa, che ormai parla per conto suo, il testo però ancora non l’ascolta o registra, RR I 499, tutto preso da Elsa, i.e., dalla descrizione di Elsa; si perviene così a quel risultato complessivo nell’animo nostro, ovvero nostro di Narratore e Scrivente, Gadda 2000b: 138 / RR I 499, cui il rifacimento aggiunge decisivi sintagmi, il declino dell’ora, il «significare senza nostra speranza, dopo bruni alberi», RR I 499, ns corsivo, questo, che ritorna, rovesciato, pure nel ns rabbonito-decelerante finale, avendo cassato, Gadda e non il ns finale, un’importante chiave, qui già cit., ma merita ripetersi: «pareva che dovunque, tra labili fiori, insorgessero i veti disumani del tempo», mentre rimane invariato l’eco cristico, da Giov. 13, 33, «ancora per un poco, oggi, sono con voi!»; (6) di tutto si trionfa, paragrafo-segnale con cui Adalgisa attacca a trionfare sulla trasgressione temporale-causale della visionarietà, attaccando un primordiale a base ribattuta, Gadda 2000b: 139, triribattuta, RR I 501, così attaccando alla gola, dalla gola, il sonnambulismo goloso di Elsa, RR I 500 – importanti le sostituzioni e le addizioni di LA 9, tutte marcanti la più nuova esattezza della trama criptosimbolica, utile definizione, questa, da L’incendio di via Keplero, RR II 702: (a) povera sonnambula, RR I 500, sostituisce povera donna, Gadda 2000b: 139; (b) la qualifica «mezzo straziata dalla stupidità degli eventi» si trasforma nei «vertiginosi cammini della notte» dove la categoria di causa «vale ed agisce, però al di fuori del suo sogno»; in questo modo, da donna-pragma che è, Adalgisa pone le premesse teoriche per il trionfo del suo urto, rifacendosi ecolalicamente, per frase fatta e rifatta a Milano, perché di tutto si trionfa quando si ha un carattere, al trionfo-legge-veto che blocca il ritorno al Ciclista, avendole il tempo difatti rescisso il suo vincolo irripetibile, indissolubile, ossia ben altro, altra cassatura, questa, di Gadda 2000b: 148 rispetto a RR I 518; (c) la «signora che insegue con gli occhî signorili un ciclista» cambia in autonomia d’occhi di sonnambula, ora inseguente al plurale un fuggente, in idea, in un remoto spazio: lo spazio dilatato-allucinato del forse ripasserà; (7) «Hai da vendicarmi, Elsa mia!», Gadda 2000b: 142, con aggiunta di cattiveria e di suggerimento in RR I 512, perché Adalgisa esige sia rispetto della legge che certezza della prova, continuando così tanto a redarguire che a far cadere in tentazione; (8) Bruno ripassa, pensiero fulgido che dà ad Elsa l’occasione-tentazione precisa per dichiararsi sul più piccolo, sul figlio minore, per la prima volta, Gadda 2000b: 143, per la seconda volta, RR I 513, avendo LA 9 anticipato al Ritratto del Sorriso, RR I 496, la prima occorrenza che mancava a Gadda 2000b: 135; ad Adalgisa, alla fonazione narcissica, il ricostituito pacchetto visionario dà altrettanto precisamente l’urto decisivo, quello che cioè fa traboccare il tutto e di scatto nel romanzo in chiave di Carlo, «Come dice anche il solo nome, Carlo!, egli era un bravo e bell’uomo», RR I 514, «ossessione onomastica» che s’annunciava dalle note di LA 5, RR I 405, e non di CdD 1, nel primo dei disegni in chiave di Gonzalo; (9) è Adalgisa adesso a rivedere, risognare, rivivere, ma senza Redivivo e dunque senza Infrazione: ad accogliere derive-sigle, dalla Cognizione, RR I 518, «dopo l’urlo dei parti»: a far ripassare Bruno per l’ultima volta, avendolo evocato, per i cattivi suggerimenti da sfogare su Elsa, dai verdi regni di un discorso pseudotecnico sul minimum di resistenza e sull’optimum della forma natante, Gadda 2000b: 149 / RR I 519 – discorso saturo d’autore e di saperi d’autore, e proprio per questo deciso a dimostrarsi poco scientificamente in Bruno, che difatti ripassa perché anche il suo sangue ha preso decisioni, le piccole decisioni della scelta evolutiva che chissà come mai è sua e non del Nasone di Carlo e dei figli di Carlo; sono «les petites perceptions» già di Gadda 2000b: 150, e che in RR I 520 innestano nota 13 sulle causali inavvertite della scelta, RR I 559, con ennesimo pseudotecnicismo che permette di tornare all’attacco di non infinitesimali problemi educativi, di diritti di profittevole scelta negati ai sacrificati, per i quali la tromba della resurrezione suonerà, eh già, invano, RR I 560; (10) nel testo principale, superato il segnalatore di nota, la tromba non suona certo invano per Bruno, Gadda 2000b: 150 / RR I 520; scelto da una Materia in Desiderio – tutta pensante, pensa solo lui –, sceglie di risalire di tomba, rinato dai parti della Morte, riuscito all’Euresi, carne di maneggiato-manesco Garzone-paggio-discolo pensato dalla Vita, voluto come Carne Risorgente nella protezione della Forma, sacra Corazza di Oggetto del Desiderio di Dio, precisa e segnalabile Individuabilità; il Desiderio difatti subito lo riconosce, nell’evoluzione-rivoluzione dei Millenni, parametro e aspetto di Forma ritrovata ad ogni Tappa, fatta valere di riedizione in riedizione per il tramite di agenti privilegiati, nel protestatario-incendiario di agenti di segno opposto; (10 bis) nell’Adalgisa questa è però pure l’ultima volta che Elsa pensa il pensiero della Vita, o che Bruno ripassa: Adalgisa ha davvero ottenuto di imporre la Legge e le Cause, il rientro della Trasgressione, il Non Ritorno di un dato, molto dato Ciclista, il rifiuto della sperata licenza poetica sulla precisione semantica di Morte e Resurrezione, licenza che era nelle preghiere di un pensiero al rialzo della Coimplicazione e della Compromissione dei Semi, tra Leibniz e Cristo, tra scienza, filosofia e sacro; (10 ter) eppure il Disegno e Progetto è anche testualmente riaffermato e riottenuto, sempre RR I 520 e già Gadda 2000b: 150, perché la Legge, gira e rigira, è pure quel Disegno, quel Volto con Sorriso e Ciuffo che Adalgisa s’ostina a cercare di ridurre a Icona solo memoriale del Valore – l’ostinazione però anche costa, cioè le costa un’interminabilità di Rumore, di mortale Romanzo Oppositivo imposto, per la quarantesima volta, RR I 528, a quel vantaggio di Lutto che da sé rialza il no. di Ritorni in cui la Vita potrebbe ripassare in immagini dell’Immagine, «uno che ripasserà […] che rivivrà nella immagine: una seconda, una terza, una ventesima, una cinquantesima volta», RR I 500; fatica di Rumore messo a dilazionare, ad annullare, a frastornare, a farsi dire vitale; messo, soprattutto, a riassorbire Ritorni di Tensione alla più Compiuta Reincarnazione in un’Icona d’Incontro, dopo bruni alberi).

Le consolazioni del pozzo no. 14. Consolano Carlo: trascorsi Elsa e il pensiero di Elsa (in quel punto Carlo prende difatti a infilzare gli ottimi e i minimi, i natanti e i non resistenti, i bruni-bruniti rifiglianti il migliore, i corazzati millenari della Scelta, «Ditischi infiniti della natura», RR I 521: tempismo sadico del tempo fluito, finito, del romanzo-nel-romanzo). Consolano Adalgisa, vedova inconsolabile (non essendosi guastata coi Furori il suo Morto, adesso formicola e brusisce di ricordi, sua specialità; del resto il ricordo acquietato, rabbonito, non tralascia di tenere lezione, «[…] la sfera ascendeva, lenta, si sublimava sopra la repulsione di quella pazienza color pece, superava i tenebrosi divieti della gravità. Trasgredito il vertice, ripiombava rotolando nella gravità […]» – dal ricordo della cattura dell’Ateuco, RR I 522-23). Consolano il Narratore, il testimone sempre, il partecipe mai (ora subentra infine ad Adalgisa per lunghi tratti, in prima persona, contribuendo pure lui a protrarre colla memoria l’Azione bloccante che non l’ha incluso, rimasto cioè proprio lui escluso dal circolo-rito che ogni volta si risigilla su un originario Paese della Vita perduto alla geografia del tempo, nell’ora del sorgere e dello spiccarsi, dall’ombra, delle rosse aguglie dei Santi «pretestati dell’ultima porpora», RR I 537-38 – erano santi salvi, prima che pretestati, in Gadda 2000b: 165). Consolano la Reinvenzione (giunta a conchiudersi tra ultime riaccensioni di stizza e ultimi intenerimenti sul povero Carlo che però non è questo Carlo: fattiva risistemazione milanese della Vecchia Invenzione, anche nel terzo ed ultimo Giardino del Narrema e Specchio della Città, al dipanarsi e sdoppiarsi ormai autunnale, con salto cioè all’autunno del ricordo, delle cime dei cipressi sugli «aspettanti viali», RR I 551 – azione che invero mai raddoppia, solo sdoppia, la cima alle storie e alle stagioni di Gadda, cfr. Meraviglie, SGF I 102). Sono queste le consolazioni di chi, avendo toccato il fondo del Comando, per il momento passa-cassa ulteriori Chiamate (rispetto a Gadda 2000b: 179, cade nell’explicit, RR I 552, la chiamata gravitale esercitata dal Profondo sulla grossa collana nera di un’Adalgisa china sulle monumentalizzazioni della morte). Consolazioni di chi si è organizzato come lettera e numero (lettera e numero di pozzo a fondo chiuso e numerato: spunto, questo, da Meraviglie, SGF I 122, e pensando al fondo chiuso del Gonzalo di Pedriali 2006, ora Pedriali 2007a: 91, 103). Chiuso e circolare moto psichico che ha ricevuto formazione ma non Forma, essendo quella andata al Paradigma Perfetto, al Compiuto ed Asceso a tal segno che alle elaboranti e schematizzanti generazioni di Milano non resta che invocarlo, invocando il moto opposto: il suo rifarsi Euresi per il tramite del corpo delle genti («Scenda il dio giovine “assunto alla forma perfetta”, scenda dal suo archeologico piedistallo», con spunto da Tecnica e poesia, SGF I 244, e non dimenticando che un’assunzione è pure assunzione di servizio: in questo caso, meglio che mai, assunzione dell’assunto a schema obbligativo delle Storie). Ma anche a chiamarlo Euresi tutto ciò non è euresi (ecco che a dispetto delle consolazioni già rinsorgono gli avversativi). È Torpidità, Continuità, Rigerminazione del Già Detto e Fatto (già detto e già fatto sessuale, nell’apparenza di trasgressione sessuale: trasgressione eterogenetica per i Gigi Brocchi e coi Bruni Locati, omogenetica coi Giuliani Valdarena) – presunzione pasticciona assurta pure all’uso ed abuso delle Maiuscole. Alla Committenza che chiede un bel San Giorgio, Gadda consegna pertanto, più volte, un bel San Giorgio (sempre in ritardo sui tempi: ma consegna). Consegnando cioè un ragazzo di allora morto in una guerra di allora, consegna bene: non manca all’impegno preso con l’epopea («L’epopea di allora, si capisce», Adalgisa, RR I 529: facendo capire, con tali sintagmi, l’indifferenza per un cronismo che propini altra temporalità, altro tempo da quella Milano colta in flagrante, sempre in flagrante: conversazione profana ad argomento unico). Peccato, però, non si trattenga. Con non trattenersi soprattutto dal giudicare la composizione dinamica del cromatico insieme. Cui torna, in più edizioni, per riverificare e riaggiustare, all’ennesima, ora il cosciame sullo sfondo, ora il cosciame in primo piano. «Sopravviene finalmente Adalgisa», si dice in genere, dicendo con Isella (Gadda 1995: 299 e 2000b: 292-96) – sollievo comprensibile, al vedere scattare, nella condizione critica raggiunta dagli abbozzi, il racconto che infine va. Ma l’obbligato guardare dell’artista (costretto a lasciar segni, costretto a riconoscere il proprio segno, per quanto non gli riesca di farsi riconoscere: non da chi dovrebbe amarlo e perdonarlo) ha gettate più lunghe di quelle delle condizioni critiche dei suoi progetti – tanto da fare, anche di quelle, parte integrale del progetto di messaggio: «E dal costume e dal tempo sgorga e incombe sul mondo, tra scoppi di irridenti risa e il serpere delle tentazioni e lo stagnare del peccato, dondola sul mondo la forma cupa del dolore. Vero ed assurdo come un incubo del Goya» (Arte del Belli, SGF I 560). Continuo test d’identità, continua scelta d’immagini («L’autobiografia non è la storia d’una vita già sofferta, ma una scelta di immagini con cui io, ora, al tavolino, costruisco me stesso», Il faut d’abord être coupable, SGF I 621), nel test-ritmo di pensiero assurto e pensiero rigettato: altalena-catena sulla linea d’orizzonte del romanzo che intanto si fa, si rifa, s’è fatto. Si sbaglierà, si sarà sbagliato tutto. Ma qui l’incanto d’opera intrisa nel giudizio (cfr. Il terrore del dàttilo, SGF I 516) ci satura persino gli ultimi (mai ultimi) resoconti di corsivi e varia restante minutaglia maggiore (saturazione e minutaglia che, come già per Gadda, non porta alla visione microscopica e inorganizzabile in récit di cui si fa portavoce, tra gli altri, Antonello 2005: 36-37). Ed eccoci dunque anche a quelle marcature: Adalgisa, RR I 541 («la calda vampa dell’estate che dispera di sé»), 422 (entra lui nei Pesci, già Gadda 2000b: 101, o come dire astronomicamente con Gadda, contiguità di sole-in-Vergine e sole-in-Pesci, di equinozio autunnale e vernale); Cognizione, RR I 588 (nullità del potenziale di terra, e per implicito, nullità morale della scarica sadica che in quello si annulla); Gadda 2000b: 259 (dür e ch’el düra: a proposito di marmi tali da impedire il dì della Resurrezione: sintagma non ripreso in Adalgisa, RR I 458, 476-77); Adalgisa, RR I 444, 449 (ombra già ripentita; barbugliante averno; erebo casalingo; Cuoco di vita); Lettera a Leonardo Sinisgalli, SGF I 1070-071 («L’ingegnere progettista non è, beninteso, un eroe d’annunziesco intento a rimirar sé del continuo dentro allo specchio della propria esasperata vanità. No, non vede sé, vede l’opera, vede “la cosa che dovrà essere”, il filo dell’atto, degli atti, che discende dalla conocchia del pensiero»; e sempre a proposito di vedere, da una lettera a Giuseppe De Robertis, del settembre ’34: «questa ricerca non è studio d’effetti, è appassionata induzione, “vedere che cosa si scopre”. È fenomeno necessario, ineluttabile» – cit. in Isella 2004b: 16); Adalgisa, RR I 451-52, 473 (prosa bellica e pneumatica; «Immani gasterofonèti dominavano i crocicchi»; glossa in seconda le due neoformazioni Italia 1998: 127, 267), 453 (disacustico bacino), 410 (fase successoria, cfr. RR I 418: «sìndrome successoria»); Bersani 2003: 87 (esempio perfetto, in un sintagma, di esegesi eponima: «naturalmente L’Adalgisa è anche o soprattutto l’Adalgisa»); Adalgisa, RR I 456 («C’era insomma tutto quello che bisognava», da cui parte l’Appello del Verdone: le serie ritmate dei c’erano / non c’erano, RR I 462-65, cfr. Meraviglie, SGF I 85-86: i falsamente estatici ecco, semplici, ribattuti, triribattuti, RR I 454, 458, 462), 363 (esagitato reame; cfr. Una mostra di Ensor, SGF I 592, per il richiamo all’Entrata di Cristo a Bruxelles), 484 (tolemaica girogiostra; piroettante cosmo), 497 («la mamma dardeggiava la zia. La fiòcina aveva imbroccato il merluzzetto […] lo sguardo aveva rapito lo sguardo»; sulla viabilità, o sistema di tracciati dinamici offerti all’occhio dal Parco Sempione, realizzato nel 1894 col progetto Alemagna, v. Selvafolta 2006), 532-33 (il sogno di Remigio, con innocenza del narratore, diversamente però si sognava in Gadda 2000b: 161; sui cortocircuiti della memoria agli episodi Remigio, v. Lugnani 2003: 89-106, già Lugnani 2001); Gadda 1995: 302 (da una lettera a Silvio Guarnieri, del novembre del ’35, con testimonianza di fedeltà alla Sostanza Milanese: «Questa borghesia milanese che io bersaglio è ancora qualche cosa di solido, di fattivo, di conclusivo, di non teatrale, di reale, nella vita della nazione»); Roscioni 2004: 34 (la mia volontà e il mio bisogno è di amare: da una lettera alla madre del dicembre 1909, a pochi mesi dalla morte del padre); Primo libro, SGF II 60-61 (la figura della celata distolta: qui passata in prestito al soggetto, essendo stata prelevata dal Giorgione-explicit del Primo libro – lì era la celata distolta dell’altro santo, con ulteriore licenza rispetto alla messa in quadro della Meccanica, cfr. Gadda 1990: 194-95, e v. più in genere, molto utilmente, Andreini 1988: 55-76 e Vela 1987; ovvero con distogliere favolistico che nel Primo libro permette a Gadda di risolvere un problema tecnico che evidentemente non assillava Giorgione, la resa in luce del volto della Forma, «l’elmo li distolgo, e ’l capo e ’l volto gli faccio ne la luce», mentre l’opera-che-tutto-giudica se ne sta di qua, a gracidare, a gracchiare, nella sua volgarità di rivolta, «che le ranocchie son qua», Primo libro, SGF II 61: qua a diversamente distogliersi-distrarsi-frastornarsi con la celata del rumore, col «mondo gracidante, pasquale», Gadda 1990: 195 e 1987a: 533); Eros, SGF II 374 (già cit. parzialmente in queste note, il passo attendeva l’utilizzo pieno: «[…] urto biologico tra la mia carica narcissica resistente e propia, e la carica narcissica attaccante de’ nerovestiti e nerovestite antagonisti: “Via di qua […], ch’io mi ci mett’io a vivere e ad esibirmi”»); Madonna, RR I 95 («“le ombre” bisogna tenerle d’occhio e fugarle con ogni mezzo, con guardie, con fari»); Meraviglie, SGF I 97 («Le vecchie rovine spagnole ed austriache, dond’era affiorato il teschio e la tibia, attendevano il loro Piranesi»: perché pure Milano attendeva da Gadda le sue Vedute e le sue Carceri, e perché infine «Molto sarà perdonato a chi ha molto osato» nel suo lungo guardare d’artista, Una mostra di Ensor, SGF I 588, 589; ossia perché il demone del disegno tanto ammirato in Leonardo, Una «mostra leonardesca» a Milano, SGF I 414, obbliga a vedere e a costruire il vedere, con rituale lavorativo che intermette solo quando nel mucchio del da fare non ci si vede più, Madonna, RR I 39, e dunque non intermettendo nemmeno a dicembre, cfr. Dicembre, SGF I 1003-005 – inesaurito obbligo a chiarire scurendo, come appunto si dice del Piranesi delle due Carceri, le chiare, le scure: cervello nero nella reinvenzione perfettiva, nel rialzo d’auscultazione dei tempi, del tempo, della città).

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

© 2008-2023 by Federica G. Pedriali & EJGS. Previously published in F.G. Pedriali, Altre carceri d’invenzione. Studi gaddiani (Ravenna: Longo, 2007), 105-63. An earlier version of this work, minus the section on L’Adalgisa and with the title Fistola in succhio. Il romanzo come regime idraulico, had come out in E. Manzotti & F.G. Pedriali, Disharmony Established. Festschrift for Gian Carlo Roscioni. Proceedings of the first EJGS international conference, Edinburgh, 10-11 April 2003. EJGS 4/2004. EJGS Supplement no. 3.

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