EJGS Supplement no. 5, EJGS 5/2007
Archivio Manzotti
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Carlo Emilio Gadda – I
Emilio Manzotti
Sommario
- 1. La Milano di Gadda
- 2. Cenni biografici
- 3. La formazione dello scrittore: diario, meditazione, narrazione
- 4. La «tragica autobiografia» della Cognizione del dolore
- 5. Il Fulmine sul 220 e i disegni milanesi dell’Adalgisa
- 6. Dal primo Pasticciaccio al Palazzo degli ori e al secondo Pasticciaccio
- 7. La misura breve dei racconti: capolavori e banalità
1. La Milano di Gadda
Divisa tra modernità e tradizione, città di artigianato e di industria aperta su una campagna fertile esemplarmente organizzata e lavorata, la Milano della fine dell’Ottocento e nei primi due decenni del Novecento offre alla formazione del giovane scrittore (o del giovane ingegnere) spunti molteplici e in parte contraddittori. (1) Progresso è certo il concetto-chiave, che trova la sua icona nel balletto modernista Excelsior di L. Manzotti e R. Marenco, uno spettacolo di straordinario successo per più di tre decenni alla Scala (e quindi in altri teatri italiani e europei, e degli Stati Uniti) dopo la prima dell’11 gennaio 1881: «Il ballo “Excelsior”, sul palcoscenico della Scala 1900-1904, si tecnicizzò […] d’un trionfo di due tram elettrici […] che si venivano incontro pian piano, traballando: ed emettendo dai rispettivi trolley adeguate scintille, un po’ troppo bluastre, forse» (Tecnica e poesia, SGF I 240). Ma nella città del progresso, delle macchine, e delle serate futuriste, il gusto letterario di una buona società caratterizzata dalla diglossia italiano-dialetto è senz’altro conservatore, con netta impronta ottocentesca, dominato da una parte dal romanzo manzoniano, e dall’altra dalla poesia dialettale di Carlo Porta (viva anche nella lettura ad alta voce in famiglia).
Dati per scontati molti degli ovvi aspetti materiali, si vuole qui in primo luogo sottolineare una particolare idea di comunità, di organizzazione anche geografica del sociale, che è strettamente associata all’ambiente milanese, e che svolge nell’opera di Gadda un notevole ruolo strutturante. La città, la Lombardia nel suo insieme, oltre ad essere percepita (secondo lo stereotipo tradizionale) come operosa, appare, quel che più conta, come densa di vita: di una densità che è demografica ma anche, in una geografia fortemente umanizzata, di insediamenti e di opere sopra una campagna minutamente perticata, cui sfugge solo l’incolto – trascorso da battute di caccia alla volpe – della brughiera. Agricoltura, artigianato, commerci, grandi industrie e grandi banche (delle une e delle altre Gadda sarà campanilisticamente fiero) costituiscono un tessuto di attività, di relazioni e di funzioni nel quale il singolo individuo è o potrebbe essere armoniosamente integrato, partecipando secundum possibilitatem al più grande disegno (di cui ignorerà forse l’Idea ispiratrice, ma cosa importa) del benessere comune e del progresso.
Questa immagine parte veridica parte illusoria della verde pianura e della sua metropoli costituirà per tutta l’opera di Gadda il polo positivo di una dicotomia fondamentale tra partecipazione-integrazione-vita da una parte e isolamento-solitudine-morte dall’altra, un polo negativo cui pertengono le lande senza popolo, senza nemmeno popolo d’alberi, di altre regioni e paesi, e le desolate lande psicologiche dei personaggi maggiori (Gonzalo e la Signora, nella Cognizione, Liliana del Pasticciaccio).
Una Milano densa di opere, dunque, instancabile produttrice di beni e di ricchezza, dominata dall’imperativo e dall’ideale del lavoro – quel così milanese «lavoro italiano» a cui Gadda pensava di dedicare tutta un’opera, romanzo o altro, e che affiorerà in diversi luoghi della sua opera nella forma di puntigliosi cataloghi di mestieri e delle relative divise (come nelle pagine iniziali dell’Adalgisa), o di accurate descrizioni di singole attività: i carradori, le mondine, i garzoni muratori, ecc.
Ma questa operosa Milano è percepita (a ragione) anche come madre benefica e previdente, una madre provvida la cui secolare vocazione solidaristica ha saputo sostituire all’umiliante elemosina (che già Porta mal tollerava) l’assistenza preventiva. È un dato di fatto che la città disponesse all’inizio del secolo di una fitta rete di asili, di orfanotrofi (i Martinitt, le Stelline), di cucine popolari, di asili (cioè ricoveri) notturni, di alberghi per poveri e vecchi (la Baggina, divenuta proverbiale nei dialetti lombardi, poi Pio Albergo Trivulzio), di istituzioni educative e di lotta contro la disoccupazione, come la Società Umanitaria a tendenze laiche e socialiste o comunque progressiste – molte delle quali sono ricordate nell’opera di Gadda, ad esempio nelle note dell’Adalgisa, e per l’Umanitaria in molte pagine del II capitolo della Meccanica.
Oltre che madre, Milano – pure è in certi ambiti disordinata e pressapochista (specie nella «svirgolata» edilizia urbana più volte ironicamente evocata da Gadda) – è una attenta e severa magistra. «Ottime» (il giudizio è di Gadda) le istituzioni scolastiche, eccellenti gli educatori e gli insegnanti: «La scuola è, a Milano – scriverà Gadda sciogliendo un inno al genius loci illuministico-pedagogico – qualche cosa di vivo, di fondamentale e di intrinseco all’anima stessa della città: la città laboriosa si paga il lusso de’ suoi alfabeti, si regala le “sue scuole”: esse sono il miglior monumento, il miglior “palazzo” che il Comune possa cavare dalle tasche dei cittadini». (2)
Accanto alla scuola altre istituzioni culturali milanesi dei primi decenni del secolo possiedono una decisa componente pedagogica. Fatto un cenno (indispensabile, vista la presenza nell’opera di Gadda della musica, amata, odiata, non compresa, parodizzata – Guarnieri Corazzol 1980-81: 128-45) alla Società del Quartetto, fondata nel 1864, che ha svolto un’opera incommensurabile per la diffusione della musica cameristica; ma la musica, diremo più diffusamente del Circolo Filologico, (3) il «maggiore degli organi spirituali di Milano», come lo definiva il Corriere della Sera (Roscioni 1997: 91). Fondato nel 1872 per favorire la conoscenza delle lingue, venne dotato di una ricca biblioteca (circa 75.000 volumi negli anni trenta) e di una importante raccolta di riviste italiane e straniere. Oltre a seguirvi, come pare, corsi di inglese e di tedesco, Gadda aveva largamente attinto ai volumi della Biblioteca, politecnica, cattaneiana nella sua composizione, arricchendo, molto più che «di qualche laterale incidente, o accidente, di qualche idea secondaria e disturbatrice» e correggendo quanto nella sua formazione era figé e scolastico. Sono gli anni, dai diciotto in avanti, delle letture formative, e del magistero di alcuni insegnanti, in particolare di filosofia (Piero Martinetti, traduttore e commentatore di Spinoza, Kant e Schopenhauer, e lo psicologo Casimiro Doniselli), che contribuiranno a fissare le invariabili tematiche dei decenni a venire.
Notevolissimo è poi il caso del Touring Club Italiano, una associazione alle sue origini tipicamente milanese, costituita a Milano nel novembre 1894 «per impulso di un nucleo di appassionati della bicicletta» (presto cresciuto a centinaia di migliaia di associati), e «finalizzata a promuovere lo sviluppo del turismo in ogni sua manifestazione e diffondere la conoscenza della patria» (così la Treccani nella voce relativa), a cui si deve, alla lettera, la creazione in Italia di una letteratura turistica (basterà menzionare la ventina di volumi della Guida d’Italia), di una seria cartografia e di una capillare segnaletica stradale («i simboli venuti da Milano»). (4) Il Touring esprime e favorisce una tendenza prettamente lombardo-milanese al viaggio d’istruzione più che d’avventura (forse una estrema propaggine delle Bildungsreisen mitteleuropee), alla conoscenza di luoghi e costumi remoti, alla esplorazione, ma anche al progresso ed alla miglioria. Gadda vi sarà estremamente sensibile, non solo nel concreto delle molte prose di viaggio (che si inseriscono in una nutrita linea di consimile letteratura milanese– si pensi ad Angioletti), ma anche a livello simbolico: I viaggi la morte è il significativo titolo di una delle raccolte maggiori.
Si è usato sopra, per la Biblioteca linguistica del Circolo Filologico, il termine politecnica, a significarne l’apertura ad ogni ramo del sapere, senza barriera di culture. Credo si possa in ciò individuare un tratto caratteristico della cultura lombarda, con un massimo ottocentesco nell’attività e nell’opera di Carlo Cattaneo, ma ancora attualissimo nei primi decenni del Novecento. Non è fuori luogo, tutto considerato, di vedere nell’enciclopedismo gaddiano, nella sua abitudine di fondare l’invenzione su solidi strati di erudizione (spesso didatticamente supplita in margine al testo stesso e non presupposta) lo stesso genius loci che anima l’eccezionale impresa editoriale e culturale dei Manuali Hoepli: grammatiche di lingue familiari ed esotiche, storie letterarie, dizionari di botanica generale, trattatelli di architettura, di scrittura, di gelsicoltura e bachicoltura, e il Manuale dell’ingegnere, il «Colombo» dalle infinite edizioni.
Dell’ambiente letterario milanese negli anni della formazione gaddiana rileveremo ancora qui (ripresa l’osservazione iniziale) il suo carattere malgrado tutto ottocentesco, corretto da una spolveratura di bohème scapigliata. Voci tipiche sono quelle di Cesare Angelini, Ada Negri, e Carlo Linati, il terzo «saggista accurato e calligrafico», «cultore della parola preziosa nella misura classica di un perenne elzeviro», (5) modello in effetti dell’interscambio possibile tra alto giornalismo e letteratura – la cui importanza per la prosa descrittiva gaddiana non è stata sufficientemente valutata. Vengono alla mente, di Linati, le pagine ben scritte e (ahimè) di profonda umanità di Sulle orme di Renzo e altre prose lombarde – coi «conchieri segaligni», i «rubicondi fittavoli» e la «vita profonda delle gore milanesi», e con tanto gaddiane sentenze del genere di «L’acqua è la sapienza, la moralità della nostra terra». Altro è lo stampo di un grandissimo dialettale, Delio Tessa, quasi coetaneo di Gadda, che malgrado un «bagaglio di letture e di valori affatto ottocenteschi» (Stella, Repossi, Pusterla 1990: 476), e dentro strutture metriche abbastanza tradizionali, costruisce una sua sintassi poetica estremamente franta e parlata nella quale l’«infrazione deformante del dialetto (o del macaronico) è la sola forma espressiva» adeguata all’«imperativo manzoniano di rappresentare il reale dei vili e dei meccanici senza abellimenti retorici». Per Tessa e per Gadda la milanesità letteraria stava tutta nell’opera impegnata moralmente e socialmente di tre grandi di un secolo e più addietro: Giuseppe Parini, Carlo Porta e Alessandro Manzoni.
2. Cenni biografici
Carlo (Emilio) Gadda nasce a Milano, in un appartamento della centrale via Manzoni (la «via Grand Boeuf» di Eros e Priapo, SGF II 347), il 14 novembre 1893, «quattordici giorni avanti la caduta del ministero Giolitti, del primo». (6) «Il mio numero è il 14», dichiarerà Gadda, che non si perita a volte di forzare il vero per adeguarlo al numero portafortuna. La famiglia, la paterna almeno, è cospicua. Il nonno Francesco, figlio di un fornaio di Gorla Maggiore, studia legge a Pavia e consolida la sua ascesa sociale sposando una giovane aristocratica, Paolina Ripamonti. «Pare che alla mia famiglia padreterna – dirà Gadda – appartenesse quel canonico Ripamonti autore delle Historiae Patriae, di cui il noto scrittore lombardo Manzoni loda il bel latino» (Meditazione, SVP 778), e nobili dimore, grandi parchi, silenzi meridiani, elette maniere torneranno spesso nell’immaginario di Gadda, duca o marchese del sogno. Sul forno del bisnonno, kein Wort. Il maggiore dei fratelli del padre, Giuseppe, ottocentesca figura di patriota, è prefetto, senatore e ministro del Regno d’Italia. Lascerà un volume di Ricordi e impressioni (Torino: Roux Frassati e C°, 1899), inteso a risvegliare un «impulso salutare» nei giovini cuori «lieti di spensierata fidanza» (quasi una cadenza di Autunno) – un po’ come farà, nella fictio del nipote, lo zio Agamènnone di San Giorgio in casa Brocchi.
Di soldati e di insegnanti è la famiglia della madre, dalla quale Gadda rivendicherà e sconterà il senso del dovere, la rigorosa disciplina, la germanicità. Cognome e nomi tedeschi, ma origine ungherese, per il nonno Johann Anton Lehr, ufficiale degli Honved, acquartierato da ultimo a Vicenza, e infine funzionario, dopo l’Unità, delle Regie poste. Nonna milanese – Teresa Nava – che Gadda pretendeva far discendere dai Luini pittori. Uno zio insegnante, appassionato di lingue antiche, una zia orsolina bilaureata, un’altra zia orsolina anch’essa insegnante, e uno zio Carlo ragioniere «un poco beoncello, quello: ma molto colto e molto sveglio dans le domaine de la littérature et de la science» (Gadda 1988b: 97) immortalato dal nipote Carlo nel «povero Carlo» delle più belle pagine dell’Adalgisa.
Il padre di Gadda, Francesco Ippolito (1838-1909), buon «signore lombardo, devoto alle memorie di famiglia e inetto agli affari» (Roscioni 1997: 29), è l’outsider di una «dinastia di imprenditori e di ingegneri». La sua attività tipicamente lombarda (di quando la pianura era tutta a gelsi) di negoziant de seda non incrementa né la sostanza, né il benessere dei congiunti. Il figlio ne lascerà, nella Cognizione e specie in Villa in Brianza, un ritratto impietoso e probabilmente ingiusto di benpensante «gentilhomme campagnard» con la passione dell’agricoltura («Soprattutto egli amava l’agricoltura: in tutte le sue forme; che è la ricchezza delle nazioni, la salute degli individui. Frumentone, asparagi, pere butirro, vite, albicocche»). Il principale dei griefs è la costruzione della villa in Brianza (lo scenario della Cognizione), una grossa casa di campagna sulle colline dietro Erba, nel comune di Longone al Segrino, in provincia di Como, che avrebbe dato (sempre secondo il figlio) il colpo di grazia alle dissestate finanze familiari. Francesco Ippolito si accasa una prima volta nel 1866: la moglie, Emilia, muore di parto nove mesi dopo, dando alla luce una bambina, Emilia, cui andranno, sino al suo matrimonio col bresciano Riccardo Fornasini, tutte le cure del padre. Accasata Emilia (la futura «Madonna Ipoteca» di Villa in Brianza), Francesco, che ha allora 54 anni, ne sposa in seconde nozze, nel febbraio ’93, l’insegnante di francese, la trentunenne Adele Lehr. Ne avrà altri tre figli, Carlo Emilio, poi Clara nel ’95, ed Enrico nel ’96. Muore, nella casa di Longone, nell’agosto del 1909, quando cioè Carlo non ha ancora 16 anni.
La madre, Adele, è una eccezionale e scomoda figura di donna. Nata a Verona nel luglio del ’61, allieva, dopo la morte (lei undicenne) del padre, di «una delle migliori scuole femminili d’Italia» (Roscioni 1997: 37), il Collegio Civile Uccellis di Udine (i cui programmi ponevano l’accento sull’insegnamento delle lingue straniere), pressappoco bilingue francese-italiano, Adele frequenta per un periodo a Firenze l’Istituto Superiore Femminile di Magistero, si laurea quindi in lingue a Milano con una tesi su Boileau (non sfugga che siamo nel penultimo decennio dell’Ottocento), e dopo alcuni anni di insegnamento nel Sud e nel Centro, è docente alla Scuola Normale Carlo Tenca. Adele accetterà senza troppo esitare, malgrado le reticenze di Emilia, la proposta di matrimonio di Francesco Ippolito, senza comunque rinunciare dopo le nozze all’insegnamento. Sarà certamente stata Adele, più che il marito, a reggere le sorti della famiglia: «Ferma ed esatta la sua memoria, per lo più viva ed acuta e talora impetuosa l’asserzione. Il racconto, il referto, accompagnato o a volte preceduto dal giudizio»: così la descrive a distanza d’anni il figlio. Il giudizio, a leggere tra le righe, è severo, ma non in disaccordo con altre testimonianze: Cases ad esempio ricorda che la propria matrigna, allieva a Milano di Adele, «ne serbava un ricordo traumatico: era stata terrorizzata da questa donna che evidentemente vessava i suoi allievi, prima ancora di suo figlio» (Andreini & Guglielminetti 1996: 12).
Giustificato o meno dalla realtà autobiografica, il tema delle patite durezze educative, di un’«infanzia tormentata» cui non risere parentes, e di «un’adolescenza anche più dolorosa» occupa, con quello della (molto relativa) povertà, (7) un posto centrale nell’opera di Gadda. Dei primi anni registreremo le classi elementari comunali, il liceo, al «Parini», come i due fratelli, dove nel ’12 consegue brillantemente la maturità, e la frequenza, dai diciott’anni, alla biblioteca del Circolo Filologico (rievocata come s’è detto sopra in un disegno dell’Adalgisa). Quindi, l’iscrizione all’Istituto Tecnico Superiore (poi Politecnico) per degli studi di ingegneria industriale elettrotecnica, una scelta professionale a cui molto lo predisponeva, ma interpretata a posteriori come un’ulteriore sopraffazione della famiglia (cioè della madre) sull’inclinazione alle belle lettere ed alla filosofia.
Poi, ad interrompere gli studi, la Grande Guerra, auspicata da Gadda con entusiasmo patriottico, e la terribile esperienza al fronte, nel 5° Reggimento Alpini, dove la realtà fa giustizia di ogni illusione vitalistica o estetica o efficientistica, sino a Caporetto ed alla prigionia in Germania, a Rastatt e nel Campo di Celle, dove conoscerà tra gli altri Ugo Betti e Bonaventura Tecchi. (8) Rimangono, di quegli anni traumatici («vita fangosa», «squallore spirituale», «paralisi della volontà e del desiderio», «tedio e amarezza»), in cui lo spirito è annientato dal «pasticcio» e dal «disordine», il prezioso Giornale, e la splendida rievocazione postuma del Castello di Udine. Al ritorno a Milano, dopo la vittoria, nel gennaio ’19, Gadda apprende la «perdita del fratello Enrico, caduto nel ’18» (cupissimi gli stati d’animo registrati nel Giornale: «Orrore nelle ore di sera e di notte, nel sole, e sempre. Nessuna sosta al dolore. Nessuna emozione per l’Italia e le cose. Nessun sogno per il futuro»), e faticosamente si riinserisce nella normalità, riprendendo gli studi di ingegneria, e seguendo corsi di inglese al Circolo Filologico. Si laurea il 14 luglio 1920 (ancora un 14!), e comincia una prima girandola d’impieghi volutamente provvisori: quattro mesi in Sardegna, alla Società Elettrica Sarda, poi, tornato a Milano, alla Società Lombarda per la Distribuzione di Energia Elettrica (la Compañía de Distribución della Cognizione; ma si veda la nota dell’Adalgisa, RR I 341) e alla De Kümmerlin (impianti di riscaldamento). Si iscrive intanto, nel dicembre ’21, all’appena creato PNF, sedotto, come molti altri, dal «mito vitalistico dell’energia e della giovinezza» (Roscioni 1997: 187), ma il suo attivismo sarà molto relativo; pubblica nella milanese conservatrice Perseveranza (di cui era fedele lettore il padre) il suo primo articolo tecnico, sul problema idroelettrico, e si immatricola in filosofia presso l’Accademia Scientifico-Letteraria milanese.
Nel ’22 matura la decisione del primo grande viaggio: accettata la proposta di un ben retribuito lavoro in Argentina presso la Compañía general de Fósforos, Gadda si imbarca a Genova il 30 novembre sul Principessa Mafalda, «vettore di migrabondi destini» (gli addii e la traversata sono rievocate in uno studio imperfetto della Madonna dei Filosofi e in una prosa delle Meraviglie d’Italia). Luoghi, toponimi, e soprattutto battute linguistiche («Permítame, señor ingeniero…») entreranno, quindici anni dopo, a costituire il travestimento geografico della Cognizione. (9) Ma nel febbraio del ’24 Gadda è di nuovo in Italia, a Milano e a Longone, e accantonata temporaneamente la professione (si manterrà con una supplenza annuale di matematica e fisica al «Parini» e con lezioni private), riprende gli studi di filosofia e tenta, attirato da un concorso Mondadori, l’avventura del romanzo. Si apre il gran cantiere del Racconto italiano del novecento, pubblicato postumo nel 1983, e consegnato, con la contigua Apologia manzoniana (che dal canto suo apparirà nel ’27 in Solaria), ad un Cahiers d’études, di cui Gadda attingerà nel seguito, inesauribilmente, i materiali.
Fallito il miraggio del Premio Mondadori, s’impone la ripresa del lavoro ingegneresco. Per circa un decennio, che vedrà tuttavia il quasi-completamento degli studi di filosofia con la redazione della tesi (non sostenuta) su Leibniz, la pubblicazione dei due primi libri, La Madonna dei Filosofi (1931) e Il castello di Udine (coronato nel ’34 dal Premio Bagutta), la stesura (tra il ’28 e il ’29) della Meditazione milanese e della Meccanica, così come di numerosi articoli in quotidiani e in riviste, e l’instaurarsi di tutta una serie di legami con l’ambiente letterario (Linati, Angioletti, Bonsanti, Montale, ecc.), Gadda sarà per davvero professionalmente in primo luogo l’«Ingegner Gadda». Dal ’25 sino al ’31 (con una interruzione nel ’28-’29 per una malattia gastrica: cfr. Cognizione, RR I 600-01: «Nel 1928 si era detto dalla gente […] che egli fosse stato per morire, a Babylon [= Roma], in seguito alla ingestione d’un riccio […]») Gadda è assunto dalla Ammonia Casale (a Roma, ma con frequenti trasferte su cantieri in altre regioni italiane, o in Francia, Germania e Belgio – cfr. Gadda 1982c), e quindi, sino al maggio ’34 ai Servizi tecnici del Vaticano per sovrintedere alla costruzione della centrale elettrica (redigerà, anonimamente, il volume descrittivo). È sempre nel maggio del ’34 che Gadda conosce a Roma Gianfranco Contini, il suo futuro critico, a cui lo legherà una durevole amicizia. Nel ’29 la sorella Clara sposa il cinquantaquattrenne cav. Paolo Ambrosi, il «gentiluomo campagnardo», «normale produttore d’acido urico, addoppiato d’un normale collezionista d’idee fisse» di cui Gadda tratteggerà un atroce ritratto nei paragrafi finali di Come lavoro (SGF I 441-43).
Nell’aprile del ’36 muore settantacinquenne a Milano, nell’appartamento di Via S. Simpliciano, la madre Adele. «La perdita della mia Mamma», Gadda scriverà agli amici in lettere di quelle settimane, «mi ha lasciato in una disperata solitudine», «in un grande dolore e in una disperata solitudine»; «mi ha completamente stroncato». Ma gli atti successivi del figlio intendono liquidare il passato, e in particolare i due points de repère della vita familiare, l’appartamento milanese e la villa di Longone. Verso la metà del ’37, riesce la vendita della casa di campagna (nel frattempo visitata dai ladri: «nelle ore del giorno, sicché non posso prendermela con la Sorveglianza notturna. Vorrei avessero rispettato le mie carte, i miei libri»: (10) i temi della Cognizione sono così tutti disponibili). Nonostante i proclamati sollievo, e gioia, e liberazione, gli stati d’animo dominanti sono il sentimento di colpa nei confronti della madre, il rimorso, la disperazione: «l’immagine di Lei vecchia e senza aiuti mi ritorna e oltre tutto un indescrivibile rimorso mi prende per i miei scatti, così inutili e così vili. Io ho troppo sofferto e certo non ero padrone di me, ma ciò non toglie che la mia angoscia sia ora grandissima», (11) «La nevrosi che ho dominato (come ho potuto) per anni e anni è nuovamente esplosa: il ricordo di mia madre è diventato una ossessione. Tutti i nodi vengono al pettine, e, orribile fra tutti, il rimorso». (12) La stesura dell’autobiografica Cognizione, iniziata nei primi mesi del ’37, che sul tormentoso rapporto con la madre è incentrata, è anche un redde rationem col passato: requisitoria, confessione, apologia.
Del rimanente degli anni gaddiani, poveri di accadimenti biografici di rilievo (l’ingegneria è definitivamente abbandonata), basterà una rapidissima rassegna. Viene da prima un decennio fiorentino, dal ’40 al ’50 – «gli anni belli, quand’era venuto il bello» (la doppia allusione varrà per l’emergenza del luglio ’44, le peregrinazioni dello sfollato nella campagna attorno a Firenze, e le gravi difficoltà economiche): un decennio che vede Gadda legato a Montale, Bonsanti, Landolfi, Delfini, G. De Robertis, Bo, Santi, Traverso e Vittorini, e la intensa collaborazione a riviste e quotidiani. In questo periodo malgrado tutto straordinariamente produttivo escono nel ’43 da Parenti di Firenze (che nel ’39 aveva stampato l’analoga raccolta saggistico-elzeviristica delle Meraviglie d’Italia) le prose degli Anni e nel ’44, da Le Monnier, i disegni milanesi dell’Adalgisa, seguiti due anni dopo, in Letteratura, dai primi cinque capitoli dell’altro capolavoro, il Pasticciaccio.
Nell’ottobre del ’50 Gadda si trasferisce a Roma, dove grazie alla mediazione di Angioletti era stato assunto come praticante giornalista alla RAI. Passerà nel ’52, divenuto professionista, al Terzo, rimanendovi sino al giugno ’55, quando si dimette per completare su invito dell’editore Garzanti il Pasticciaccio – che uscirà nel ’57, seguito l’anno dopo da I viaggi la morte. Nel frattempo era stato pubblicato da Neri Pozza il Primo libro delle Favole (1952) e da Vallecchi le Novelle dal Ducato in fiamme (1953). Dopo il grande successo del Pasticciaccio e la mal tollerata notorietà, Gadda, stanco, malato, si ritira nel volontario esilio della periferia romana (un modesto appartamento di via Blumenstihl), da cui curerà ma soprattutto lascerà curare la riedizione di volumi o scritti dei decenni precedenti. E la sorte vorrà che le estreme pagine di grande impegno prima del silenzio degli ultimi anni siano l’apologia di Gonzalo e di se stesso (L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore) premessa nel volume einaudiano del ’63 alla recuperata Cognizione – pagine chiuse dalla desolata aspirazione (la stessa che, protestando contro il «bisturi» di Moravia, Gadda aveva attribuito a Manzoni) ai «due farmachi restauratori della affranta sua lena, dello spento desiderio di vivere: questi farmachi hanno un nome nella farmacologia della realtà, della verità: si chiamano silenzio e solitudine» (RR I 764).
Morirà a Roma il 21 maggio 1973.
3. La formazione dello scrittore: diario, meditazione, narrazione
Se i primissimi esercizi (conservati) sembrano esser stati come non è inusuale poetici (del ’15 è la lirica whitmanniana O mio buon genio, divino ed umano, aereo Ariel), le forme proprie all’invenzione gaddiana, entro le quali essa tende a disporsi (o vuole disporsi) sin dai primi anni, sono prosastiche e dai confini elastici: da una parte la meditazione, vale a dire il trattatello filosofico e comunque speculativo, e dall’altra il romanzo o racconto lungo, la narrazione insomma. Pure, né la meditazione né il romanzo condurranno – e questo è un po’ il paradosso gaddiano – a risultati compiuti e soddisfacenti in termini tradizionali, e la sintesi tentata in extremis sarà, come vedremo, un romanzo-meditazione sulle sorti non progressive della società italiana, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Ma, andando con ordine, converrà dire che all’inizio non solo cronologico di tutta l’opera di Gadda sta una terna di testi, il primo – il Giornale di guerra e di prigionia – in certo senso propedeutico, e gli altri due, in ordine di stesura il Racconto italiano di ignoto del novecento, e la Meditazione milanese, divaricati nelle forme che i titoli dichiarano.
Il Giornale, affidato a sei quaderni di cui il terzo perduto, (13) è la minuziosa registrazione degli accadimenti esterni e degli stati d’animo dell’Autore tra il 24 agosto del ’15 (Gadda, nominato sottotenente, era allora stato trasferito da pochi giorni al Deposito di Edolo per seguirvi il corso d’istruzione) e il 31 dicembre del ’19, con un’ultima desolata annotazione, dopo il congedo di alcuni mesi prima, e la conclusione del vero diario: una annotazione che constata l’impossibilità futura di ogni diario: «Non noterò più nulla, perché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo». Alla lettura, colpisce innanzitutto, in questo straordinario documento di un ventiduenne, l’assoluta padronanza, in una scrittura che pure nasce impromptus, degli strumenti espressivi e il totale dominio intellettuale sulle situazioni rappresentate (quelle immediate, almeno, perché l’assolutizzazione dell’Idea di Patria preclude al giovane Gadda la ratio politica e sociale). Chiarezza, concisione, precisione, icasticità conferiscono alla pagina una forza tranquilla, senza traccia di maniera letteraria – cosa che non si potrà sempre dire degli scritti d’invenzione. Si pensi, per dare una coppia di esempi minimi, a come sono tradotte, nel paragrafo d’apertura, le condizioni di redazione dello stesso diario:
Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come viene viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè. Scrivo sul tavolino incomodo della mia stanza, all’albergo Derna, verso le una e mezza pomeridiana. Le imposte chiuse e i vetri aperti mi lasciano entrare l’aria fresca e quasi fredda della montagna, i rumori dei trasporti e le voci della gente: mi impediscono la veduta di un muro, che si trova a due o tre metri in faccia e in cui non figurano che finestre chiuse, e delle rocce del Baitone.– (SGF II 443),
o alla descrizione sostantivale di un «fuoco di fucileria notturno»:
Crepitio di fucili, in aumento, razzi verdi nella pineta, qualche razzo rosso nostro, fuoco di mitragliatrice intermittente, sibilo di shrapnel[s] che di notte scoppiano con un bagliore rosso-livido, qualche fragore di bomba a mano: aumento, maximum, decrescenza. (SGF II 553)
Alla registrazione accurata, alla misura quasi degli accadimenti esterni (cfr. SGF II 532: «Gli ufficiali sono quattro, il capitano e tre comandanti di sezione, gli uomini 127 (uno manca ancora) e i muli 41. Abbiamo inoltre quattro carrette da battaglione leggere») si intercalano, come accadrà nel seguito indipendentemente dalla forma testuale scelta, momenti riflessivi e commentativi, i quali accolgono le stazioni di una autoanalisi senza compiacenze (diligenza, rigore, senso del dovere, spirito di sacrificio – avidità di cibo e «indigestioni bestiali», come poi Gonzalo nella Cognizione – abulia, paralisi volitiva, ipersensibilità, iperreattività ad ogni insufficienza ambiente e ad ogni malvolere), e i giudizi, severi sul carattere degli italiani, sulla guerra, le sue ragioni, la sua condotta, sui soldati, sui comandanti. L’incuria e il pressapochismo degli italiani, questa «razza di maiali, di porci» (SGF II 574), e il conseguente disordine sono causa di «rabbia» e «disperazioni indicibili» (SGF II 597):
Che porca rabbia, che porchi italiani. – Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tener ordinato il proprio tavolino da lavoro? a non ammonticchiarvi le carte d’ufficio insieme alle lettere della mantenuta, insieme al cestino della merenda, insieme al ritratto della propria nipotina, insieme al giornale, insieme all’ultimo romanzo, all’orario delle Ferrovie, alle ricevute del calzolaio, alla carta per pulirsi il culo, al cappello sgocciolante, alle forbici delle unghie, al portafogli privato, al calendario fantasia? Quando, quando? (SGF II 574)
Alla preziosa propedeutica di questa scrittura di cose, senza manierismi o espressionismi linguistici (tranne in qualche ghiribizzo o asineria e in un breve pastiche in italiano antico (14) – un fatto di cui si riparlerà) seguono, come si era annunciato, prove di genere molto diverso, all’insegna, la prima, di una forma tipicamente ottocentesca di letterarietà: il romanzo. Anzi, già nell’agosto del ’18, in contemporanea col Giornale e in uno dei suoi vuoti, veniva composta in nove giorni nel campo di Celle la prima prosa narrativa, quella Passeggiata autunnale (15) (espressivamente molto debole, perché condotta in un registro di melensa letterarietà scolastica: «Stefano raggiava dal viso ciò che può emanare da un animo profondo e puro, da un corpo di ferro, a diciott’anni. Nerina, Marco, la mamma erano arridenti divinità nel primo cielo dell’alba, e quando i culmini più alti fiammeggiano e c’è ancora nel settentrione una stella», RR II 931) che anticipa uno dei caratteristici legami d’amore sbilanciati, qui tra una signorina e un ragazzo del popolo, dei successivi tentativi narrativi. Il primo serio cimento letterario, che le note biografiche del paragrafo precedente hanno collocato al ritorno dall’Argentina, nel ’24, è comunque il Racconto italiano di ignoto del novecento, (16) un tentativo di romanzo (malgrado il titolo) che fu lasciato interrotto in fase totalmente magmatica. Quel che rimane, più che un torso, è un conglomerato di note, che «riguardano la sistemazione dell’opera», e di «studî», «tentativi di composizione», «pezzi di composizione», «pezzi di prosa del romanzo» (SVP 393). Le note a loro volta sono divise in note compositive, sull’architettura del romanzo in fieri, e in note critiche, di livello metacompositivo. Cosa Gadda avesse davvero in capo, oltre al «desiderio di scrivere “poeticamente”» è difficile asserire con certezza. L’intento sembra però esser stato in primo luogo latamente filosofico: fornire un exemplum letterario di una sua idea (non tanto peregrina come idea, ma nata comunque dalla personale sensazione di «annegamento nella palude brianza», SVP 396) sull’influsso a volte esiziale che l’ambiente esercita sul destino dell’individuo: sulla «tragedia delle anime forti che rimangono impigliate in questa palude», la tragedia, più specificamente, «di una persona forte che si perverte per l’insufficienza dell’ambiente sociale» (SVP 397). A sua volta il pervertimento dell’individuo che per colpa della palude sociale diventa uno spostato, un ex lege, serve nel Racconto a (di)mostrare, grazie alla eccezione rappresentata dall’abnorme, la norma stessa, che l’eccezione appunto fonda in quanto norma, assicurando al sistema (sociale) il necessario equilibrio. Il tutto è un po’ oscuro, certo, ma lo ammette anche l’Autore. Concretamente, poi, dopo queste belle premesse, la «favola» (questo il termine gaddiano) mette in giochi, figure e accadimenti che per quanto nelle note molto acutamente ragionati rimangono implausibili, e sanno troppo d’invenzione romanzesca. Un «volitivo» giovine fascista milanese, Lampugnani Grifonetto (il nome incrocia gli ariosteschi Grifone e Sansonetto), comanda una spedizione punitiva in una «osteria-circolo sovversivo». Un aggredito «si difende eccessivamente, selvaggiamente e costringe alcuni squadristi ad ucciderlo [sic]. Grifonetto, a sua volta aggredito, si difende terribilmente ma non uccide. Devastato il circolo-osteria si ritirano» (SVP 399). Grifonetto verrà arrestato benché «non colpevole», condannato, poi liberato, e dovrà per qualche tempo esiliarsi (tra l’altro, guarda caso, in Argentina). Il secondo cardine della trama dovrebbe essere il legame d’amore, naturalmente squilibrato, tra Grifonetto e una damigella Maria de la Garde. Respinto dalla famiglia di lei (famiglia ricca ed onorata), Grifonetto, ormai un vero ex lege, la uccide e forse si uccide, secondo uno degli sviluppi possibili. Altri personaggi vengono ipotizzati, di antagonisti (socialisti o anarchici), di comprimari neutri (alcuni dei quali francamente autobiografici, come l’«abulico Gerolamo Lehrer», che «fa il commento filosofico», SVP 410), e di varie donne e fanciulle. Si intuisce da questi accenni che alle ambizioni filosofiche dell’opera difetta il fondamento di una trama adeguata. Alla debolezza della trama sopperisce solo in parte il Leitmotiv (milanese, secondo quel che s’era detto sopra) del «lavoro italiano» (un lavoro che le «forze eversive» minacciano): cantieri, grandi progetti (centrali, linee ad alta tensione), il contributo dei singoli all’Opera, nella loro dedizione alla Idea ideatrice ed al Dovere. Tolti alcuni frammenti di composizione (del resto variamente riutilizzati, in particolare nel tentativo, fallito, intitolato Notte di luna, del 1930-31), la sezione più notevole del Racconto è quella delle note compositive e critiche – sulla rappresentazione ab interiore e ab exteriore, sull’«intuizione di intuizione», ecc. – che pure senza proporre novità assolute (le Prefazioni di H. James erano già storia) testimoniano d’una intelligente riscoperta personale delle problematiche tecniche del mestiere di scrivere.
La seconda prova di grande impegno, dopo la narrazione fallita del Racconto, è la Meditazione milanese del 1928, (17) composta subito dopo la cosiddetta «novella prima» destinata a Solaria: La maliarda, o La maliarda ereditiera, e poi La Madonna dei Filosofi(18) (Gadda aveva già pubblicato in Solaria l’Apologia manzoniana, I viaggi, la morte, Teatro, Cinema), e appena prima della Novella 2a-Dejanira Classis e della Meccanica, prima quindi di due altre altrettanto impegnative escursioni sul terreno del romanzesco. La memoria filosofica della Meditazione, molto poco accademica, perché percorsa da continui provvidenziali soprassalti espressivi, nasce in margine alle letture ed agli appunti per la tesi in filosofia sui Nouveaux Essais leibniziani. Nasce, specificamente, come tentativo d’elaborare o semplicemente fissare alcuni «pensieri», alcune reazioni critiche rispetto a temi del secolare dibattito filosofico: il problema del male (come per il protagonista della Cognizione: «E c’era, per lui, il problema del male», RR I 607), il concetto di causa (come per il protagonista del Pasticciaccio, RR II 16: «L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa”»), la chiusura o non chiusura dei sistemi, ecc.; il tutto inquadrato entro le tematiche superordinate della nozione stessa di sistema e del discorso sul metodo. Non si può pretendere da un laureando, per geniale che sia, una rifondazione della disciplina: la Meditazione (valutata filosoficamente con severità da Guido Lucchini) (19) non è un contributo scientifico, ma un documento personale, di ricerca filosofica ed espressiva ad un tempo, che tende alla letterarietà esattamente come le invenzioni letterarie gaddiane tendono al filosofico. Qui un mini-esempio caratteristico, tratto da uno sviluppo sul «punto difettoso» di ogni sistema (filosofico), cui solo le scienze sembrerebbero sottrarsi:
ciascuna scienza pone da sé i suoi termini, belli, lindi, certi, finiti, ben pettinati, indiscutibili, senza perplessità, senza angosce, senza nuvolaglie filosofiche e circondata da così indiscutibili e ben pettinati perché, siede Regina del mondo. Guai però se qualche maligno pisano, o non pisano, sorge a imbrogliare le cose. Allora gli scienziati diventano peggio dei filosofi, e i calamai che volarono al Concilio di Trento fra i dottori o patrocinanti di diverse tendenze, sono pallottole di carta e di mollica in confronto ai proietti che si scagliano i cultori delle «scienze positive» quando un osso li divide in partiti – con occhî bieci e più che bracia rossi [sono i «duo cani mordenti» di Orlando furioso, II, 5]. (Meditazione, SVP 740-41)
Sempre più riluttante ad ogni sistematicità, Gadda preferirà negli anni successivi evitare i vincoli logici ed espositivi del saggio filosofico. I temi toccati nella Meditazione costituiranno comunque la tela di fondo di opere sempre più composite, che tentano forse inconsapevolmente una sintesi, come s’è accennato sopra, tra la tendenza logico-speculativa e quella analogico-inventiva. Per il momento, comunque, nello stesso anno mirabile 1928, così straordinariamente produttivo, la direzione sarà ancora quella del romanzo, e del romanzo di costruzione abbastanza tradizionale. Da prima l’abbozzo – una quarantina di pagine a stampa – della Novella 2a (seconda dopo la Madonna dei Filosofi), (20) ispirata ad un fatto di cronaca nera milanese, il matricidio commesso dal giovane Pettine. Rimangono, di questa premonitrice vicenda di un drammatico rapporto madre-figlio (che rinuncia, come la Cognizione, al delitto, «troppo disgustoso»), la preistoria della madre, e due brevi scene. Quindi, negli ultimi mesi del ’28 e nei primi del ’29, il romanzo breve della Meccanica, uno dei rari casi di quasi-finito gaddiano (solo i tre capitoli finali rimangono in una stesura preliminare, e al resto non fa difetto che l’ultima politura), e oltretutto un vero romanzo – il quale come tale non vedrà la luce se non nel ’70, un anno prima della Novella, e con la stessa cura editoriale di questa. (21) La vicenda della Meccanica, ambientata in una Milano alla vigilia dell’Intervento, e sui campi di battaglia, ribadisce uno degli stereotipi gaddiani: la liaison della bella popolana (veneta trapiantata) Zoraide, (22) moglie insoddisfatta d’un operaio socialista minato dalla tisi, il Lüisin gramm (= chétif, mingherlino, malaticcio), col giovine stallone di buona famiglia, al quale naturalmente va la simpatia genesica dell’Autore. Tacciamo del resto, in particolare del finale pesantemente macabro.
La relativa compiutezza della Meccanica rende più percepibile uno dei peccati originali della narrativa gaddiana: l’ingenuità, e anzi a volte la goffaggine della fabula e di molte situazioni di una troppo romanzesca realtà. Col senno del poi è facile riconoscere, parlando più in generale, che la natura sterniana o se si preferisce dossiana dell’invenzione era, in Gadda, poco compatibile col rigore geometrico richiesto dalla costruzione di una trama elaborata, che deve sacrificare il dettaglio alla perspicuità dell’insieme. Ma Gadda insisterà a lungo, ottemperando forse alle pressioni vere o presunte del sistema delle patrie lettere, a perseguire un romanzesco tradizionale, così come faticherà a rinunciare, sul piano dello stile, al registro un po’ enfatico della tradizione alta. La soluzione più consona al temperamento dell’Autore, che non poteva contentarsi della referenzialità di un giornale, era invece la forma almeno parzialmente aperta, non sottoposta alle necessità diegetiche del crescendo e dello scioglimento: una forma che potesse essere interrotta ovunque, che fosse composita – racconto (e meta-racconto), saggio e confessione – e composita anche stilisticamente (per ovviare alla tentazione del grande stile e dell’eccesso di comico e di ironico), e in grado infine di integrare i materiali più disparati. Il Pasticciaccio, che tende a momenti alla enciclopedia, si approssimerà a questa sorta di forma-omnibus. E può darsi che nel carattere di raccolta di buona parte dei volumi effettivamente pubblicati vada visto il recupero, a livello dell’architettura complessiva, di un certo grado di libertà formale.
Un ulteriore problema pone alla Meccanica e in generale nella narrativa gaddiana degli inizi l’invadente registro comico (l’etichetta di umorista avanzata dalla prima critica non era, malgrado la reazione irritata dell’autore, del tutto fuorviante). Questo comico gaddiano potrebbe complessivamente essere definito di travestimento, e più precisamente di travestimento estraniante. A volte il travestimento, allora puramente linguistico, nasce dall’antitesi tra la situazione descritta e la formulazione adottata: un registro formale veicolerà un contenuto banale (ad esempio una lezione privata di elementare geometria ad una ginnasiale sprovveduta, come nell’inizio di Cinema:
Bisognava concludere. Manifestai alla contessina Delrio ciò che sentivo di non poterle dissimulare più a lungo. Si rassegnasse all’idea: le diagonali del parallelogrammo si secano nel loro punto mediano. E non è tutto: esse ne dividono l’area in quattro triangoli equivalenti, (RR I 51)
anche se qui in una certa misura l’innalzamento di tono è un ironico adeguamento formale allo statuto sociale della contessina), o viceversa un registro molto colloquiale verrà applicato ad un contenuto elevato. Di questo secondo genere è ad esempio la finzione del narratore incolto dell’incipit della Madonna dei Filosofi (si notino nella seconda frase i dati semidialettali di banda – parte – e dell’assenza di preposizione nel circostanziale; di passaggio si registrerà però che la topografia fittiva rispetta scrupolosamente la reale, quella della «Strada a la valada» che da Cuggiono scendeva a Castelletto e poi alla vallata del Ticino):
Mi rincresce di cadere nel convenzionale, ma è proprio andata così. Metà strada fra Boffalora e Turbigo c’è una strada che traversa: e da una banda […]. Voltando e salendo di lì, si arriva col fiato grosso a una torre […]. Questa bicocca la chiamano Castelletto e anche sulla guida del Touring c’è Castelletto, da non confondersi con l’altro Castelletto sul Naviglio Grande, fra Abbiategrasso e Gaggiano. (RR I 71)
Altrove, come in Teatro, un racconto della Madonna dei Filosofi, ad essere travestita è la situazione stessa, una sorta di concentrato delle convenzioni e delle inverosimiglianze dell’opera lirica rossiniana e verdiana: essa viene vista dall’occhio di uno spettatore del tutto sprovveduto, un autobiografico ingegnere elettrotecnico (RR I 12), che guarda senza capire e per di più a tratti si appisola.
Nella Meccanica (e altrove) può accadere che l’ironia si eserciti nei confronti di un registro dannunziano di cui nel testo viene utilizzata, non so quanto ironicamente, una variante:
Di quel tristo specchio l’immagine femminea di Zoraide risfolgorava per i più cupi romanzi: un d’annunziano in ritardo ci regalerebbe seduta stante il suo spropositato capolavoro. Difatti, nel ravviarsi che fece, il suo corpo era passato dall’aspetto squisito della pacatezza, cui, con un lieve respiro, s’era abbandonata ricamando, a una linea di fierezza fisica da dar dei brividi a un cane. Serrati i talloni, alle caviglie tendinee succedeva la simmetria delle gambe dentro la calza attillata, cui [= che] sapienti muscoli rendevano vive per ogni spasimo e amoroso soccorso. Poi una corta gonnella, corta per la miseria, non per la moda: e non faceva mistero di quel che celasse. Erano le proposizioni vive dell’essere, compiutamente affermate, che rendono al grembo come una corona di voluttà deglutitrice: fulgide per latte e per ambra si pensavano misteriose mollezze da disvelare per l’elisia e impudica serenità del Vecellio, con drappo di dogale porpora, e d’oro […]. (Meccanica, RR II 471)
Nel seguito il comico gaddiano muterà (per fortuna) progressivamente di carattere, evolvendo verso un grottesco bachtiniano: verso il riso che «affranca da tutte le forme di necessità inumana che aderiscono alle idee dominanti sul mondo» (così Bachtin), che intacca l’«aspetto serio, incondizionale, perentorio» del dover essere sociale, che carnevalizza il reale, aprendogli possibilità alternative di licenza liberatoria. La matrice di questo comico-grottesco è ricondotta da Gadda ad un suo mito personale: lo scontro tra forze originarie, incorrotte, vere, tra una ipotizzata voce profonda dell’umanità, da una parte, e dall’altra la baroccaggine (anche estetica) e falsità delle parvenze, delle convenzioni sociali, dei comportamenti.
Di tutto questo strenuo progettare gaddiano che si è descritto emergono alla superficie – «terre emerse», come sono state chiamate (23) – solo isolati spezzoni in riviste (Solaria) e in quotidiani (il milanese Ambrosiano), specie nel ’31 e nel ’32, e la scelta più o meno omogenea dei due volumi del ’31 e del ’34, entrambi nelle Edizioni di Solaria: La Madonna dei Filosofi (tiratura di 200 esemplari numerati più poche centinaia di copie destinate alla vendita) (24) e Il castello di Udine (tiratura analoga). Fino alla fine degli anni Quaranta, quando nel ’39 appariranno Le meraviglie d’Italia (seguite nel ’43 da Gli anni), Gadda sarà lo scrittore, del tutto sconosciuto al grande pubblico, di due volumetti (compositi) a diffusione confidenziale. Che il Castello sia stato subito recensito da un linguista come Giacomo Devoto e da un critico come Gianfranco Contini è un fatto per noi, ora, estremamente significativo ma di scarso rilievo nel contesto d’allora.
Ciò non toglie, comunque, che il Castello di Udine (25) (molto più della Madonna) sia l’opera (pubblica) in cui si manifesta per la prima volta il segno del grande scrittore. Il volume, quadripartito – Il castello di Udine, Crociera mediterranea, Polemiche e pace e Polemiche e pace nel direttissimo – con una appendice, raccoglie al solito interventi eterogenei già anticipati in sede soprattutto giornalistica. Ma se i reportages crocieristici sono di diseguale interesse («Entrai nella trattoria “Alle Venete” dove mi largii un caffè-espresso veramente encomiabile»), come del resto le ultime due sezioni, le cinque prose raccolte sotto l’emblema del Castello condensano e trasfigurano in pagine bellissime le notazioni analitiche del Giornale, col diffuso contrappunto metatestuale delle note d’autore ad equilibrare il patetico del testo. La frantumazione in brevi periodi tipica ad esempio del registro grave e simbolico dell’Apologia manzoniana cede qui (dopo la prima prosa) ad una mirabile varietà e sprezzatura stilistica, che sembra ispirarsi a momenti ad un modello latino di laconicità (Cesare è del resto espressamente citato). Il «risultato finale, l’atmosfera complessiva», come è stato osservato, «si raggiunge attraverso i continui contrasti di rapporti stilistici»: (26)
Il rabido rinculo degli affusti, il pronto ricupero, le vampe laceranti la notte, la sùbita impennata di qualche mulo nevrastenico nello schianto e nel lividore improvviso, i gargarismi lontani e immortali delle autocolonne, fino all’alba! (Dal castello di Udine verso i monti, RR I 150)
Vigili angoscie dominarono la mia guerra, nonostante il bere, il mangiare, il concupire vanamente e il ristoro de’ pediluvi: soffrii per gli altri e per me, teso con tutti i nervi nella speranza, e quasi in una continua preghiera. Vigili angoscie dominarono la mia guerra, una cieca e vera passione. (Impossibilità di un diario di guerra, RR I 136)
è evidente che son fuori del seminato. Perché sono ancora capace di odio contro chi denigrò, tramò, vilipese, indebolì, seminò scàndalo e scismi: e contro chi non pensò, non vide, non predispose, non capì, non sentì, non curò. Sono un tal tànghero che odio più i traditori dei nemici: gli àsini quanto i nemici. (RR I 142)
La «sostanza espressiva», dunque, appare nella sezione iniziale del Castello di Udine (forse per la prima volta) «regalmente signoreggiata e unificata».
4. La «tragica autobiografia» della Cognizione del dolore
Dallo sfondo della lunga serie di scritti (tutto sommato minori) che occupano Gadda negli anni ’34-’39, alcuni dei quali entreranno comunque nelle Meraviglie d’Italia del ’39, si staccano le prime puntate in Letteratura del primo grande testo narrativo della maturità, la Cognizione del dolore. La Cognizione, il libro di Gonzalo, e di Carlo Emilio, quello, secondo assicurazioni degli ultimi anni, «più caro» all’Autore, è senza dubbio il più autobiografico della volentieri autobiografica opera gaddiana. «La sua essenza – scriverà Gadda in una lettera a Contini del ’63 (Gadda 1988b: 103-04) – il movente vero, è un disperato tentativo di giustificare la mia adolescenza di “destinato al fallimento dallo egoismo narcisistico e follemente egocentrico dei predecessori, dei vecchî, e degli autori de’ miei anni in particolare”». Libro in una certa misura pratico, dunque (provocato, e funzionale, alla stregua di gran parte dell’opera gaddiana), apologia d’una vita mancata dopo una «inesistita giovinezza», nella quale s’esprimono «l’amarezza, il dolore disperato, lo scherno [patito], la carità, la speranza; e, incancellabile, il richiamo della terra». (27)
Iniziata nei primi mesi del ’37 (e mai completata), un anno circa dalla morte della madre, pubblicata parzialmente a puntate (sette) nella rivista fiorentina Letteratura tra il ’38 e il ’41, (28) e come tante imprese gaddiane utilizzata poi come magazzino per le nuove ricombinazioni del momento, (29) la Cognizione del dolore (il cui titolo riprende una espressione di A. Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione) appare per la prima volta in volume nell’aprile del 1963 in un «Supercorallo» Einaudi (frutto della pazienza e del savoir faire di Gian Carlo Roscioni), ed in versione ampliata ma pur sempre incompleta sette anni dopo. Il «Supercorallo» del ’63 si apre con una doppia guida alla lettura: un Saggio introduttivo di Gianfranco Contini, e uno pseudo-dialogo apologetico (L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore) di mano dell’autore, chiuso da una lunga nota extravagante in corpo minore. Il romanzo vero e proprio è poi sempre il torso di romanzo, lirico-umoristico-filosofico, di Letteratura, in cui, stavolta, a palliare l’incompletezza della seconda parte viene recuperata un’ancòra più antica poesia ironico-elegiaca (le «Tàcite immagini della tristezza», in effetti, vi convivono con «la scatola di sardine – anteguerra»), Autunno, (30) una divagazione sui luoghi e la stagione del romanzo, di nuovo conclusa in corpo minore da una lunga nota di chiarimenti. L’aggiunta, nel giugno ’70, di due capitoli inediti posposti ad Autunno, e gli ulteriori aggiustamenti intervenuti nella V e VI edizione del giugno ed agosto ’71 attenuano solo in parte l’incompiutezza e l’irregolarità formale – caratteristiche che possono essere intese anche come modernità del testo.
Questa incompiuta e irregolare Cognizione in volume è subito diventata un libro-culto (i temi toccati – il Male di vivere, la Colpa, il Rimorso, l’Insipienza dell’Io, il Possesso, ecc. – vi si prestavano del resto singolarmente), certo il libro di Gadda più amato, se non addirittura, per molti lettori, il capolavoro. Al centro del romanzo sta, malgrado l’elaborata fictio di cui diremo (e in particolare il gioco narrativo e linguistico, che varia e alleggerisce un quadro altrimenti monocromo), il dramma di un individuo, Gonzalo («bel nome della vita»), malato nell’anima di un «male oscuro» che ne fa un misantropo radicale, spregiatore degli altri, di se stesso, di quasi ogni parvenza del mondo (anche delle apparentemente innocenti: il ghiaietto, la beola, le robinie). L’eziologia del male, per quanto oscuro, non è nuova. Gonzalo, acquainted with grief per le durezze educative patite, le ristrettezze economiche, la morte del padre, e, in guerra, del fratello, si sente oltraggiato, respinto, dalla vita, e reagisce, a difesa, con un rifiuto simmetrico, rifiutando tutti gli altri – i quali sono a volte unicamente colpevoli, in ultima istanza, di non aver conosciuto il «lento pallore della negazione» (RR I 703). L’irreprimibile irritazione, acrimonia, ostilità di Gonzalo nei confronti del mondo, la sua visione in negativo della realtà è presentata dal narratore come un’allucinazione, un «delirio interpretativo», secondo la tipologia dei due psichiatri francesi P. Sérieux e J. Capgras. (31) Gonzalo non percepirebbe la realtà come essa è, ma una sua immagine distorta. La diagnosi, severa, si fa più benevola in margine al testo, nel cit. dialogo L’Editore chiede venia del recupero, dove la ossessione di Gonzalo «nasce e discende […] dagli altrui errori di giudizio e dalle altrui, singole o collettive, carenze di contegno sociale» (RR I 764). La rancura di Gonzalo (che non salva certo se stesso – «prova difettiva di natura» (RR I 678) – dalla condanna generalizzata), si esercita con particolare asprezza, anche se solo a tratti, sulla Ur-causa del male, la Madre, a cui egli imputa, puntualmente, la dispersione, in gratuita generosità, dei superstiti beni della famiglia. Nasce così, col desiderio di veder punita la madre e forse di salvare quod superest del patrimonio, il «pensiero orribile» di una sua morte violenta per mano di terzi, pensiero che in una scena del romanzo si verbalizza in minaccia di morte. Ma il narratore sa bene, e con lui Gonzalo, che il pensiero del male, secondo quel principio di solidarietà del mondo psicologico col mondo reale (32) che trova applicazione anche nei Karamazov, tende autonomamente ad assumere la consistenza del reale. E questo è quanto accadrà nella scena finale dell’aggressione alla Madre. Quale sia la mano omicida – certo non materialmente Gonzalo (33) – non viene rivelato. Ma basta alla disperazione del protagonista, al culmine del suo itinerario di dolore l’essere colpevole agli occhi della madre, che almeno per un momento ha creduto nel delirio dell’agonia, ingannata dalla somiglianza di statura e di corporatura tra Gonzalo e il vero aggressore, «di essere stata uccisa dal figlio». «Il dolore eterno», annotano i materiali costruttivi.
Se da questo riassunto astratto per grandi temi, da cui la Cognizione appare come un cupo Bildungsroman (un itinerario verso il colmo del dolore e della disperazione), si passa al concreto dell’invenzione narrativa, il quadro è a prima vista disegnato, almeno per tutta la prima parte del romanzo, con mano molto più lieve: la Cognizione inizia e si sviluppa, da prima, nel tono minore di un divertissement. Un prologo scapigliato situa l’azione e ne introduce i necessari antecedenti: siamo «tra il 1925 e il 1933», in un immaginario paese ispanofono sudamericano, il Maradagàl, da poco uscito da una «aspra guerra» con il prossimo Parapagàl (una coppia onomastica suggerita magari da Uruguay e Paraguay, ma – per dire – Parapagàl è costruito lessicalmente sull’ingiuria lombarda papagàl). Se certi aspetti del Maradagàl ricordano l’Argentina conosciuta dall’Autore negli anni Venti, dietro la «spolveratura» esotica, destinata, secondo la tendenza gaddiana al contrappunto, più che a nascondere ad arricchire i referenti delle armoniche del termine di paragone, (34) sono del tutto evidenti il paesaggio e i luoghi familiari dell’alta Brianza (Longone al Segrino e la villa di famiglia), di cui il paese fittivo agli antipodi riproduce millimetricamente la topografia. (35)
Subito viene posto, in apertura, il tema di certe «Associazioni provinciali di vigilanza per la notte», o, per l’esattezza, della facoltatività – sancita dalla legge – dell’adesione (pagante) a queste Associazioni – in spagnolo maccheronico Nistitúos. Un tema peregrino, ed estremamente specifico, a cui pur tuttavia è caratteristicamente affidato il compito di reggere, da un punto di visto logico, l’intera compagine del romanzo: il quale romanzo è (anche) la dimostrazione per exempla (un esempio secondario, il caso del finanziere Trabatta, innestato nel principale, e l’ipotetico esempio principale, quello in cui è coinvolto il protagonista don Gonzalo) di come la facoltatività sussista solo a parole. Il rifiuto di aderire ai Nistitúos comporta in effetti ritorsioni spietate: furti, aggressioni, forse omicidi. I Nistitúos così caricati di peso narrativo si trasformano in segno di qualcosa di più ampia portata: non tanto sul piano politico (una coatta protezione squadrista o in generale la libertà fascista) come asseriva con problematica buona fede o memoria l’Autore stesso in una dichiarazione del ’68, ma su un piano più psicologico e personale: essi divengono il simbolo degli obblighi gratuiti, delle coercizioni infondate, dei vincoli alla libertà personale: di ogni abuso, arbitrio, soperchieria – cui Gonzalo-Gadda è estremamente reattivo. Dal tema dei Nistitúos, una ragionevole transizione conduce quindi ai criteri d’assunzione delle guardie, ed in particolare alla prelazione accordata ai reduci di guerra, inclusi i mutilati purché ancora idonei all’incarico. Questa idoneità ha tuttavia confini incerti, che sono resi ancora più arbitrari dal laisser aller dei maradagalesi-italiani (un cruccio antico del germanico Gadda, nemico d’ogni disordine e di tutte le approssimazioni della vita), secondo quanto illustrano «due casi stranissimi», che concernono entrambi la categoria dei vigili-ciclisti.
Il primo caso è l’assunzione d’un vigile-ciclista con una gamba rigida, fatta passare per «gamba rigida di guerra», ma in realtà dovuta ad un’«anchilosi al ginocchio, di probabile per quanto remota origine sifilitica». Questo primo esempio – esempio di prelazione malgrado la scarsa idoneità all’incarico e la possibile assenza dei due presupposti, l’esser mutilato di guerra e addirittura, forse, l’esser reduce di guerra – è ristretto nel giro di un paragrafo e immediatamente abbandonato.
Il secondo è lo «scandaletto rurale di Lukones»: l’assunzione del vigile-ciclista del villaggio di Lukones-Longone. Si tratta stavolta di un complesso caso postumo: quello d’un reduce, vero, la cui mutilazione (è un sordo di guerra) e la cui effettiva identità vengono scoperte circa due anni dopo l’assunzione, proprio nei giorni precedenti la prima scena del romanzo, grazie al fortuito incontro sulla piazza del paese con un venditore ambulante suo conterraneo. L’udito era comunque stato «miracolosamente riacquistato» nel ’25 (come tenta di far credere lo stesso vigile «nel rimpastocchiare la faccenda ad uso dei Lukonesi»), simmetricamente, com’è giusto, alla perdita dell’appena ottenuta pensione di guerra. (Apparirà nel seguito che la sordità era stata colpevolmente simulata, prima di venire smascherata – donde il mutamento di identità: dalla originaria ed italica di un Gaetano Palumbo a quella autoctona, in Maradagàl, di un Pedro Mahagones o Manganones). Lo «scandaletto rurale» non consiste dunque a questo stadio della narrazione in una prelazione indebitamente accordata (il Manganones se non mutilato è pur tuttavia reduce), ma nel mutamento di identità e nelle circostanze poco chiare della guarigione e in particolare del suo momento (essa ha seguito o preceduto l’assunzione del Manganones?). L’esempio è dunque un falso esempio, e tutta la storia, nella realtà rappresentata e nella stessa volutamente complicata rappresentazione, un imbroglio, se non un pasticcio.
Condotto a conclusione (apparentemente) l’esempio del finto-sordo, il prologo intraprende una nuova linea tematica: una complicata vicenda di ville, di fantasmi, di fulmini e di parafulmini che verrà ad agganciarsi in maniera fortunosa alla prima linea. Sopra Lukones soggiorna «da qualche anno» in una Villa Maria Giuseppina borghesemente presa in affitto (una sorta di Vittoriale, col pollaio e l’ortaglia), il poeta nazionale del Maradagàl, Carlo Caçoncellos: una caricatura tra carducciana e dannunziana, dal cognome esotico (si ricordi però certa specialità mantovana di ravioli menzionata nel Baldus), ma con lo stesso nome proprio dell’Autore. Alla morte del Vate nell’agosto del ’33, la cospicua villa rimane vuota. Hantée, oltretutto, dal fantasma dello scomparso e colpita in pochi anni da tre fulmini, essa non ha alcuna prospettiva di venir riaffittata. Il caso narrativo, o meglio la necessità di una agnizione vuole tuttavia che si manifesti un nuovo locatario – se non della villa, della portineria della villa – nella persona di quel colonnello-medico, ormai in pensione, che anni addietro aveva scoperto all’Ospedale Militare di Pastrufazio la simulazione del Manganones. La seconda linea tematica è così condotta, con la verosimiglianza che si vede, ad intersecare la prima. Questa riedizione dello smascheramento del Manganones, risultato come s’è detto di una macchinosa serie di coincidenze, ha la funzione narrativa di consentire al medico condotto di Lukones, il dottor Higueròa, che ha rapporti privilegiati col collega colonnello medico, l’esibizione durante il colloquio con Gonzalo delle informazioni speciali di cui dispone.
Dall’incrocio delle due linee suddette nasce finalmente, con transizione manzoniana: «Al decimo giorno, il 28 d’agosto, verso le undici della mattina», la linea tematica principale, organizzata per grandi scene (il termine, dell’Autore, designa singolari unità narrative), (36) e di andamento (salvo per le escursioni fantastiche del protagonista, o per gli episodi evocati nei dialoghi), del tutto lineare, e rispettosa delle unità di luogo e in certo modo di tempo (da fine agosto a fine settembre). Si hanno così, successivamente, le scene seguenti, che compongono una storia tipicamente gaddiana per frammenti:
1) La scena «della visita medica», essenzialmente un lungo dialogo a carattere filosofico tra Gonzalo e il medico condotto salito dal paese alla villa per visitare il paziente, che è malato per la verità d’un male morale e non di un male fisico. Il dialogo si chiude sull’ampio racconto della simulata sordità del Palumbo.
2) La scena «del temporale» o, altrimenti, «del pomeriggio in villa»:vi è rappresentata la quotidianità dolorante della madre di Gonzalo, la «Signora», in uno dei tanti pomeriggi sempre identici di fine estate, nel quale si scatena uno dei violenti temporali tipici della zona.
3) La scena, contigua temporalmente alla precedente, «della sera»: Gonzalo torna dalla città, Pastrufazio-Milano, in cui lavora; misera cena improvvisata dalla madre, e ampio excursus mentale del protagonista – alcune pagine tra le più alte della letteratura novecentesca: da prima l’allucinata evocazione del destino degli altri, degli arrivati, dei favoriti dalla sorte, e dei soddisfatti della propria sorte, quale essa sia («Maree d’uomini e di femmine! con distinguibile galleggiamento di parrucchieri di lusso, tenitrici di case pubbliche, fabbricanti di accessori per motociclette, e coccarde […]», RR I 692), seguita immediatamente da una meditazione sulla propria non-vita «Nessuno [degli “altri”] conobbe il lento pallore della negazione […]», RR I 703). Entra il contadino per accendere il fuoco, Gonzalo in uno scatto d’ira lo licenzia. La povera cena. Gonzalo sul terrazzo di casa.
Seguono le scene dei due tratti finali, il 4° e il 5° della seconda parte (aggiunti nel ’70, appartengono ad uno stadio elaborativo anteriore – donde alcune non gravi ma percepibili discrepanze.
4) Di nuovo un «pomeriggio in villa» Gonzalo assiste incuriosito al racconto che in cucina fanno alla madre il contadino, apparentemente non ancora licenziato, e la domestica Peppa: racconto di un furto – intimidazione dei Nistitúos? – nel castello del finanziere Trabatta, che assume per ripicca due guardie private;
5) un «fine di pomeriggio in villa», in cui momento culminante è la minaccia di morte che Gonzalo in un parossismo di rabbia emette contro la madre (in tale scena la Signora accoglie in casa un più ampio consesso di postulanti: Gonzalo, disceso dalle sue letture, reagisce con estrema violenza alla usuale disponibilità e liberalità, nei confronti degli altri, della madre, sperimentata per contro in proprio come implacabile educatrice; fantasia di un massacro dei pretendenti, dei rivali nell’affetto materno. Grida contro la madre, appena soli, e minaccia di morte. Quindi, precipitata partenza-fuga per Pastrufazio).
6) La notte dello stesso giorno, scena ultima (ma non conclusiva) «dell’aggressione e, forse, morte, della madre di Gonzalo». Le due guardie private del Trabatta, insospettite da rumori provenienti dalla villa, danno l’allarme e vi penetrano con gli abitanti del villaggio: nella camera da letto, esanime, la madre, con una grave ferita al capo. I primi rimedi, vani, par di capire, sono apprestati dal medico. è l’alba, canta il gallo, la vita riprende.
Sono evidenti in questo rapido sommario i modi da scherzo narrativo, di registro leggero, delle pagine introduttive (significativo in particolare è il parallelismo sbilanciato dei due casi, come del resto l’accentuazione dell’inverosimile) e lo scarso peso specifico dei contenuti. Lo si era annunciato sopra. Ma importa qui sottolineare che si tratta di una tecnica prediletta da Gadda, una sua per così dire approssimazione graduale od obliqua ai grandi temi e al dramma: in sostanza, cioè, una forma di distanziazione in limine dai referenti e dal registro che loro compete, prossima per funzione all’uso di una lingua opacizzante, o dell’ironia, o della trasposizione geografica. Inoltre – e questo sarà specifico per la Cognizione – la banalità e l’insignificanza ambiente permettono alla figura solitaria e tormentata del protagonista Gonzalo di stagliarsi in tutta la sua singolarità, per contrasto, su uno sfondo dissonante.
Straordinaria riuscita, con momenti sublimi («Al passar della nuvola, il carpino tacque […]», «Vagava, sola […]», «Nessuno conobbe il lento pallore della negazione […]»), la Cognizione lascia, a successive riletture, una sottile sensazione di squilibrio. Non del tutto risolto è in effetti il difficile rapporto tra l’invenzione narrativa (la trasposizione sudamericana, il gioco con gli accadimenti minori, le complicazioni, le agnizioni, l’onomastica di certi personaggi, ecc.), che conserva un suo naturalismo rappresentativo; e d’altra parte l’evocazione di grandi temi, l’autobiografismo doloroso, il registro lirico e patetico, la tragica rappresentazione per exemplum del destino d’ognuno. La fictio, insomma, e in particolare tutta l’invenzione dei Nistitúos, fatica a sorreggere il piano superiore dell’indagine, della cognizione, del dolore. Lo stesso caso personale di Gonzalo-Carlo Emilio pare a volte troppo contingente per i grandi temi che esso deve evocare.
5. Il Fulmine sul 220 e i disegni milanesi dell’Adalgisa
Le puntate della Cognizione in Letteratura si arrestano, come si era detto, nel ’41. L’urgenza autobiografica si era forse attenuata, e nuovi progetti, nuovi obblighi si sovrapponevano agli antichi (la ricca bibliografia gaddiana degli anni ’38-’42 registra molti scritti tecnico-sociali, in particolare nella rivista della Consociazione turistica italiana (l’ex-Touring Club), Le vie d’Italia. (37) Nello stesso ’41 compare nel mondadoriano Almanacco dello Specchio la prima traccia (onomastica) a stampa di quello che diverrà tre anni dopo, all’inizio del ’44, presso Le Monnier, uno dei grandi libri di Gadda (e del Novecento italiano), L’Adalgisa – Disegni milanesi, la raccolta cioè di dieci frammenti di carattere più o meno milanese. (38) L’origine dei frammenti, tutti apparsi a stampa tra il ’38 e il ’43, è varia. Un dittico – i disegni quinto e settimo: Strane dicerie contristano i Bertoloni e Navi approdano al Parapagàl – viene fornito dalla Cognizione (da «Di ville, di ville!» alla fine del primo capitolo, e da «Non beveva mai liquori» alla fine del VI capitolo). Il disegno d’apertura, il breve e lirico Notte di luna, risale al Racconto italiano, da dove era approdato nel ’42 al quindicinale Primato col sottotitolo di Paese a guisa di introduzione. Isolato – e irrelato alla raccolta (se non per il tema dell’ingegneria, e per il cognome Valeri ricollegabile al nome Valerio di disegni successivi) – sembra il terzo debole disegno, Claudio disimpara a vivere (già un elzeviro della Nazione), che «adombra», nel registro leggero di un idillio tra due giovani, Claudio Valeri e la bella Doralice, un grave incidente occorso tra il ’20 e il ’30 durante una visita guidata di un gruppo di studenti d’ingegneria ad un cantiere. I rimanenti sei disegni, relativamente coerenti nella concezione (con la parziale eccezione del terzo, Quattro figlie ebbe e ciascuna regina), (39) provengono dall’ennesimo abbandonato cantiere di romanzo, quello, di cui diremo, di Un fulmine sul 220. Dà titolo, se non unità, alla raccolta il nome forse lombardo ma certo belliniano (è la rivale di Norma) di uno dei più straordinari personaggi di Gadda, l’«Adalgisa Borella vedova Biandronni», negli anni della splendida giovinezza popolana prima stiratrice e poi Violetta e Gilda «di quinto ordine» al Fossati e al Carcano, (40) moglie quindi del «povero Carlo», e infine energica vedova, madre di due (brutti) ragazzi, il Luciano e il Gianfranco. (41)
Valutato col metro dell’unità, della coerenza, il libro dell’Adalgisa apparirà, al solito, problematico. Troppo è il divario, anche di registro, tra i due frammenti della Cognizione, e il nucleo più omogeneo proveniente dal Fulmine sul 220; e tra questo nucleo e la storia un po’ futile di Valerio e Doralice, o il simbolismo della Notte iniziale. Ma il lettore avrà compreso che la grandezza di Gadda non va cercata nell’economia e nella perspicuità di architetture testuali in cui tout se tient. La struttura sottodeterminata di una raccolta come l’Adalgisa offre secondo quanto si è detto sopra uno stampo ideale all’elaborazione autonoma di temi e di dettagli, al commento metatestuale, ai sottili rimandi sotterranei a distanza. Vorremmo almeno rilevare, di questi disegni un po’ sciolti, in primo luogo l’altissima qualità stilistica (con la o le eccezioni che si sono segnalate): ingredienti lessicali e sintattici eterogenei e tonalità diverse – l’ironica, la patetica, ecc.– appaiono ora mirabilmente integrati in un personale registro composito fatto di continui soprassalti immaginativi. Basterà ad illustrazione un campione con qualche aggiunto corsivo (a rilevare gli estremi): la caduta «in un lago di palta» nel corso di una escursione entomologica del «povero Carlo». Si aggiunga che al sintagma finale del passo, «il loro laborioso integrale isoperimetrico», è apposta una nota di 61 (nell’edizione cit.) densissime righe, una delle 56 note, per un totale di 12 pagine, del disegno, e che i rimanenti disegni sono anch’essi provvisti di un ricco apparato di note (alcune semplicemente esplicative di termini – baüscia, carpògn, marmognón, stemègna, ecc. – o riferimenti milanesi – Via delle Oche, Santa Marta, ecc. –, altre, le più estese, di carattere storico o erudito, a ricostruire l’ambiente della Milano di allora):
S’era cavata la giacca, s’era sporto avido, con il retìno, per una preda di larve: e anche ditischi adulti, magari: così almeno riferiscono i testimoni. Ma quei vigorosi nuotatori, subodorate le intenzioni del retìno, (lo lumarono subito, dal sotto in su), via! s’erano spiccati come altrettante spole dall’erbe e dagli steli subacquei, dove pareva invece che ci dormicchiassero: e lui dietro! col suo retìno, bravo! come ci fosse probabilità di raggiungerli! In maniche di camicia com’era, teso fino all’ultimo il braccio, Dio com’era peloso!, perché aveva rimboccato la manica. Attaccandosi con la sinistra a un ramo, sì! finchè il ramo si scerpò netto: e lui patapùmfete!: dentro come un salame fino al collo.
Una nuvola di fango lo aveva sùbito circondato.
Quelli [= i ditischi] intanto bucarono via l’acqua come siluretti felici, scampati nei roridi e verdi regni, fra i capegli dell’erbe e dell’alghe: salvi dal loro profilo ellittico o parellittico, che offre, credo, un minimum di resistenza, che segna un optimum della forma natante. E devono aver raggiunto questo ottimo nella pertinace evoluzione della discendenza, in un loro amore del meglio e poi del perfetto, educendo dalla grossolanità primigenia il garbo del capo, del corsaletto e dell’èlitre, sforzandosi di tendere, tendendo all’elisse, entro paludi, o gore morte nelle golene de’ fiumi: ogni acqua ferma un bacino da esperimenti, ogni specchio livido un mondo da perforare col pensiero: traverso generazioni e millenni raggiungendo il loro laborioso integrale isoperimetrico. (L’Adalgisa, RR I 519)
Oltre alla qualità eccelsa dell’invenzione linguistica va riconosciuta all’Adalgisa una eccellenza di tipo più narrativo, o almeno rappresentativo: i disegni non extravaganti, mentre foglio dopo foglio compongono, tramite gli usi linguistici ed in particolare il dialetto e le interferenze di italiano e dialetto, un mirabile quadro di costume milanese, danno vita a tutta una galleria di personaggi memorabili. Siano qui almeno ricordati il vecchio Zavattari da trentatre anni lucidatore di parquets «per gli stipendi e agli ordini della “Confidenza”» («Lo sguardo de’ grigi e dolci occhi, velati d’una sorta di lacrima, e i gran baffi ambrati pioventi sulla rassegnata pace dei settantadue […]»); i gemelli Borlotti, che «lacrimando in silenzio, e soffiandosi alternatamente il naso, due nasi brodosissimi», vogliono «savè tüss còss» della trappola in cui sono caduti; la «brava e buona ragazza» Maria scesa da Lasnigo a servire in casa Cavenaghi, dalle «lunghe ore, senza canti […] presso l’acquaio» e dal ferito pudore di contadina; la Maria Giuseppa, bambina treenne dalle «trottatine balbettanti» e dalla «pisce fulminanti» («La stordivano a tal punto, quella creatura, a furia di baci, di carezze, di vezzeggiativi, che neanche lei povero angiolo riesciva più a raccapezzarsi: a intendere se la pipì fosse una colpa o un merito, e se lei dovesse chiamarsi e lasciarsi chiamare Majà Uèppa o Mapeppa o Poppa o Mappa o Pipippa. Felice creatura!», RR I 357-58); la temibile Donna Giulia de’ Marpioni nata Pertegati, madre della Mapeppa e trionfante allevatrice e ghigliottinatrice di polli:
I polli, in capponiera a Baggio, non anelavano ad altro se non a troncare una vita divenuta oramai insopportabile. […] Ella chiamava per nome le sue vittime, uno a uno, i suoi tesori: coi nomi più dolci li chiamava, poveri scheletri! coi più blandamente suasivi: «Federico, Popò, sì, sì, ven kì, poer el me stràsc! toeuh, ven kì, Bergeggi, Don Nèspola, sì sì, anka tì, paparino: Sì, ho capìi, Nannuccio, ho capìi che me vorìi ben, che ghe vorìi ben a la vostra sciora, bravi, bravi,…. dèss basta! sì sì, ven kì anka ti in la toa sciora, el me Corocòcco, poer el me nano! cara la mia sciavata früsta! (RR I 369),
e come s’è detto l’Adalgisa stessa, e il suo «povero Carlo» ragioniere e naturalista dilettante, e la «pazienza color pece» dell’Ateucus Sacer Linnaei…
Certo come si è ammesso, i disegni dell’Adalgisa sono, in parte, sciolti. Ma uno sguardo attento riesce (grazie magari alla costanza delle tematiche gaddiane) ad individuare una linea, per quanto labile, sottesa alle dieci tessere, e forse un senso alla progressione. Se non il «scendere della sera», almeno il tema del «ritorno dal lavoro», o del «lavoro» in generale (e delle divise, dei costumi) permette ad esempio di allacciare l’ouverture di Notte di luna al successivo Quando il Gerolamo ha smesso, che si apre con l’epos dei lucidatori di parquets («Muniti ad armacollo d’una fascia di cuoio stralucida, che gli reggeva sulla culatta e sul fianco la cassetta-armadio piena di ingredienti e d’intingoli […]»), e continua, in una commossa serie di anafore esclamative, con l’enumerazione d’altri apporti al «plasma valido e vitale»: i facchini, i garzoni dei salumai, le lavandaie (e i porcelli e le materne vacche), i brumisti, i bigliettari, i bovisi (il protagonista maschile del gruppo centrale di disegni, il Bruno Olocati, da prima garzone di macellaio, svolgerà tutta una serie di mestieri: lucidatore di pavimenti alla Fiera Campionaria, imballatore d’occasione, fattorino avventizio nella fabbrica di cioccolato del N.H. Gian Maria Cavenaghi/Caviggioni, marito della bella e malinconica Elsa, nel cui appartamento veniva a lucidare i parquets il vecchio Anselmo, ecc.). Il primo frammento della Cognizione qui riportato si apre dal canto suo ancora esclamativamente con l’elenco delle performances stilistiche degli architetti pastrufaziani, e cioè milanesi, sui «vaghissimi e placidi colli» delle prealpi lombarde.
Lasciando altri collegamenti tra i disegni apparentemente irrelati, converrà fermarci, per finire, sui rapporti tra l’Adalgisa e il «racconto del garzone del macellaio» (= Bruno Olocati), come Gadda lo chiama in una lettera, vale a dire il progetto di un ampio romanzo in cinque capitoli (1. La crisi; 2. Pane al disoccupato; 3. Un’orchestra di 120 professori; 4. Nuove battute sul politecnico vecchio; 5. La pianura elettrica) ideato verso la fine del ’31, e steso soprattutto nel ’34, per cui era stato previsto il titolo di Un fulmine sul 220. (42) Ambientata a Milano, la storia, in cui si riconosceranno agevolmente gli invarianti delle trame gaddiane, aveva a protagonisti una umbratile Elsa, moglie giovane e bella (e insoddisfatta) del N.H. Gian Maria, la cognata Adalgisa, il nipote (ma coetaneo) Valerio, ingegnere elettrotecnico, e Bruno, un ex-garzone di macellaio assunto come fattorino dal marito di Elsa. Tra Donna Elsa e il diseredato garzone doveva nascere il solito amore trasgressivo, con una fine tragica a sanzionare l’infrazione: la morte di Bruno in un incidente dovuto forse ad una dimenticanza di Valerio, forse alla caduta di un fulmine su una linea a 220.000 volt – donde il titolo. Il romanzo, a giudicare da quel che ne è stato reso pubblico, «non ubbidisce a un tensione lineare tra un principio e una fine prefissati», distendendosi come è la regola in Gadda nelle pieghe molteplici di un «tessuto sontuoso» (Gadda 1995: 301); né temo sia troppo da rimpiangere il mancato svolgimento della relazione d’amore, una tematica cui inerisce in Gadda un registro eccessivamente letterario. Al completamento del Fulmine, l’Autore ha ragionevolmente preferito una soluzione più consona alla sua arte: estrarre dal romanzo, e perfezionare in maniera autonoma, i frammenti senza idillio, che gli permettevano di tracciare un quadro certo satirico e grottesco ma anche profondamente partecipe della Milano del suo tempo. Del Fulmine rimangono così, nell’economia dell’Adalgisa, sei disegni che tendono a fondersi in una unica storia: alla loro comprensione e valutazione la trama del fallito romanzo fornisce il paratesto indispensabile.
6. Dal primo Pasticciaccio al Palazzo degli ori e al secondo Pasticciaccio
Uscito a puntate (cinque) in rivista nel 1946, rielaborato e stampato in volume «nonostante l’incompletezza dell’affabulazione»nel 1957 presso Garzanti, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è senza dubbio il testo narrativo più ambizioso di Gadda, forse il romanzo del Novecento italiano: «un giallo di alto lignaggio», in cui l’«abilità ariostesca» della narrazione si combina con una straordinaria «oltranza espressiva» (di Contini i giudizi citati). Lo spunto esterno di un fatto di cronaca nera romana del febbraio ’46 (il cosiddetto delitto Stern) è elaborato e complicato in una tipica trama gaddiana a spezzoni giustapposti, dominata dal principio del doppio, e abitata da una folla di personaggi (bassi, per lo più), in almeno due dei quali – il commendator Angeloni, e il dottor Francesco («Ciccio») Ingravallo «comandato alla mobile» – tende a diffrangersi la figura stessa dell’autore. (43) La storia, sollecitata dalle forze ortogonali dell’associazione metonimica da una parte e della sineddoche dall’altro, (44) si trasforma rapidamente in rappresentazione totalizzante: di una città (Roma: «gli apparì distesa come in una mappa o in un plastico: fumava appena»), di un periodo storico, di ambienti sociali, e in particolare di un colore linguistico, un «impetus» e uno «zefiro parlativo» (L’Adalgisa, RR I 374); più in generale, in rappresentazione moralizzata, gestita da un narratore partecipe ma severo, del «groviglio, o garbuglio, o gnommero» del mondo: degli «infiniti penzieri e palazzi».
Al più elementare livello narrativo, il romanzo svolge semplicemente un doppio fatto di cronaca nera ambientato nella Roma negli anni Venti: una rapina in un palazzo di Via Merulana ai danni di una veneta signora Menegazzi, seguita pochi giorni dopo dall’assassinio della dirimpettaia, la giovane, bella e malinconica Liliana Balducci. Le indagini, condotte entrambe dal commissario (un po’ filosofo) Francesco Ingravallo, conoscente dei Balducci e ammiratore di Liliana, sembrano laboriosamente puntare, in uno svolgimento non sempre del tutto dominato dall’autore, a due colpevoli distinti, un «Retalli Enea detto Luiginio [o Iginio, come poi risulterà – l’insolito nome ironizzando quello d’un pubblicista di parte cattolica, Igino Giordani] d’anni 19, di Anchise e di Venere Procacci (45) e, per l’assassinio, una delle domestiche-figliocce-nipoti di cui Liliana si circonda: la Virginia, o magari la Virginia-Assunta in quanto coppia o in quanto personaggio doppio. Ma importa ribadire che la singola situazione, il singolo dato, nelle opere gaddiane della maturità, e tendenzialmente sempre, sono in primo luogo degli esempi, valgono cioè in quanto inseriti in un paradigma di situazioni e dati analoghi e in quanto rappresentativi del principio sottostante. Così, nelle primissime pagine del Pasticciaccio, persino la cronaca di un banale invito a pranzo – «pranzo domenicale» che «fu lieto, nella luce d’un meraviglioso pomeriggio» – permette, tra l’altro, di delineare l’ironica tipologia di tutte le analoghe conversazioni: una Tafelmusik fatta di pochi temi: caccia, cinema e teatro, cibo, attualità – «Parlarono di caccia: di battute e di cani: di fucili: poi di Petrolini: poi dei vari nomi che danno al mùgine [= “cefalo”, “bottarga”] lungo il litorale tirrenico, da Ventimiglia al Capo Lilibeo […]» (RR II 18). La perspicuità dei singoli exempla tende, trattandosi appunto di esempi, ad essere sacrificata al paradigma a cui appartengono, all’affresco sociale e psicologico complessivo.
Al di là di queste caratteristiche compositive e rappresentative, la novità più appariscente del Pasticciaccio rispetto all’opera precedente di Gadda è data dalla massiccia presenza di un ulteriore ingrediente linguistico, il dialetto romanesco (o almeno delle tracce fonetiche di tale dialetto nell’italiano parlato), e soprattutto, come vedremo in § 10, dai modi peculiari, sostanzialmente antirealistici, della sua distribuzione nel testo e della sua interazione con le altre componenti linguistiche.
Nel caso del Pasticciaccio è indispensabile, più ancora che per le altre opere, soffermarsi sulla storia interna ed esterna (generalizzando direi anzi che, idealmente, ogni testo gaddiano presuppone per una comprensione approfondita il paratesto della propria genesi). Ciò in particolare a causa del rapporto coll’occasione esterna e del (parziale) mutamento di prospettiva intervenuto da una redazione all’altra, che comporta una certa indeterminazione dell’intreccio. A catalizzare se non ad avviare l’invenzione interviene, come è spesso la regola in Gadda, un caso di cronaca nera. Intervistato per Paese Sera da L. Tundo il 22 dicembre 1957, il giorno del conferimento del Premio degli Editori Italiani, Gadda sosteneva che «l’occasione esterna di narrare i casi di Liliana Balducci gli venne, dopo la liberazione, da un amico; da Giorgio Zampa che, allora, a Firenze, gli narrò un fatto di cronaca appena accaduto. E Alessandro Bonsanti, gli chiese per la rivista Letteratura, da lui diretta, un racconto poliziesco: fu la prima parte di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: a puntate, nel corso dell’anno 1946» (Gadda 1993b: 57-62). Zampa (condirettore, negli anni evocati da Gadda, di Letteratura e redattore del Mondo di Bonsanti), ricordava per parte sua, in un articolo del Corriere della Sera di molti anni dopo, d’aver chiesto a Bonsanti «se non si poteva suggerire a Gadda di commentare [per Il Mondo], trattare a modo suo un fatto di cronaca che lo interessasse». «In quei giorni – continua Zampa – avevo letto su alcuni numeri del Risorgimento liberale la cronaca di un delitto commesso a Roma, quasi incredibile nella sua efferatezza e ingenuità. Una signora era stata uccisa e derubata di tutti i suoi preziosi da due sorelle che aveva a servizio, giovanissime, appena arrivate dalla Ciociaria. La polizia le catturò appena subito [sic] in una pensione, se ricordo bene, nei pressi di Termini. Raccontai il fatto a Gadda […]. Dieci giorni dopo riapparve, dicendo che era a buon punto». (46) è un fatto che i nove articoli del quotidiano romano (il primo è del 24 febbraio 1946) contengono numerose coincidenze col Pasticciaccio. (47) L’assassinio è perpetrato su «due vecchie signore» da (forse) due altre donne, una delle quali l’ex-domestica delle uccise, tra i comprimari comparendo uno studente liceale un po’ gigolò alla Valdarena, quindi un «giovane biondo, aitante, e dall’apparente età di vent’anni circa» («il fidanzato dell’amica dell’ex cameriera»), e un «altro complice» – e non manca nemmeno un cagnolino simile alla Lulù del Pasticciaccio. Infine, i gioielli della refurtiva – «una collana di perle, comprata dalla Guglielmina nel 1938 per seimila lire, due paia di orecchini di oro con brillantini, tre anelli con pietre, una spilla d’oro con rubino ed alcuni bracciali, uno dei quali d’oro» – ricordano (ma come potrebbe essere altrimenti?) quelli sottratti alla Menegazzi. Credo comunque che i rapporti tra spunto esterno e genesi del Pasticciaccio non siano così lineari come può sembrare, e che essi ad ogni modo non si possano chiarire sino a che non sia ricostruita sui manoscritti (per il momento non reperibili) la genesi del testo. In effetti Gadda aveva iniziato la stesura di Pasticciaccio, come appare ora dalle ultime giunte al carteggio con Contini, (48) già verso la fine del ’45, mesi prima del delitto Stern. Il «racconto poliziesco», il «giallo che non mi riesce» cui Gadda accenna il 29 dicembre ’45, sarà l’ultimo avatar di un progetto più ambizioso, testimone del forte interesse gaddiano, in quegli anni, per il giallo, e rapidamente ridimensionatosi (RR II 1137-169, 1271). L’ipotesi più ragionevole, a mio avviso, è che Gadda avesse iniziato a lavorare su una trama semplice, non binaria, quella per intenderci della rapina alla Menegazzi (una tipica figura di signora gaddiana, apparentata ad esempio alla Signora dei primi abbozzi dell’Incendio), e che la trama si sia per via arricchita e complicata di una seconda e poi dominante linea narrativa ispirata appunto all’attualità giornalistica del delitto Stern.
Sia come sia, lasciato a future indagini di chiarire la genesi del testo, converrà fissare in primo luogo la cronologia del Pasticciaccio a stampa, anzi, dei diversi Pasticciacci, dal ’46 al ’66, ivi comprese le trasposizioni più o meno d’autore in altri media, a cui del resto è in buona parte dovuta la presenza del romanzo nella enciclopedia letteraria dell’italiano medio.
1946 – Edizione parziale a puntate in cinque fascicoli (i numeri 26, 27, 28, 29, 31) (49) della rivista Letteratura, che come s’è visto un decennio prima aveva già ospitato la Cognizione. La pubblicazione si arresta col V capitolo, all’altezza cioè del VI capitolo dell’edizione in volume: «[…] in una irraggiungibile alternazione di presagi, col vento alto, freddi sbrani d’azzurro [«…di azzurro» nel volume]». In questa prima edizione (=PL) il giallo era al suo centro strutturato altrimenti (se ne dirà più avanti), e comportava inoltre un’annotazione a tendenza francamente dada, quando non goliardica. Conviene insistere su questa mal nota annotazione (parca magari rispetto ad altri testi gaddiani, ma pur sempre sostanziale), perché la sua presenza omologava il Pasticciaccio alla linea sterniana della narrativa precedente, alleggerendo la vicenda con un contrappunto di segno opposto. Che gran parte delle note venga nella redazione in volume a cadere significherà allora una maggiore presenza della storia, un suo trattamento (relativamente) più realistico. Riproduciamo qui, rinviando il lettore al loro contesto, tre note tutte successivamente espunte; nell’ordine la primissima della prima puntata, che è su gallinaccio («certo egoismo o egotismo un po’ da gallinaccio», PL RR II 287), quindi una (ammirevole) nota osée, malgrado le oneste apparenze sociolinguistiche, sull’impiego dell’aggettivo novello, dalla seconda puntata; e infine la nota in assoluto penultima, dal quinto capitolo, a proposito del tribuno Danton, «Le taureau!», e delle non-mutande delle ammiratrici – un altro topos gaddiano):
[gallinaccio] – Romanesco. In Toscana dindo, in Lombardia pollino; in italiano tacchino o gallo d’India, francese dindon. (Didon dina dit-on du dos d’un dodu dindon). (RR II 287 n. 1)
[gli sposinovelli] – L’aggettivo novelli cadde lunga pezza dietro al nome sposi (1925-1939) e incredibilmente opportuno. Hannovi sposi, infatti, che ce la tirano sino alle nozze di diamante, cioè sino al 75° anniversario del loro primo concùbito: e di loro lietamente si giornalizza: «i due sposini godono ottima zzalute». Quelli introitati a Palazzo olezzavano invece de pesce fresco. E però appunto novelli. Come le patatine novelle, come l’inzalatina novella, come li polli novelli. Dice un tale: «rifatti sì come piante novelle – rinnovellate di novella fronda». Ma era uno che nun era ’n fregnacciaro. La prosa onestamente burocratica delle FF.SS. ignorò del tutto il succulento aggettivo e la si contentò di cantare «riduzioni ferroviarie dell’80% per gli sposi in viaggio di nozze. Ci mettere’ la mi firma, gua’! (RR II 346 n. 1)
[Mutanne, mbà…! (Ce ne avevano di più le montagnarde, a udir muggire il Toro in tribuna…)] – «Le taureau! Le taureau!»: così veniva salutato Georges Danton: al salire la tribuna dal delirante entusiasmo delle ascoltatrici fremebonde. Sulla presenza o meno di mutande ad inviluppo delle cui grazie cfr.: Jean Sulpice Ducaz: «Histoire du caleçon à travers les âges». Vol. VII, cap. 54o, p. 723. (RR II 453 n. 1)
Si noti che del Pasticciaccio era prevista sin dall’inizio una edizione in volume autonomo, e che questa edizione nelle intenzioni avrebbe dovuto essere «arricchita di numerose note – le caratteristiche note gaddiane – inedite». (50)
Estate del 1947 o 1948 (51) – Attingendo (forse) dal manuale di Seton Margrave, Come si scrive un film (Milano: Bompiani, 1939) fornitogli da Zampa, Gadda appronta per la Lux-film una (mai realizzata) sceneggiatura cinematografica intitolata Il palazzo degli ori, – pubblicata nel seguito all’inizio degli anni ottanta da Alba Andreini (Gadda 1983b). Di per sé dilettantesca, la sceneggiatura è tuttavia un vademecum indispensabile per la lettura del Pasticciaccio, del cui «enigma poliziesco» essa (oltre a semplificare e razionalizzare la trama ed a esplicitare gli impliciti), «affaccia la soluzione» (SVP 1403), la doppia soluzione: il rapinatore della Menegazzi è individuato in «Enea Retalli detto Iginio», ucciso (nella sc. 28a) in un conflitto a fuoco col maresciallo Santarella; e l’assassino di Liliana Balducci non è altri (né potrebbe essere altri) che la beneficata e poi scacciata nipote o pupilla, la bellissima e selvaggia Virginia Troddu, arrestata da Ingravallo nella «scena 30a e ultima» – cfr. le didascalie di tale scena, e appena sotto il flashback dell’omicidio:
Lo spettatore del film deve ormai percepire la follìa delirante della Virginia Troddu, la sua attitudine a credere e a far credere vero un evento immaginato (follìa onirica, menzogna da isterismo), nonché la pericolosa amoralità del suo temperamento animalesco, ignaro d’ogni legge che non sia l’istinto, cioè la cupidigia e l’«ambizione» istintiva. L’orrenda minaccia e la violenza usata alla nonna palesano allo spettatore del film una siffatta follia di qualità criminale, e il delirio che ne suole accompagnare gli eccessi […].
[…] La Virginia è una belva: dai suoi moti, dai suoi gesti, dallo sconsigliato e folle contegno traspare la violenza selvaggia del suo temperamento, che nessuna legge può infrenare, placare. Lo spettatore deve comprendere ch’ella abbia potuto uccidere in un simile e più terribile accesso (vendetta-umiliazione-cupidigia-odio) Liliana Balducci: un colpo di quel suo piccolo coltello, una rasoiata, quasi.
[…] Lampo con gioielli, perle, gioielli, ori, a cascata: ma cadono in una tenebra fumosa: quasi abisso infernale. La tenebra dissolve su un’angosciosa imagine di solitudine incustodita del «palazzo degli ori»: la Virginia con una piccola sporta di paglia (ove è il coltello) entra nel palazzo, come ritornasse dalla spesa: vede nell’andito la scritta «Portiere» sulla vetrata: e la vetrata chiusa, come al solito. Imbocca la scala deserta: primo piano con la scritta: scala A. Sale. Preme il bottone all’uscio dei Balducci. […] Nella camera da letto Liliana indietreggia atterrita, cercando di proteggersi con le mani la gola nuda, i due seni. Virginia come belva in furore le si appressa: la lama del piccolo coltello, estratto dalla sporta, risfolgora a mezz’aria […]. (SVP 985-86)
Il titolo della sceneggiatura – Il palazzo degli ori – e del resto già la prima scena, in cui le zie di Liliana tentano di recuperare rivolgendosi ad Ingravallo dei gioielli di famiglia, e simmetricamente la scena finale, collocano in primo piano non il pasticcio di casi, ma il tema anch’esso eminentemente gaddiano e, direi, narrativamente ottocentesco, degli ori, dei gioielli, di quel segno di continuità della famiglia, dunque, o viceversa della sua dissoluzione, che già tanta importanza aveva assunto nella Cognizione. In una delle prime scene le «due donne», la vittima Liliana e il suo carnefice Virginia, «come per gioco o per prova, si mettono i gioielli, un po’ l’una un po’ l’altra, si ammirano reciprocamente». La «follia donativa» di Liliana Balducci, un «sintomo clinico delle sindromi schizofreniche» (SVP 938, 946, 965) secondo il narratore, proprio sui gioielli in particolare si esercita, attizzando ulteriormente e pericolosamente la cupidigia, l’avidità di possesso dei beneficati: «I gioielli di Liliana li avrebbe voluti lei [= Virginia]: diceva sempre, a tutti, da quella pazza che era» (SVP 978). Secondo questa chiave di lettura, il Pasticciaccio si riallaccia dunque strettamente alla Cognizione, di cui riprende una delle componenti centrali, il tema d’un’animalesca avidità senza freno di ragione. A suo modo Virginia è un selvaggio non acculturato, un calibano femmina della stessa razza dei contadini di Lukones.
Giugno 1957 – Garzanti pubblica il Pasticciaccio in un volume (tela rossa, sovracoperta a colori) della collana «Romanzi moderni»: la tiratura iniziale è di 5000 copie. A settembre la seconda edizione, ancora di 5000 copie, la quale integra ulteriori estreme correzioni d’Autore, e fornisce dunque il testo definitivo del romanzo, riprodotto (salvo qualche refuso corretto) da tutte le ristampe successive. Nel ’58 vengono stampate due altre edizioni, rispettivamente di 5000 e di 3000 copie, seguite nel ’59 da altre due, di 4200 e 3200 copie. La tiratura totale, per i primi tre anni, è per i tempi rispettabile: 25.400 esemplari.
Sul testo di PL l’Autore è intervenuto in due modi. Da una parte con l’aggiunta di quattro sostanziali capitoli – VII, VIII, IX, X – e l’espunzione del IV (52) in cui la colpevolezza di Virginia, ricattatrice e pazza, appariva prematuramente, secondo Gadda, accertata; (53) dall’altra con un diverso taglio dei capitoli (il II e III di PL sono sdoppiati), l’aggiunta e soppressione di due blocchi di paragrafi, l’incorporazione al testo di una lunga nota, la soppressione della maggior parte delle altre; e infine, assieme ad interventi linguistici di dettaglio, con una accurata revisione del romanesco o romanesco italiano, e degli altri dialetti, specie il napoletano e il molisano. (54) Ma la differenza principale tra le due redazioni, oltre all’aggiunta di quattro capitoli, è data, giova ribadire, dall’assenza su cui ci si è ripetutamente soffermati della quarta puntata. Questa assenza tuttavia non comporta, nelle intenzioni dell’autore, un mutamento nella storia, come, poniamo, una diversa ridistribuzione di ruoli e colpevolezze, ma soltanto un ripensamento dell’intreccio. La IV puntata permaneva essenziale, con tutte le conseguenze interpretative che ciò comporta (la colpevole è Virginia), come accerta lo stesso Autore nella intervista a Paese Sera citata sopra. Alla domanda «Qual è secondo lei il momento più importante nel Pasticciaccio?» Gadda rispondeva: «Il momento più importante sarebbe stato omesso dall’attuale volume per non rompere la “suspense”, e sarebbe riservato a un eventuale seguito, che ci sarà senz’altro (se non crepo prima)» (i condizionali sono qui un attenuatore, semidialettale, di forza enunciativa).
Nel 1959 appare la prima trasposizione cinematografica del Pasticciaccio: il film Un maledetto imbroglio di Pietro Germi (che interpreta Ingravallo), con Claudia Cardinale, Eleonora Rossi Drago, Franco Fabrizi (a suo tempo disponibile in una cassetta Mondadori Video; se ne attende ora una riedizione restaurata). Coautore della sceneggiatura, che aggiorna agli anni Cinquanta l’azione, è lo stesso Germi.
Del 1983 è lo sceneggiato televisivo in quattro puntate, curato da Piero Schivazzappa, con Scilla Gabel («migliore attrice» al Festival del giallo di Cattolica) e Flavio Bucci, che interpreta «con stralunata intensità» il ruolo del Commissario Ingravallo. (55)
Nel 1996 si registrerà infine l’adattamento teatrale di Luca Ronconi, presentato al Teatro Argentina di Roma il 20 febbraio (è il giorno in cui prende inizio la storia del Pasticciaccio) del ’96. Lo spettacolo, che dura circa cinque ore, e ricorre a 37 attori e 13 figuranti, «mette in scena una scelta di pagine e di episodi risultanti da una varia contaminazione tra le due edizioni del romanzo […], spostandone alcuni brani e sacrificando diversi personaggi – ad esempio il commendator Angeloni; una testa gigantesca e minacciosa del duce incombe sempre in cima al palcoscenico, come a condizionarvi gli eventi, coerentemente ambientati nei primi anni del fascismo. La fedeltà alla pagina romanzesca è assicurata dalla recitazione da parte degli attori non solo dei dialoghi, ma anche dei brani narrativi. […] Nonostante la vistosa interpolazione tra le due stesure del romanzo fornisca notevole spazio al personaggio di Virginia e alla sua relazione con il Balducci, la scelta del regista è quella di indicare visibilmente in Assunta, fin dalla scena del pranzo iniziale, la responsabile del delitto, davanti ai cui dinieghi, alla fine, Ingravallo è portato “a ripentirsi, quasi”» (Gadda 1997a: 73-74).
Nel marzo ’97 viene diffusa l’edizione televisiva ridotta (poco più di due ore) dell’adattamento teatrale di Ronconi, curata dal regista Giuseppe Bertolucci che è intervenuto «ulteriormente sulle immagini sceniche con scritte e segni grafici sovrapposti, uso di ralenti, solarizzazione e fermo-immagine» (Gadda 1997a: 74).
Non è questo il luogo per un’analisi approfondita della struttura narrativa del Pasticciaccio, un progetto in sé commendabile (e trascuratissimo dalla critica) che potrebbe condurre a risultati inattesi. Ci limiteremo a qualche indicazione di massima, estrapolata dai primi paragrafi e capitoli, in cui del resto si riflette, come è di regola per ogni frammento gaddiano, la totalità del testo.
Il romanzo si apre con tre paragrafi di presentazione di «don Ciccio», il commissario Francesco Ingravallo, un tipo umano composito, in cui tratti fisici italici appaiono combinati con tratti psicologici che sono piuttosto quelli di Gonzalo (e dell’Autore). (56) Di Gonzalo e dell’Autore, don Ciccio condivide la tendenza ad esprimere filosofeggiando opinioni peregrine («Sosteneva, fra l’altro, che […]», «Diceva anche […]», «E poi soleva dire […]»), un po’ alla maniera del cavalier Digbens nella Madonna dei Filosofi. Ma condivide soprattutto un atteggiamento mentale di desdichado, di sfavorito dalla sorte, di «prova difettiva di natura»: lo sguardo di Liliana, «dietro la «povera persona del “dottore”», crede di scorgere «tutta la povera dignità di una vita!» (RR II 19). Significativo tra tutti è un passo dell’apertura del III capitolo: «Con lui Ingravallo dottor Francesco, a vero dire, nessuna donna aveva mai largheggiato» (RR II 74), che ricorda anche sintatticamente l’analoga esclamazione dei materiali della Cognizione: «Oh! nessuna vacca aveva mai nitrito per lui a un miglio di distanza». Ne discenderà, per reazione, la «freddezza», l’«astiosa gelosia verso i giovani, specie i bei giovani» (RR II 25), una tappa adulta, per così dire, dell’analoga «astiosa gelosia» di Gonzalo per i ragazzi oggetto delle attenzioni materne.
Dei tre paragrafi, il primo, al solito tematicamente sbilanciato – anche se non come il primo della Cognizione – inizia giallisticamente in un poco gaddiano registro minore:
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo [Ingràvola, sdrucciolo, in Letteratura] comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona […], (RR II 15)
per soffermarsi poi estesamente sulla figura – minore, tanto da venir provvista di nome solo nel capitolo finale – dell’affittacamere di don Ciccio, la «gentile ospite signora Margherita: Margherita Celli vedova del commendator Antonini», facendone in particolare risuonare la voce in discorso diretto e indiretto. L’usuale tecnica della presentazione obliqua dei personaggi principali, ripetuta anche sotto («Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che […]», RR II 17), cede presto all’autorappresentazione narcissica della «signora» Margherita. Più rilevante, però, è per noi riflettere sulle idee filosofiche esposte in questi paragrafi: in esse si trova, a ben guardare, la chiave del romanzo. Queste idee al plurale sono poi sostanzialmente in numero di due. La prima è l’idea della pluralità delle cause, un vecchio cavallo di battaglia dell’Autore (nato come critica del III assioma dell’Ethica di Spinoza: «Ex data causa determinata necessario sequitur effectus») che i lettori di Gadda incontreranno ripetutamente a partire dalla trattazione universitaria del IV capitolo della Meditazione milanese. Alle «inopinate catastrofi» (dove catastrofe va preso anche nell’accezione matematica del termine), in particolare ad un efferato assassinio, cospira di regola «tutta una molteplicità di causali convergenti». La seconda idea, d’un freudianesimo da Strapaese, consiste nell’immancabile presenza, tra le concause della «rosa di causali» (la «causale principe» e le cause comprimarie), di un «quanto di erotia», di un «movente affettivo», operante anche per catastrofi di tutt’altro ambito, e in particolare per i «casi d’interesse», i «delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore» (RR II 17). Ne consegue che, così come la Cognizione poteva esser vista, lo s’è detto, come protratto esempio di una o più situazioni generali (di tipo burocratico: la prelazione accordata o meno ai reduci e ai mutilati di guerra, oppure la facoltatività delle adesioni ai Nistitúos), allo stesso modo il Pasticciaccio è concepibile come l’illustrazione e quasi la giustificazione delle idee due del commissario Ingravallo. (57) L’indagine scopre, nel farsi, la complessità della situazione indagata, in altri termini la molteplicità di fattori che vi hanno concorso. Tra questi fattori risulteranno poi in diverso modo decisivi i legami erotici: tra gli altri, l’attrazione, forse simmetrica di Virginia per Liliana Balducci, le scaramucce della stessa Virginia con la portinaia, quelle più consistenti col Balducci, la rete di complicità tra le apprendiste della Zamira e i loro paini, e così via. Dalla molteplicità delle concause discende ulteriormente un altro principio fondamentale del romanzo (non enunciato esplicitamente da Ingravallo, questo, ma esposto altrove dall’Autore stesso con icastica formulazione): il principio di colpevolezza generalizzata. Tutti, nel Pasticciaccio, sono in misura maggiore o minore responsabili della morte di Liliana. In primo luogo gli esecutori materiali e in loro numerosi complici, attivi o passivi; ma anche la stessa Liliana (che ha voluto o comunque provocato la propria fine), (58) e lo stesso Ingravallo, reo di omissioni e di cecità di fronte ai pericoli che le ripetute sconsiderate adozioni facevano correre alla signora Balducci. È persino in una certa misura vero, e non solo a livello del discorso psicanalitico, che una quota di responsabilità pertiene anche al Condottiere della nuova Italia, «motore primo», infinitamente più del povero Angeloni solitario buongustaio, delle forze del Male. E pertiene, perché no, al demiurgo della macchina narrativa.
Questi sono dunque i tre paragrafi introduttivi, carichi d’anticipazioni, e anzi programmatici, del primo capitolo del romanzo. Essi costituiscono la prima delle cinque unità o sezioni del capitolo, segnalate (graficamente) da una spaziatura verticale all’inizio e alla fine. La seconda sezione contiene la scena del pranzo (RR II 17-27), la terza (RR II 27-45) la notizia della rapina e l’inizio delle indagini, e in particolare il primo interrogatorio dell’Angeloni), la quarta (RR II 45-48), più breve, il secondo interrogatorio dell’Angeloni. L’ultima (RR II 48-53), composita anche temporalmente malgrado la sua brevità (perché si distende su due giorni, il lunedì 14 e il martedì 15 marzo) dà tra l’altro (59) notizia di un interrogatorio «con ogni riguardo, la sera, in loco» di Liliana Balducci ed introduce nebenbei (e subito accantona) la scheda della Ines Cionini, un personaggio minore che pure tanta parte avrà entro i capitoli VI e VII (cfr. le prime pagine di VI «Fumi ricordò allora che una ragazza, chella Ines, Ines…», RR II 144), permettendo di risalire alla Zamira Pàcori ed alle sue pupille, e in ultima istanza di ritrovare la refurtiva Menegazzi.
7. La misura breve dei racconti: capolavori e banalità
Partendo per fissare le idee da un’affermazione che richiederà qualche correttivo e qualche chiarimento, diciamo che la narrativa breve gaddiana (i suoi racconti) è raccolta nel volume I racconti. Accoppiamenti giudiziosi 1924-1958 uscito da Garzanti nel 1963 (ora in RR II), che riprende ed espande la silloge di un decennio prima, le Novelle dal Ducato in fiamme (Firenze: Vallecchi, 1953). Queste Novelle (il titolo, teste l’Autore, andrà inteso anche come notizie da un polivalente ducato: il ducato della «mia immaginativa un po’ fantasiosa, del mio sogno» (Roscioni 1997: 74 sgg.), oppure il «Ducato di Milano, una zona virtuale, lontana nel tempo e nella storia, nostalgica, viscontea» oppure ancora lo «stato del duce-merda […] consegnato alle fiamme: (della lussuria demenziale, della follia narcissica, e delle bombe al fosforo)», (60) le Novelle, dunque, comprendevano inizialmente 14 testi: nell’ordine Le novissime armi, Papà e mamma, L’armata se ne va, Una buona nutrizione, La domenica, Un inchino rispettoso, Il bar, Saggezza e follia, Dopo il silenzio, San Giorgio in casa Brocchi, Socer generque, La mamma, L’incendio di via Keplero, Prima divisione nella notte. Di essi, i primi tre sono frammenti, già presentati nel ’32 in Solaria, della (allora inedita) Meccanica, prelevati, rispettivamente, dal III, IV e I capitolo; Dopo il silenzio è una scheggia del Racconto italiano, già pubblicata nel ’45 nell’incredibile sede de La Patria, «quotidiano per l’esercito», e La mamma viene dalla seconda parte dal quinto tratto della Cognizione di Letteratura. Gli ampliati Accoppiamenti (61) aggiungono ai precedenti cinque nuovi testi, tra cui, si noti, in ultima posizione proprio quello che darà il nuovo titolo alla raccolta e che Gadda definisce curiosamente «Antefatto di un Soggetto Cinematografico, redatto in forma schematica». Si tratta di: Una visita medica, un ulteriore lacerto della Cognizione, stavolta dalla I parte, La sposa di campagna, La gazza ladra e Il club delle ombre (tutti e tre già editi), e infine di Accoppiamenti giudiziosi, anch’essi ripresi dalla originaria sede in rivista. L’ordinamento dei 19 testi è tendenzialmente cronologico (di stesura), cioè estrinseco; mentre della struttura della prima raccolta, con tutta la buona volontà, «non pare agevole decifrare una linea di sviluppo univoca e definita». (62)
Racconti, s’è detto, o con designazione neutra, testi. La loro lunghezza è estremamente variabile, così come il loro percento di narratività, e la loro completezza. Del resto Gadda aveva definito Racconto, come ricorda Raffaella Rodondi, anche il suo «primo tentativo di romanzo», e più tardi i dieci disegni dell’Adalgisa, tra cui il frammento lirico Notte di luna (e un racconto, per Gadda, è anche Guerra e pace). Il fatto è che la semantica di racconto (come si vedrà poi per favola) è in Gadda mal definita, o perlomeno peculiare. Tutto sommato, l’etichetta più confacente a molti dei 19 racconti degli Accoppiamenti parrebbe quella apposta alla pubblicazione in rivista dell’Incendio di via Keplero (cfr. sotto): studi, con anzi, per un cospicuo sottoinsieme, la qualifica di una sezione della Madonna dei Filosofi: studi imperfetti.
Tra questi racconti-studi c’è davvero di tutto: pagine di altissima ispirazione, come La mamma dalla Cognizione (ma sciupato da un titolo riduttivo, e separato dal contesto che lo giustificava), e momenti di felice gioco (la chiusa in particolare degli Accoppiamenti, con la sua anti-analisi logica dei versi iniziali dei Sepolcri); veri e propri racconti; abbozzi di non si sa che cosa; e anche cadute sconcertanti. Quale sia l’idea sottostante, ad esempio, ai contigui La sposa di campagna (che riflette l’angosciosa ricerca di ricovero dell’Autore nella campagna attorno a Firenze) e La gazza ladra (al di là dell’aneddoto montaliano che vi è rispecchiato, RR II 1284-285), e che interesse possano presentare per il lettore, non si saprebbe dire. Uno dei minimi (e non solo per Gadda) è il non-autobiografico Il bar, che tratta di una «visita di cortesia» della giovane Dicky, nuora di «papà Rodolfo», a Mrs. Valiant, una virago americana asolante in riva a un lago coi suoi sette bassotti dai nomi di sette Presidenti, confidato il secondo marito ubriacone alle cure dell’amica Signora Colloretti (antica fiamma di papà Rodolfo) in una villa a Passy-Parigi «con tutti i comodi», incluso il bar «in form of a tun» – donde il titolo.
Tra i testi raccolti in quello che complessivamente è uno dei volumi meno meditati di Gadda, emergono, per compiutezza e qualità, a parere di chi scrive, San Giorgio in casa Brocchi e L’incendio di via Keplero. Il San Giorgio, originariamente pubblicato in Solaria (giugno 1931), era particolarmente caro all’Autore (Educazione e Famiglia ne sono, del resto, i temi centrali), che in una lettera a Tecchi del 7 maggio 1931 lo descriveva come «satira dell’ossessione conservatrice e moralistica di una famiglia signorile milanese. Contro questa ossessione congiurano tutti gli accidenti possibili dei “tempi perversi” – e cioè le serve, i medici di casa, un pittore, l’esposizione dei Novecentisti, gli studenti del politecnico, ecc. – e soprattutto la crisi puberale di Gigi (il rampollo della famiglia) che finisce per entrare nella virilità proprio il giorno di S. Giorgio, suo compleanno. Vi è una lotta simbolica fra S. Giorgio, il Santo cavalleresco e… femminista, contro S. Luigi Gonzaga, il Santo ascetico e rinunciatario. Nella seconda parte è tirato in scena un benpensante dell’antichità classica, anzi il re dei benpensanti, e cioè Marco Tullio Cicerone, nonché il De Officiis. Anche qui si tratta di un’analogia e di un simbolico ritorno alle fonti: la tesi è che la morale dello struzzo non serve quando la tempesta imperversa – e anche l’altra tesi che l’analisi del Male va estesa a tutto il mondo, a tutti i disgraziati, e non racchiusa nel Sacrario delle sacre famiglie, che si tappano gli occhi e le orecchie di fronte ai problemi della umana miseria» (Gadda 1984b: 92). Il racconto, condotto per molti tratti nel tipico dialogato gaddiano che conosciamo dalla Cognizione e dal Pasticciaccio (con qui e là resti d’umorismo gratuito) (63) e ricco di inserti digressivi (su Cicerone, sul Parini, sulla Triennale, ecc.), culmina alle soglie dell’ingresso nella virilità del diciannovenne Giorgio tra le braccia di quella Jole, «la cameriera del conte» con cui esso racconto si apriva: «Che Jole […] Che Jole, poi […]», in due ammirevoli paragrafi-frase (o quasi) (RR II 645).
Un discorso più analitico merita L’incendio di via Keplero, il capolavoro della narrativa breve gaddiana, spesso accolto, non solo per le sue dimensioni, dalle antologie scolastiche, e in particolare dalla continiana (e pochissimo scolastica) Letteratura dell’Italia unita. Compatto, ben conchiuso, in una parola perfettamente organizzato, e memorabile nei personaggi e nelle battute, L’incendio mostra con chiarezza, specie se confrontato alle altre meno felici prove del volume, di come esista effettivamente uno stampo d’elezione entro il quale Gadda si sente a suo agio: quello di una struttura a moduli, a tessere che possano venire elaborate in certa misura indipendentemente all’interno del quadro complessivo, e che richiamino le altre per somiglianze e differenze. Un incendio, il piccolo mondo di una casa popolare, si prestano in modo naturale ad un trattamento in un simile stampo. Se vero, come è stato proposto con buona verosimiglianza, che L’incendio è stato ispirato da una serie di articoli giornalistici di cronaca milanese, (64) si può ipotizzare che proprio la struttura a tessere della fonte abbia contribuito a fissare su di essa l’attenzione di Gadda. Comunque, L’incendio, composto tra il ’30 e il ’31 uscito originariamente nel 1940 ne Il Tesoretto come Studio 128 (65) per l’apertura del racconto inedito: L’incendio […] (di nuovo quindi un frammento superstite ad un progetto più ampio, come del resto i Quaderni autografi accertano, (66) probabilmente la scena d’apertura, anticipante la catastrofe risolutiva), si configura esattamente come ciò che in retorica ha nome tableau: vale a dire come descrizione di un accadimento complesso ricco di elementi subordinati: l’incendio, appunto, di uno stabile in un quartiere popolare milanese non lontano della Stazione Centrale. Gadda descrittore, dunque, non Gadda narratore.
L’incendio comprende, in tutto, 17 paragrafi, di cui quattro (i primi tre, che in parte anticipano il seguito, e il settimo, che riattualizza per così dire la cornice) presentano il quadro d’assieme, e i rimanenti delineano cinque casi di salvataggi, l’ultimo dei quali, come climax vuole, ha esito ferale. Nell’ordine: (I) una «bimba di tre anni, Flora Procopio» (§§ 4-6); (II) una «donna incinta» (§§ 8-9); (III) la «signora Arpàlice Maldifassi» (§§ 10-12); (IV) il «vecchio Zavattari» (§§ 13-16 – molti: ma l’ultimo paragrafo è solo una delle fulminee battute conclusive care all’Autore); (67) e (V) l’ex-garibaldino «cavalier Carlo Garbagnati» (§ 17). Nei primi tre casi intervengono come salvatori tre indimenticabili coloritissime figure: il «pregiudicato in linea di furto e vigilato speciale della Regia Questura» Besozzi Achille; «certo Pedroni Gaetano del fu Ambrogio di anni 38, facchino alla stazione centrale»: e il «bravo garzone muratore e avanguardista Ermenegildo Balossi di Gesualdo, d’anni 17, da Cinisello»; negli ultimi due, direttamente i pompieri. Struttura relativamente elementare, si dirà, ma in realtà perfettamente funzionale ad un duplice intento: da una parte un ironico provarsi a simultanare, in gara coi teorici della simultaneità, «quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia» (RR II 701), di riprodurre cioè nella linearità del testo la contemporaneità dei singoli accadimenti del tableau; dall’altra, il fornire un supporto perspicuo alla libertà d’invenzione e conseguente complicazione dei primi quattro casi. Il primo caso, ad esempio, potrà così essere svolto con tutta la complessità desiderata, accogliendo, tra l’altro, una nuova soluzione sintattica del problema della contemporaneità degli eventi, o mini-digressioni, o strutture temporali parzialmente retrograde, o ancora uno straordinario incrocio di periodare classico e parlato:
Finché un certo Besozzi Achille […], disoccupato, siccome era costretto, in causa della disoccupazione, a dormir di giorno per poter esser franco a sbrigare un qualche lavoruccio nottetempo, caso mai ce ne fosse di bisogno, e nonostante la vigilanza, tanto da guadagnarsi un boccon di pane anche lui, povero cristo, così fu una vera fortuna e gran misericordia di Sant’Antonio di Padova, bisogna proprio dirlo a voce alta, e riconoscerlo, questa di questo vigilato speciale che dormiva proprio al piano di sopra e nella stanza di sopra, dalla signora Fumagalli: in una ottomana di famiglia; che appena capito il pericolo subito s’era fatto coraggio, lì per lì, tra la paura e il fumo, un fumo che ventava su dalla tromba delle scale come la fosse un camino, e tutte quelle donne precipitanti in vestaglia o in camicia di gradino in gradino, e i gridi, e i bimbi, e la sirena dei pompieri in arrivo. (68)
Al volume degli Accoppiamenti in quanto summa della narrativa breve gaddiana si sottrae almeno (per non parlare dei racconti cosiddetti incompiuti come La casa, Notte di luna, ecc.) un gruppo di racconti appartenenenti a diversi periodi, e di vario valore, che sono ora raccolti nella sezione «Racconti dispersi». (69) Tra di essi, in particolare, compaiono, oltre alla giovanile Passeggiata autunnale, ed alla (parziale) riscrittura ispaneggiante di Cinema della Madonna dei Filosofi, anche testi di notevole interesse, tra cui menzioneremo le Bizze del capitano in congedo e già citati (in quanto incunabolo della Cognizione) Viaggi di Gulliver.
Université de GenèveNote
1. Per una esauriente esposizione dei diversi aspetti, materiali e spirituali, dell’ambiente milanese si rimanda il lettore ai tre volumi del Novecento della Storia di Milano (Roma: Istituto della Enciclopedia italiana, 1995-96). Sugli aspetti più propriamente letterari si vedrà in particolare il contributo di P. Gibellini. Cfr. anche Gaspari 1994: 195-221.
2. Le opere pubbliche di Milano, in L’Ambrosiano (25 ottobre 1935) – cit. in Roscioni 1997: 61.
3. Che sarà evocato in un bel disegno autobiografico (I ritagli di tempo) dell’Adalgisa (RR I 409-23).
4. Pasticciaccio, RR II 159 – dove è anche evocato il «memento tecnico del Bertarelli, del Vitòri, del Lüis», il co-fondatore e animatore principe, e il ritornello dell’orrendo Inno del Touring, «nato in Valtellina alla musa ipocarducciana-iposàffica di Giovanni Bertacchi».
5. Cito, con virgolette mentali, da un Dizionario critico degli anni Cinquanta, e (senza virgolette) da A. Stella, C. Repossi & F. Pusterla, Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi: Lombardia (Brescia: Editrice La Scuola, 1990), 446-54.
6. Cito qui variamente dalle tre Schede biografiche riprodotte in SGF II 871-76. Va da sé che le notizie biografiche qui fornite sono attinte a Roscioni 1997.
7. Si vedano sul tema, etichettato da Gadda di «disperazione urbana», Roscioni 1997: 81.
8. Tecchi ricorderà i compagni di prigionia nel volume Baracca 15 C (Milano: Bompiani, 1961), che a Gadda e Betti è dedicato.
9. L’esperienza sudamericana di Gadda è argomento di un curioso romanzo di E.M. Butti, Indí, del ’93, tradotto in italiano nel ’94 dal Saggiatore col titolo di Pasticciaccio argentino.
10. Lettera a Lucia Rodocanachi del 16 marzo ’37 (Gadda 1983d: 65-66).
11. Lettera del 27 dicembre ’36 al cugino Piero (Gadda Conti 1974: 42).
12. Lettera del 27 gennaio ’37 a Silvio Guarnieri (riprodotta nella Repubblica del 10 novembre 1990, p. 5).
13. Il Giornale venne parzialmente pubblicato una prima volta nel ’55 a Firenze da Sansoni, e una seconda volta, in versione accresciuta ma per volontà dell’autore censurata (specie nei nomi di persona e di luogo) nel 1965 da Einaudi. Lo si legge ora, completo (nei limiti del possibile) e restituito alla lezione dei manoscritti, in SGF II.
14. «Hodie quel vecchio Gaddus e Duca di Sant’Aquila arrancò du’ ore per via sulle spallacce del monte Faetto […]» (SGF II 452).
15. Sarà poi pubblicata nel 1963 in Letteratura. Ora in RR II 925-52.
16. Inedito (ma altri testi editi ne avevano già ripreso parti sostanziali) sino alla ed. einaudiana di Dante Isella nel 1983. Ora in SVP.
17. Uscita postuma nel ’74 da Einaudi per cura di Gian Carlo Roscioni. Ora in SVP. Consiste di una prima redazione più o meno completa e del frammento iniziale di una seconda stesura.
18. Dove compare verso la fine dello stesso ’28. È la pièce de résistance del futuro volume omonimo, il primo volume gaddiano, che uscirà nel ’31 per le Edizioni di Solaria.
19. Lucchini 1988: 13-55 (23) – «Gadda è inetto ad articolare in una trattazione dialettica il proprio pensiero; spesso nel leggere la Meditazione si ha la sensazione di una fissità espositiva, di una mera enunciazione di sentenze non risolte in una trama dimostrativa conclusa». Si veda inoltre Lucchini 1994a: 223-45.
20. Apparirà in volume (una operazione commerciale) solo nel ’71, da Garzanti. Ora nella sezione «Racconti incompiuti» di RR II.
21. Tre frammenti della Meccanica saranno pubblicati nel ’32 in Solaria e quindi integrati nel ’53 alle Novelle dal Ducato in fiamme e, nel ’63, agli Accoppiamenti giudiziosi – dove uno dei frammenti viene ampliato a tutto il primo capitolo.
22. Per il nome si potrebbe ipotizzare un’ascendenza operistica, sulla scorta del Ricciardo e Zoraide di Rossini (1a rappr. Napoli, S. Carlo 1818) o della Zoraida di Granatadi Donizetti (1a rappr. Roma, T. Argentina 1822).
23. Cfr. Roscioni 1995b: 23-43. E realmente esistono due scrittori con due distinte bibliografie: il Gadda delle intenzioni e dei progetti, e quello delle opere realizzate, che spesso sono un compromesso autoriale o editoriale.
24. Si vedano i preziosi dati bibliografici raccolti in Giulio Ungarelli, I lettori di Gadda, in Sebastiani 1993: vii-xxxv.
25. Che nel ’55 entrerà, assieme alla Madonna ed all’Adalgisa, nel trittico einaudiano de I sogni e la folgore. La seconda edizione in volume autonomo è del 1961, nei «Supercoralli» Einaudi. Ora in RR I.
26. Da Giacomo Devoto. La recensione, del ’36, può essere letta in Itinerario stilistico (Firenze: Le Monnier, 1975), 269-302 (269).
27. Così le ultime righe di una nota di presentazione (di mano dell’Autore) ripetutamente comparsa nel ’38 nella rivista Letteratura.
28. Nei nn. 7 e 8 (1938), 9 e 10 (1939), 13 e 14 (1940) e 17 (1941).
29. Nel ’44 due ampi estratti vengono incorporati (sotto titoli banali) agli altri disegni milanesi dell’Adalgisa. Nel ’53 un terzo frammento, La mamma, viene inserito nelle Novelle dal Ducato in fiamme. Un quarto frammento è accolto il 27 agosto ’61 nelle pagine de Il Giorno e verrà poi aggregato nel ’63, a ridosso del volume einaudiano, alla edizione ampliata dei racconti presso Garzanti, col titolo Una visita medica. Sta di fatto, insomma, che buona parte della Cognizione compare più volte nell’opera gaddiana.
30. Del ’32, uscita in Solaria.
31. Citata nella Cognizione sulla scorta di un articolo divulgativo ne Le Temps del 13 aprile ’39 di un allievo di Ernest Dupré, lo psichiatra Benjamin J. Logre, cultore della «critica letteraria psichiatrica».
32. Formulato in veste latina da Montaigne, Essais I, xxi, come Fortis imaginatio generat casum.
33. Il colpevole deve essere l’antagonista di Gonzalo, la guardia notturna Manganones, visto il peso attribuitogli nella invenzione, eventualmente associato col venditore ambulante «tornato di notte», come ipotizza una nota costruttiva.
34. Armoniche linguistiche (il prediletto idioma di Cervantes), e letterarie, e storiche. La doppia simultanea ambientazione pone naturalmente difficoltà alla verosimiglianza narrativa.
35. Si tratta di un triangolo pariniano-foscoliano-manzoniano, i cui vertici sono Milano (Pastrufazio, la città dei pastrügn-pasticci ma così nominata dal generale liberatore e restitutore Pastrufacio-Garibaldi), Como (catullianamente Novokomi) e Lecco (Terepàttola) col suo totem orografico, il Resegone-Serruchón (dallo sp. serrucho , sega), e al cui centro – un po’ dislocato – sta appunto il minimo villaggio di Longone al Segrino (Lukones, da lôkk, balordo, stordito), presso la cittadina di Erba (El Prado), a pochi chilometri da Bosisio Parini, e presso, appunto, il laghetto del Segrino-Seegrün.
36. Che oltre ad essere sovente copia l’una dell’altra, cioè ad iterarsi, possono essere iterative al loro interno, rappresentando il singolo comportamento sullo sfondo di una pluralità di casi omologhi.
37. Qualche titolo (probabilmente redazionale): La donna si prepara ai suoi compiti coloniali (1938); Le funivie Savona-San Giuseppe di Cairo e la loro funzione autarchica nell’economia nazionale (1938); Le ligniti dell’Appennino e la loro utilizzazione autarchica (1939); La grande bonificazione ferrarese (1939); Una nuova realtà nel cantiere autarchico. Aeroplani dalla dolomia, (1941). Alcuni di questi lavori occasionali (di impeccabile scrittura) sono raccolti in Gadda 1986.
38. Una seconda edizione, accorciata a sette disegni, seguiva nel ’45. Nel ’55 l’Adalgisa sarebbe stata integrata al trittico einaudiano de I sogni la folgore, che ora occupa la prima parte di RR I.
39. Ripreso da Letteratura, 6/21 (1942), pp. 28-40.
40. Due teatri popolari milanesi.
41. Un maliziosa allusione al critico amico? – di cui Gadda riproduce testualmente in una nota del terzultimo disegno tutta una scheda su Gaetano Negri (cfr. Gadda 1988b: 8, n. 2).
42. Dante Isella ne ha riprodotto parte dell’ultima redazione del terzo capitolo in Gadda 1995. Cfr. Gadda 2000b.
43. Ma un po’ gaddiane sono anche certe esclamazioni «a denti stretti» del brigadiere Pestalozzi – come ad esempio al pensiero di un autorevole marito e «morigeratore» della «ricolma bellezza d’un seno» (Pasticciaccio, RR II, 230-31).
44. Sineddoche verso il dettaglio concreto, e simmetricamente verso l’astrazione e le serie di accadimenti.
45. Pasticciaccio, RR II, 139 – nel giro di una riga Enea, Anchise, Venere e un bel congiuntivo leopardiano («a chi giovi l’ardore, e che procacci | il verno co’ suoi ghiacci»).
46. I primi passi [sic] di Gadda scrittore. Come nacque il «Pasticciaccio», 29 luglio 1973 (l’articolo è ricordato in Gadda 1983b: 106, e parzialmente riprodotto in Amigoni 1995a: 157-89).
47. Ora riprodotti, e accompagnati da alcune pagine di analisi, nell’Appendice seconda, Il delitto di Via Gioberti, in Amigoni 1995a: 157 sgg.
48. Cfr. Gadda 1998: 29 (29 dicembre ’45): «Bonsanti mi ha dannato a un “racconto poliziesco”, un giallo che non mi riesce»; 31 (27 gennaio ’46): «Ritardo tanto a scriverti […] perché legato al banco della galera da Bonsanti».
49. Il primo è datato gennaio febbraio 1946, così che si dovrà supporre, se si vuol prestar fede a Zampa ed all’Autore, che il fascicolo sia uscito con un paio di mesi di ritardo, e soprattutto che Gadda, per una volta, abbia steso la prima puntata in tempi strettissimi.
50. Cito da un annuncio nelle pagine non numerate di pubblicità del fascicolo 29 di Letteratura.
51. Cfr. Gadda in una lettera del ’57 a Garzanti: «[…] una mia vecchia sceneggiatura del Pasticciaccio completo, sceneggiatura che risale al ’47 ÷ ’48, salvo errore di memoria». Ma per una discussione della datazione e in generale per la storia del trattamento cinematografico si rimanda alla Nota di Alba Andreini in Gadda 1983b: 103-10; e a quella di Giorgio Pinotti in SVP 1403-415 (1403).
52. Ma l’Autore, filologo di poco obdurare, lascia intatto (anzi, quasi intatto, il che è peggio) l’inizio del capitolo seguente, che all’interrogatorio del Balducci nel quarto espunto capitolo di Letteratura si riferiva.
53. Si vedano le dichiarazioni de Il pasticciaccio sulle «anticipazioni […] anacroniche in rapporto alla necessità base del racconto, la salvaguardia del suspense» (SGF I 506).
54. Cfr. ancora Il pasticciaccio, SGF I 511. Sulle origini letterarie del romanesco gaddiano e sulla revisione stessa si vedranno Gibellini 1975: 75-91 – poi Gadda e Belli, in Il coltello e la corona (Roma: Bulzoni, 1979), 164-81; e Pinotti 1983: 615-40.
55. Sono giudizi tratti dalla Storia della televisione italiana di A. Grasso (Milano: Garzanti, 1992), e riportati in Gadda 1997a: II, 73.
56. Ma anche con tratti fisiognomici di Gonzalo: così a p. 16 la «sonnolenza dello sguardo».
57. Sono notoriamente le due funzioni argomentative principali dell’esempio.
58. Lo stesso inconscio desiderio di morte è dell’altra Signora, la madre di Gonzalo nella Cognizione.
59. In questo altro vi è il piccolo capolavoro del paragrafo fonetico-etimologico sul cognome Menegazzi: «Sui loro labbri stupendi quel nome veneto risaliva l’etimo, puntava contro corrente» (RR II 51).
60. Rispettivamente da una intervista del dicembre ’51 (Gadda 1993b: 28) e da una lettera a Contini del luglio ’53 (Gadda 1988b: 88).
61. Interviene anche un mutamento di titolo, da Saggezza e follia a La cenere delle battaglie, e l’integrazione de L’armata se ne va entro il più ampio frammento Cugino barbiere (collocato in apertura) del primo capitolo della Meccanica.
62. è la cauta, e comprensiva, formulazione di R. Rodondi nella Nota al testo di RR II (più che nota, in realtà, esauriente documentatissimo saggio sulla storia delle novelle gaddiane).
63. Cfr. RR II 685: «“…Colpa di quei benedetti zoccoli.” “Che cosa hai detto? di quei benedetti?…” chiese Gigi. “… Dei broccoli, dicevo. Broccoli! broccoli… Sì, broccoli…, come Brescia”».
64. Cfr. A. Sarina, in una tesi ginevrina sull’Incendio (1999). Il primo articolo della serie era comparso nel Corriere della Sera del 12 giugno 1929.
65. Vale a dire «il cartone n. 128 di un grande affresco», e non, come si è voluto vedere, «la redazione iperbolicamente numero 128» dello stesso Incendio. Gadda costruiva sovente per spezzoni – per tessere – i suoi testi di ampio respiro. Si veda del resto la definizione di studi proposta nel Racconto italiano: «tentativi di composizione, pezzi della composizione, da inserire nel romanzo o da rifiutare o da modificare. […] Uno studio è già una cosa completa, finita, se pure riveste i caratteri di tentativo» (SVP 393).
66. Cfr. Gadda 1995 e la già citata tesi di A. Sarina.
67. «Lo salvarono i pompieri, con le maschere. “Se ved ch’el foeugh el gh’à dàa la movüda”, sentenziò il capo drappello Bertolotti a salvataggio ultimato» (RR II 712).
68. RR II 704. Nei tre membri finali del polisindeto par di sentire un’eco di certo verso memorabile dei Sepolcri.
69. RR II – nella Nota (RR II 1295-296) Dante Isella ipotizza che Gadda intendesse riservare questi racconti ad altre progettate raccolte: forse alla Bizza pedagogica del capitano Rufus, accolto dal catalogo dell’editore Guanda del ’43 nei suoi Quaderni della luna, o al Viaggio sidereo del Capitano K. destinato invece a Mondadori.
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ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-16-7
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