EJGS Supplement no. 5, EJGS 5/2007
Archivio Manzotti

Bellotto Painting

Carlo Emilio Gadda - II

Emilio Manzotti

Sommario

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8. Gadda saggista

«Un libro di “Pensieri”, cioè di brevi Saggi eccentrici (morale, pedagogia, costume, satira, ecc.)» è tra i progetti e le promesse editoriali registrate nel dicembre del ’45 in una Sinossi impegni sottoposta all’attenzione di Alberto Mondadori (SGF I 1301). Ivi, un altro progetto registra sotto l’etichetta di Viaggio Sidereo del Capitano K l’altro versante – «satire, fantasie, bizze, utopie, ecc., nel genere satirico utopistico» (SGF I 1302) – meno filosofico e più fantastico, della prosa non narrativa dell’Autore, alla quale si possono ancora ascrivere gli scritti descrittivi, tecnici e meno tecnici (in particolare i reportage di viaggio sparsi in varie opere). Anni dopo, nel dicembre del ’54, a prova dell’importanza che attribuiva a questa parte della sua produzione, Gadda proponeva a Giulio Einaudi un composito «volume saggistico», che avrebbe dovuto contenere, con Le meraviglie d’Italia e Gli Anni (dunque gli scritti descrittivi non tecnici), anche una sezione terza di «Altri saggi non editi in volume per 100 pag.» (SGF I 1303). Realizzatesi da Einaudi, e sotto la guida di Gian Carlo Roscioni, le prime due sezioni (col titolo della prima), l’idea del volume saggistico in senso stretto, il «libro di “Pensieri”» di cui sopra, si concretizza invece due anni dopo, a ridosso del Pasticciaccio, presso Garzanti. Il volume uscirà nel ’58 (lasciata accortamente la precedenza al Pasticciaccio) nella prestigiosa collana dei «Saggi», col bel titolo de I viaggi la morte, ripreso (meno la virgola) dal più antico dei saggi raccolti. Il risvolto di copertina, di penna dell’Autore, si preoccupa di circoscrivere il genere dei testi raccolti (e di dichiararne il taglio idiosincratico), proponendo, per questi pensieri, la categoria classica in ambito francese di entretiens, nella quale andrà tuttavia privilegiata non tanto l’accezione critica, ma quella filosofico-dialogica dell’«immortale autore degli Entretiens (sulla pluralità dei mondi)», l’illuminista sieur de Fontenelle molto amato da Gadda: (70)

Saggi, brevi saggi, è il nome che nelle letterature occidentali si suol conferire a un siffatto genere di lavorucci. Meglio forse varrebbe, per il libro che ci occupa, il francese Entretiens. Il lettore vi potrà scorgere, a dispetto di qualche impressione momentanea, una coerenza tonale nell’istruttoria e nel giudizio delle cause, lievi cause: quella coerenza che al secol nostro si usò chiamare una linea. Il guaio è che la linea del Gadda, le più volte, s’impenna e diverge dalle linee più accreditate: donde la severa imputazione che gli vien fatta, non aver egli avuto la reverenza debita alle linee degli altri, rette o curve che fossero.

L’insistere su Gadda a suo modo saggista, ed in particolare sul volume garzantiano I viaggi la morte, non è casuale. La forma velatamente dialogica e sostanzialmente libera di questi entretiens, in cui l’autore si abbandona senza schermo di finzione narrativa ad umori e malumori, ai ricorrenti dada, ad ogni escursione fantastica che si offra, è a mio avviso assolutamente congeniale alla mens gaddiana, altrettanto e ancora più dello stampo a tessere e struttura elementare dell’Incendio. Consente, secondo il programma di Divagazioni e garbuglio (SGF I 1221-224), di dire (più o meno) per divagazioni «quello che mi piacerà dire con libero estro», cortocircuitando il gusto retrogrado, ottocentesco, da romanzo d’appendice, di molta invenzione narrativa. Non è eccessivo affermare che almeno la Parte prima de I viaggi la morte costituisce uno dei più alti esempi novecenteschi di prosa d’invenzione e di pensiero ad un tempo, da collocare, col Pasticciaccio, la Cognizione ed alcuni disegni dell’Adalgisa, al sommo dell’arte gaddiana.

Concretamente, I viaggi la morte (dedicati a Emilio Cecchi) raccolgono, distribuite in tre sezioni, «24 battute», cioè 24 brevi e meno brevi saggi, interviste, recensioni, che abbracciano un periodo di 30 anni, dal solariano I viaggi, la morte del 1927 all’attualità (1957) de Il pasticciaccio. Alla scelta dei pezzi ed alla struttura del volume, è notorio, hanno contribuito in modo sostanziale, per conto dell’Editore, l’«amico Bertolucci», Attilio, e soprattutto «il dottor Citati Pietro», che come sembra vollero saggiamente escludere dal volume in preparazione «quattro o cinque racconti brevi inediti in libro», finiti poi, probabilmente, nel calderone degli Accoppiamenti. La tripartizione 9 + 13 + 2 de I viaggi la morte appare comunque imposta dalla varietà della materia, e rileva pertanto in ultima istanza, anche se indirettamente, della responsabilità dell’Autore. Questa partizione conduce il lettore secondo un percorso quasi circolare dalla riflessione teorica sulla scrittura e sulla lingua ad applicazioni – letture, recensioni, rimeditazioni – su opere specifiche, ed infine ai due capricci conclusivi sulle categorie prossime di narcisismo (o, alla Stendhal, egotismo) e di egoismo: il bellissimo (ed al solito incompleto: manca l’ultimo momento dei tre previsti) Emilio e Narcisso del ’49 e L’egoista del ’53, un dialoghetto tra Teofilo e Crisostomo, cui fa da pretesto l’omonimo romanzo di George Meredith, ma che riprende temi della prima parte, in particolare l’idea dell’Io in «simbiosi con l’universo». (71)

Va da sé che la parte centrale, che propone esempi o applicazioni, è la più contingente, ed alcuni dei testi (la recensione delle traduzioni della Welt von gestern – il Mondo di ieri – di Stefan Zweig, e di Luna de miel, luna de hiel di Ramón Pérez de Ayala, il discorso per il Premio di poesia Le Grazie, e forse uno o due ancora) avrebbero ben potuto essere rimpiazzati dagli analoghi che ora figurano nella sezione «Scritti dispersi» di SGF I (forse non dalle troppo lessicografiche Postille a una analisi stilistica, per quanto capitali per una discussione tecnica di lingua e stile, ma certo l’Autografo per Giorgio De Chirico, la recensione a Idilli moravi di B. Tecchi, o la Lettera [sulle “macchine”] a Leonardo Sinisgalli). Alcuni, dico, ma certo non tutti, perché la parte centrale contiene pur sempre due testi fondamentali come l’Arte del Belli, che dà ragione delle scelte espressive del Pasticciaccio, e soprattutto I viaggi, la morte, sul topos del viaggio, dell’ultimo viaggio: «Da Le voyage di Charles Baudelaire a Bateau ivre di Arthur Rimbaud», come recita il sottotitolo-epigrafe.

Nove, si ricordava, sono i testi raccolti nella prima parte de I viaggi la morte: nell’ordine, con tra parentesi la data apposta nel volume, data, presumibilmente, di composizione: Come lavoro (1949), Meditazione breve circa il dire e il fare (1936), Psicanalisi e letteratura (1946), Tecnica e poesia (1940), Le belle lettere e i contenuti espressivi delle tecniche (1929), Lingua letteraria e lingua dell’uso (1942), Fatto personale… o quasi (1947), Intervista al microfono (1950), Il pasticciaccio (1957). Complessivamente essi costituiscono, se pure per accenni, una vera Poetica (e Stilistica) dell’Autore, inscindibile (dixit Gadda), per il rapporto biunivoco tra pensiero/vita ed espressione, dall’Etica. I temi svolti sono quelli ricorrenti in tutta l’opera gaddiana: la polemica contro «l’idolo io, questo palo» o «cavicchio» e in particolare contro lo Scrittore-palo, il Vate che «chiuderebbe in sé […] un soprappiù d’energia critica e di chiaroveggente ragione»; viceversa, l’asserzione della scarsa consistenza dell’Io, un «groppo, o nodo, o groviglio, di rapporti fisici e metafisici» e della fragilità nella fattispecie dell’Io-scrittore, che è «spesso un debole, […] una tremula fiammella che fatica a rimaner accesa nel vento: uno di quei fiori-pelurie (pappi, si dimandano), sfere di lanùgine»; o, ancora, la «retorica dei buoni sentimenti» e per reazione il «barocco» e l’«impiego spastico» della lingua e il «Dire per maccheronea»; gli effetti perniciosi che l’espressione falsa può avere sull’azione; e molti altri.

Infinitamente citati dalla critica, questi testi decisivi per la comprensione del pensiero dell’Autore sono stati spesso letti, sospetto, in maniera impressionistica, e intesi quindi solo nelle idee generali, e non nella struttura dell’argomentazione. Ciò non tanto per superficialità di sguardo critico, ma per causa di una loro peculiare opacità discorsiva. All’ermetismo del dettato, in effetti, che contamina registro filosofico e stilus phantasticus:

La qual [la parlata del genere umano, ma tra il pronome e l’antecedente, collocato nel paragrafo che precede, si inserisce una disgiunzione a sette membri!] nasce nell’animo individuo, come pure si genera nell’animo della collettività o d’una parte: e il contagio dall’uno ad alcuni si moltiplica nei contagi da codesti alcuni ad altri, ai più. E tutto un va e vieni di nomi e di modi si diparte, liberato, dall’uno, e gli ritorna, quasi per eco, dai molti: o come stridìo di rondini, che riconduca alla disciplina dello stormo compatto, con quel richiamo, l’ala bizzarra e per sé sola fuggitiva, (Meditazione breve, SGF I 445-46)

(e il campione è dei meno rilevati), viene a sommarsi la scarsa perspicuità delle transizioni, che, come è quasi la regola negli scritti speculativi del Gadda medio e tardo, sono implicite, contro-aspettative, analogiche più che logiche, e ritardano, posponendolo a un dopo che a volte non viene, l’apparizione del successivo anello del discorso – un discorso che pareva seguire un suo razionale andamento di asserzioni, esempi, contro-esempi, concessioni, bilanci, e così via. In questo naturalmente sta il singolare fascino dei pensieri, delle meditazioni estetiche di Gadda, in bilico tra ragione e irrisione, l’intuizione profonda e il teorema, alternando, con la complicazione gratuita, il lazzo formale, lo sberleffo che insorge dalla forma stessa del testo. Si prenda, ad esemplificare il tipo di lettura richiesta, il caso della Meditazione breve. I paragrafi introduttivi annunciano un tema pertinente alle relazioni tra «il dire e il fare» del titolo, anzi, un «mio tema assai scabro», il «primo, per enumerazione, di una serie di temùncoli un poco fastidiosi e zanzare» non svolti però nel seguito, appartenenti al «grumo centrale di una Estetica empirica». Il tema viene poi enunciato, dopo una sua ardua riformulazione più generale (qui racchiusa tra quadre) introdotta da una consecutiva implicita: «tema tale da costituir…», nel modo che segue:

Questo primo tema ch’io dico, da costituir [vincolo e testimonio, quasi, di medesimezza tra l’operazione dell’esprimere sé e quella del fabbricare o costituir sé in dignitosa persona o ente], mi pare possa così formularsi:

«Considerate che un vizio della espressione influisce nei giudizi e però negli atti d’un uomo o d’un collegio di uomini…» Dirà taluno: «La cosa è vecchissima: e il viziato sillogismo che si denuncia ne’ loici come “quaterna di termini”, dove cioè il termine medio è preso in significato diverso nell’una e nell’altra delle due premesse, ascriverei appunto a questo caso che tu dici…». (SGF I 444)

Sin qui il lettore non è confrontato da troppi ostacoli, tranne forse nell’anticipazione in termini astratti del tema (una strana anticipazione, oltretutto, che pone l’identità di espressione ed azione, e non l’influenza dell’una sull’altra). I problemi nascono coi cinque paragrafi che seguono, assolutamente caratteristici del discorrere gaddiano, i quali riportano nell’ordine: 1) una critica all’originalità del tema («La cosa è vecchissima», dato che ad esempio la classica fallacia del sillogismo per quaterna di termini «ascrivesi appunto a questo caso…»); poi, 2) un bislacco esempio per ridere – un esempio di esempio, a ben guardare, e comunque pochissimo perspicuo, tanto da richiedere un ulteriore paragrafo esplicativo – di ragionamento sillogistico fallace per ragioni di forma:

Esempio: Lo sparar calci ne procura la gloria del lunedì – Io sparo calci – Dunque mi procuro la gloria del lunedì.

Dove la locuzione mediatrice «sparar calci» accede alla maggiore e alla minore con due dissimili sensi: ché in maggiore significa di fatto prendere a calci un pallone di cuoio: in minore sostiene solo ch’io mi riduco molesto, co’ miei sofismi, a tutte le persone di cervello riposato. (SGF I 445)

L’evocazione dei «miei sofismi» conduce per associazione d’idee alla riflessione (che però è anche un esempio di quei miei sofismi che mi rendono molesto…) che: 3) lo stesso tema in discussione è un sofisma (in senso lato), perché tutto sembra mostrare che è il giudizio a deturpare l’espressione, piuttosto che il viceversa. Questa riflessione sembra però essere presa in conto, per come è formulata (e per il fatto di seguire un esempio e commento ad personam), dall’autore stesso, e non da una delle voci critiche, e pertanto invalidare la consistenza del tema iniziale:

Ed è poi sofisma il dire che la espressione influisce nel giudizio, e però [= quindi] nell’atto, quando avviene sicuramente il reciproco: il giudizio cattivo influisce nella espressione, la deturpa… Il documento falso ci induce ad asserire cose false… «I tuoi sono riprovevoli sofismi…».

Mentre essa, logicamente, è (o dovrebbe essere) retta dal «Dirà taluno» sopra, e vale quindi come seconda critica dei «Taluni»: il tema è a) scontato, b) sofistico.

L’ulteriore ripresa avversativa del paragrafo che segue: 4) «Però… però…» (in cui l’avverbio però ha il valore corrente e non quello obsoleto ed iperletterario di quindi nell’occorrenza appena sopra) finirà per disorientare completamente il lettore con l’insorgere, nell’alternarsi di voci ed opinioni, di un punto di vista ancora diverso. Il fatto che questo nuovo punto di vista venga poi a coincidere semplicemente, ad uno scrutinio più attento, col tema di partenza non sarà altro che una variante macrosintattica dei «periodi a cavaturacciolo» di cui l’Autore fa ammenda in un altro Entretien della Parte prima. (72)

Il gioco dell’esibire e smontare il ragionamento puro, la deformazione spastica degli strumenti espressivi, divengono insomma elemento costitutivo proprio di quegli scritti teorici che sulla «brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi» (Castello, RR I 119) intendevano razionalmente soffermarsi.

9. Gadda favolista e polemista

Di un particolare e apparentemente marginale (per estensione e tutto sommato qualità) settore della produzione gaddiana converrà dire con qualche dettaglio: quello dei componimenti aforistici o epigrammatici, delle facezie, dei motti, delle moralità, o in breve, col termine scelto dallo stesso autore, delle favole. Concretamente, il centro di questa produzione è il volumetto intitolato Il primo libro delle Favole, pubblicato all’inizio del ’52 a Venezia dall’editore Neri Pozza, il cui titolo, classico, indica ad un tempo la sistematicità dell’operazione, e la sua non-chiusura. Vi sono raccolte 186 favole, 98 delle quali – grosso modo la prima metà della serie – provengono da precedenti sedi in rivista tra il ’39 e il ’45. (73) Il volume di Neri Pozza (successivamente riedito tre volte: Milano, Il Saggiatore, 1969; Milano, Garzanti, 1976; e Milano, Mondadori, 1990, con note e notizie del curatore Claudio Vela) era illustrato da 25 disegni, relativi a singole favole, dello scultore Mirko Vucetich, e si concludeva con una Nota bibliografica dell’Autore in stile antico (una «scrittura esagitata e artificiosissima» con funzione di «presa di distanza», secondo Vela):

Codeste favole ciò è picciole fave o vero minimissime favuzze o faville d’un foco sopr’a duo rocchietti stento e d’una manata di stipa, codeste nugae ove non è Francia né Spagna, né coturno tragico né penziere eccelso di filosafo, sonsi accestite come le foglie pazze del cavolo d’attorno il grumolino qual principiomi germigliar del capo a Panettopoli e fu in luogo d’altra melior escrescenza, o corona, di che non potette unquanco venirmene ’l capo indurato, o coronato, donna non avendo tolta a’ miei anni. (SGF II 65)

Attorno al blocco centrale raccolto in volume (ma che Gadda, non fosse stato il diniego dell’editore, avrebbe voluto più cospicuo), si dispone la trentina di favole disperse (riprodotte in una Appendice di SGF II 951 sgg.) che ci sono conservate «per tradizione orale» o sono attestate (e non respinte – altre appunto ne sussistono di rifiutate) dai manoscritti autografi. Tutta questa attività indipendente di produzione favolistica va vista tuttavia come l’emergenza visibile di una tendenza soggiacente a tutta la produzione gaddiana: quella di risolvere e suggellare una situazione mediante una chiusa epigrammatica, a riassumerla e cristallizzarla, insomma, in un compatto apoftegma. «Ho scelto secondo una logica naturale il termine “favole” – afferma in un’intervista Gadda –, perché assai spesso vi giocano animali. E quando anche non vi siano animali, si tratta di situazioni ultrabrevi, che si risolvono in un breve favoloso epigramma». A favole in questo senso tendono certi paragrafi, articolati in narrazione o riflessione e clausola (qui rilevata dal corsivo), delle opere maggiori: «Avendogli un dottore ebreo […]. Poiché ogni oltraggio è morte»; «Ma tutt’a un tratto, che è, che non è, la “Confidenza” aveva […]. In manus tuas, Domine, deposui, animam meam»; «Ho dunque facilmente riconosciuto anche alla guerra […]. Di tanto differiscono il presumere e il conseguire». O, in altro registro: «Cigolanti poltrone carriolavano stridendo a barricar gli anditi e i quarantottati passaggi […]. O si affiancavano, le poltronacce, in linea di colonne, in anticamera, come ansimanti battaglioni per tutto il Campo di Marte. Battaglioni di zie. (74) E forma di favola, o di explicit di favola, assumono certe «battute da interpolare» registrate nei materiali preparatori. Si ricordi almeno, dai materiali della Cognizione, «La Battistina, in causa del gozzo, non poteva bere che vino del Nevado» e «La razza dei doppi servissi».

Ma si leggano, qui, tre esempi di vere favole del Primo libro: nell’ordine la 1a, la 110a e la 26a:

1. L’agnello di Persia incontrò una gentildonna lombarda, che prese a rimirarlo con l’occhialino. «Fedro, Fedro», belava miseramente l’agnello: «prestami il tuo lupo!» (SGF II 13)

110. Morire per la patria è dolce cosa e onorevole: infatti alcuni sono morti per la patria immortale: ed altri, a guardarla dalle tignole, è bisognato vivessero.
Questa favoletta ne dice: il morto giace, il vivo si dà pace. (SGF II 35)

26. L’autore non può rimpiangere la sua inesistita giovinezza. (SGF II 18)

Ora, queste favole più che favole nel senso proprio del termine sono in realtà aforismi, motti, epigrammi, moralità, facezie, aneddoti, raccontini, invettive o magari asterischi, come la critica le ha successivamente definite. Il fatto è che la semantica del termine favola è in Gadda, dentro e fuori le Favole, estremamente fluida. Tra gli impieghi peculiari e in parte marginali alla raccolta del Primo libro è quello di favola-sogno, favola-illusione, sinonimo talvolta di vita o addirittura di verità: «Si compiaceva che altri ed altre avessero a poter raccogliere il senso vitale della favola, illusi ancora, nel loro caldo sangue, a crederla verità necessaria» (Cognizione, RR I 680); «soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome di verità» (Pasticciaccio, RR II 119). E quello di favola come mentire, bugia, bugìone grandissimo (Meditazione breve, SGF I 447), favola-menzogna, dunque: «Don Ciccio sudò freddo. Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola» e appena sotto «Il mondo delle cosiddette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni» (Pasticciaccio, RR II 119). O ancora, sul versante della scrittura, l’accezione di favola in quanto invenzione (letteraria) gratuita, non retta da una esperienza sofferta: «“Tu fai un romanzo, o favolone che sia, nel quale ti fabbrichi un eroe diritto che piace molto alle femmine […]”. In altra bugia o romanzo (Plato identifica le due brutture) tu fabbrichi […]» (Meditazione breve, SGF I 446-47).

Ma a prescindere da questi impieghi favola vale in primo luogo, nel Gadda favolista, «forma breve o brevissima linguisticamente elaborata e memorabile», una nuga (75) del genere acuminato e aforistico di Catullo o di Marziale. Del resto, a riprova di questo valore basico, un romanzo come si è appena visto non è favola, ma favolone. Più specificamente, la favola gaddiana sarà allora l’icastica narrazione o evocazione di una limitata porzione di realtà (linguistica o extralinguistica, reale o fantastica), che ad esempio cristallizzi formalmente un tema carico di pathos (cfr. la f. 26 citata sopra), una peculiare configurazione barocca del mondo (il pathos sarà allora di segno contrario), o semplicemente una piccola felice invenzione letteraria (come in f. 25, che recupera una «buona favola del buonissimo abate Zanella»). La favola sarà così, almeno in teoria, una luminosa favilla d’acume intellettuale – una favilla fattasi lingua e indistinguibile, spesso, dall’aforisma: «Vivida, come folgore, è scaturita la immagine, dall’accumulo nubiloso dei pensieri» (La «mostra leonardesca» di Milano, SGF I 410 – Gadda a proposito di Leonardo scrittore, la cui «brevità sicura del detto», il giudizio-cristallo, «ci ammalia»). Nel concreto non mancano poi, come si accennerà tra un momento, anche faville di poco lume.

L’accezione descritta di favola-favilla consente di stringere ciò che è il proprio delle favole meglio riuscite: le modalità della combinazione ad alta tensione di lingua ed esprit. Uno degli stampi di questa combinazione è lo schema concettuale dell’adynaton, secondo cui qualcosa di notoriamente indesiderabile o impossibile viene presentato come preferibile o più probabile rispetto ad altra eventualità (si pensi, per un esempio, alla strofetta anticaffè del Bacco in Toscana: «Beverei prima il veleno | che un bicchier, che fosse pieno | dell’amaro e rio caffé»). Costruite, in diversa maniera, sull’adynaton sono ad esempio la f. 141:

Un tale, denominato la Fava, richiedé l’autore ch’elli ascoltasse un poema che ’l detto Fava aveva fatto sulla libertà.
«Preferisco la schiavitù», rispuose l’autore. (SGF II 45)

E la f. 3 – da intendere: «meglio finire tra le fauci del leone che (come autobiograficamente l’autore gasteròpata) sotto il bisturi del chirurgo»:

Il leone saziato s’imbatté in un cronico di stomaco. «Salvami dal chirurgo!», implorò il gasteròpata. (SGF II 13)

E la favola d’apertura citata sopra, «L’agnello di Persia…», nella quale un agnello girellone, agnello esotico di Persia in verità, s’imbatte in una nobildonna lombarda (emblema in Gadda di una femminilità legnosa, di un agire perentorio e imperterrito, di un assoluto volere è potere – prototipo di queste donne dal pensiero elementare sarà la donna Giulia de’ Marpioni nata Pertegati dei disegni milanesi dell’Adalgisa, ma a monte, temo, la madre stessa dell’Autore), e invoca a salvezza la fauce improba del lupo di Fedro: (76) «meglio la morte, che…». Quel che l’agnello – vettore per sua sfortuna di quel desiderabile (dalla gentildonna) vello-mantello di astrakan – paventa è soprattutto la sorte post mortem: l’eventuale contiguità fisica col corpo della nobildonna. La situazione è la stessa della f. 183, nella quale il Volere divino dispone per contrappasso – un altro schema costitutivo delle favole gaddiane – che la collana di perle, insofferente dell’odor di popolo, risieda «vita natural durante, e portante, al collo de la marchesa Maria Carolina Ghiniverti Basobibonio Nasozincone Tettamanti dello Sprocchio di Castelcàvolo, nata dai duchi di Panigaròla, principi di Torreberretti». Al collo dunque di una gentildonna ben lombarda lei pure.

Altre favole sono calate nello stampo di una pseudo-giustificazione analogica di valori della tradizione, di idées reçues, dove non tanto importa il valore, quanto lo schema del gioco. Un esempio caratteristico è la f. 96:

Il pregare Iddio è operazione del mattino. Anche il prendere il caffelatte è operazione del mattino. (SGF II 32)

In altri casi il gioco analogico è tra sportivo e gastronomico: la f. 90, ad esempio, valuta con tale metro, rimodellando la dissacrazione di uno dei miti stoici della romanità effettuata da Marziale (a partire da Livio II 12 e da altri storici) in I 21, VIII 30, vv. 3 sgg. e X 25, la prestazione d’uno stoico d’eccezione, Muzio Scevola, il quale «ebbe nervi speciali, che gli permisero di realizzare un suo speciale rum-steak».

Al livello più basso si trovano le favole costruite attorno ad una battuta di spirito, una battuta, bisognerà ammettere, in genere di non altissimo volo («attaccati…»; «peggio che andar di notte»; «base...melo..., socie...melo...»), una favuzza cioè più che una favilla, ma che pure giustifica con la sua presenza il consistere della favola.

Una particolare funzione di certe favole gaddiane (che si servono allora volentieri del travestimento linguistico in un italiano antico un po’ d’invenzione – cfr. per questo § 10) va individuata nell’aggressione polemica, nel bisogno, quando lo «spirito dello scrittore è preso da un’angoscia, da un’unica: col suo segno, duro segno, reagire alla scioccaggine» (Come lavoro, SGF I 435), di denegare con violenza le «parvenze non valide» (Cognizione, RR I 703). La reazione si serve, nelle favole di questo tipo, della «vividezza […] salace e fescennina della battuta» (SGF I 356), o piuttosto dell’osceno e dello scatologico, si fa atellana o fescennino nel senso di Pasticciaccio (RR II 119-20). Bersaglio polemico principe è il Fava (com’è chiamato Mussolini in Eros e Priapo), la «Fava Unica» d’Italia, di cui sono in particolare sbeffeggiate, in un incontenibile bisogno di vendetta verso chi aveva impersonato e poi tradito il modello d’eroismo degli anni giovanili (si pensi ai ritratti di fascisti delle prime prove gaddiane), la viltà e la sessualità. La dominante – a difetto in Gadda d’una qualunque riflessione politica – risulta spesso pesantemente scatologica, come mostrano ad esempio le favole 111 o 129, senza che il pastiche cinquecentesco («D’occhi vota, e ’n cuffia, la merdosa gli sorrise di duo denti: e gli posò la mano manca in sull’omero […]») riesca a redimere la gratuità d’un oltraggio tanto iperbolico quanto tardivo.

Comunque, la componente polemica dichiara la prossimità, cronologica e d’ispirazione, delle favole al Pasticciaccio, ai suoi excursus psico-politici e di costume, e soprattutto (malgrado l’apparente razionalità da trattatello di quest’ultimo) all’invettiva protratta di Eros e Priapo – di cui ora brevemente diremo.

«Pamphlet psicoanalitico e antimussoliniano», come è stato definito, (77) ma in realtà trattatello di congruo numero di pagine, Eros e Priapo (Da furore a cenere) fu ideato e steso (e, al solito, non concluso) tra il ’44 e il ’45, anche se in un’intervista tarda l’Autore, forse per retrodatare la propria «insofferenza per il regime» lo anticiperà addirittura al ’28. In volume, Eros e Priapo non comparirà che nel 1967, da Garzanti, in forma molto imperfetta, dopo che due capitoli, il VII e l’VIII erano stati parzialmente anticipati nel ’55-’56 sotto il titolo de Il libro delle furie in quattro puntate dell’appena nata rivista bolognese Officina di F. Leonetti, P.P. Pasolini e R. Roversi. Secondo una definizione dello stesso Gadda, il volume – un estremo avatar della tendenza alla meditazione psico-filosofica di cui si era detto in § 3. – tratteggia «il sostrato “erotico” del dramma ventennale testé chiuso: a carattere irruente, e redatto con estrema libertà di linguaggio. In gran parte il testo risulta di una prosa arcaicheggiante di tipo toscano-cinquecentesco, con interpolazioni dialettali varie: (romanesco, lombardo). […] A un contesto di pensiero e di giudizio si mescolano episodi varî, imagini, ecc., registrati in tono umorale». (78)

Introdotto da una Premessa (in teoria) esplicativa nello stile altissimo dell’ultimo Gadda («Qual testimone veridico al ribollire tumultuato del secolo che oggi si dissolve se non il tragittatore che grida guai a le prave anime»), il volume garzantiano si presenta suddiviso in 12 capitoli distinti da un titolo o da un numero: una scansione (poco perspicua) che ha sostituito sulle bozze la precedente in tre grandi sezioni.

Grosso modo, si potrebbero, in Eros e Priapo, distinguere entro la tematica generale della «causale […] “erotica”» all’agire della banda fascista, due parti complementari, la prima (i capitoli iniziali fino al sesto) incentrata sulla figura del Duce, la seconda (i rimanenti capitoli) sul narcisismo della comunità, con una ripresa della tematica dei due scritti finali de I viaggi la morte. Si cercherebbe invano nella violenta invettiva antifascista e soprattutto antimussoliniana (il fascismo essendo identificato all’uomo, anzi al culto del suo corpo) (79) della prima parte la comprensione e l’intelligenza dello storico. Gadda polemista non va molto oltre gli stereotipi della satira popolare, e l’insistenza – in particolare la variazione onomastica («il Mascellone», «il Bombetta», «il Poffarbacco», «il Cupo nostro», «il Gran Maestro», «la Gran Pernacchia», ecc.) – genera rapidamente la sazietà del lettore, e ciò malgrado intermezzi di straordinaria qualità (ad es., la trebbiatura, o il dopo-tè della signora «distintissima e dimolto agiata», SGF II 267 e 287 rispettivamente). Molto più riuscita pare la seconda parte più trattatistica e meno polemica, che davvero fa a momenti rimpiangere il mancato capolavoro:

L’esibizione feminina è del volto, de’ capegli, della intera struttura, delle anche, del flettibile e pieghevol treno postico, delle belle gambe diritte di certa chiantigiana mia dea, così De Madrigal, della parlata pistoiese e della senese chiara e aspretta: et è soprattutto de’ seni e de’ becucci loro sotto a camiscia, nelle più poppute e proterve: nella Zaira del Battifredo [nel Fiore della Mirabilis di R. Bacchelli]. Tantoché le più dilassate, poarine, certe lor poppe d’abisso le ricolgono e sustentano con lacciuoli e reggipetti, con grappini, raffio e arpagone [Giordano Bruno!], sì come ripescar di mare i polpi. (SGF II 359)

10. La lingua di Gadda

«La lingua dell’uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie» non è notoriamente la lingua di Carlo Emilio Gadda, la cui penna, protesta l’Autore, «è al servizio della sua anima, e non fante o domestica alla signora Cesira e al signor Zebedia, che vogliono suggerire dal loro breviario “la lingua dell’uso”, del loro uso di pitta-unghie o di fabbricanti di bretelle» (Lingua letteraria e lingua dell’uso, SGF I 494). Per sé, Gadda, che davvero non appartiene ad alcuna «confraternita potativa», e men che meno a quella di don Lisander, rivendica la liberalità e il lusso (in primo luogo, secondo teoria, lusso lessicale: «I doppioni li voglio, tutti […]: e voglio anche i triploni, e i quadruploni […]: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso rarissimo» (SGF I 490), ma poi nella pratica, per fortuna, anche e soprattutto lusso sintattico), e postula della lingua usuale un «impiego spastico» (Come lavoro, SGF I 437), e cioè una sua distorsione a fini da una parte terapeutici e dall’altra conoscitivi. Un tale spasmo comporta così tra l’altro, con un certo numero d’innovazioni lessicali (i giustapposti del tipo macellai-scimitarra o pitecantropi-granoturco, i conî ciminale, perigurdio o liriopesco, ecc.), la disarticolazione degli stereotipi quotidiani o della tradizione letteraria, i quali veicolerebbero pensiero liofilizzato, e la frequenza di giunture callide (nel senso della Poetica oraziana), che imporrebbero una nuova visione del reale, o ne illuminerebbero aspetti insoliti. Ne risulta una tipica prosa lussureggiante, i cui tratti salienti sono il dispiego delle risorse lessicali, le fratture intonative, in particolare grazie agli incisi, la dilatazione (ottenuta per ipotassi ma anche per coordinazioni disgiuntive «…o…o…o…») di strutture frasali semplici sino a trasformarle in grandi macchine sintattiche, gli sviluppi in termini di riprese appositive a breve e a grande distanza, le associazioni analogiche puntuali e le digressioni recuperate poi al filone principale.

Questa è un po’ la vulgata sulla lingua di Gadda – mirabilmente teorizzata, pro domo sua, negli scritti programmatici che aprono I viaggi la morte, e poi sistematicamente ripresa dalla critica – a cui va aggiunta l’idea della sedimentazione, nelle parole, dei loro contesti d’impiego storici (ad esempio letterari) e contemporanei, e quindi del loro straordinario potenziale metonimico. Una vulgata a cui non c’è molto da eccepire (se non che il lessico, più che ricco, risulta vario, cioè disomogeneo come registro, o mescidato, come si suole dire; e che la prosa gaddiana, fortemente letteraria, abbonda di stilemi figés non sottoposti a nessuna torsione spastica), ma a cui è opportuno aggiungere qualche prospettiva diversa, e qualche etimo mentale. (80)

Il primo punto, già accennato, è la dominante letteraria, e direi anzi aulica, con buona pace di tutti gli stereotipi sull’ingegnere «maniaco dei tecnicismi», della prosa gaddiana, una dominante che è solo in parte intaccata dalle escursioni verso registri bassi. Si tratta di una costante diacronicamente poco variata, ma più evidente (con tracce a volte di mal tollerabile – ora – enfasi simbolista), perché meno dominata, negli scritti degli inizi. Un esempio estremo è fornito dal frammento del Racconto (del 1924), passato poi come Notte di luna nel 1944 all’Adalgisa:

La moltitudine delle piante pareva raccolta nell’orazione, siccome del giorno conchiuso doveva darsi grazie alla Provvidenza. Gli alti alberi, immersi più nella notte, pensavano per primi: e gli arbusti poi e gli alberi giovani che ancora sono compagni delle erbe e ne aspirano da presso il caldo profumo, e le erbe folte ed i cespi con turgidi fiori e tutti gli steli frammisti dell’arborea semenza riprendevano ancora quel pensiero che i grandi avevano inizialmente proposto. […]

Alcune foglie sembravano maioliche d’un giardino dell’oriente ignorato e le dolci, vane stelle vi si specchiavano, per rimirarsi. Nell’olezzo di alcune corolle era un desiderio un po’ malinconico e strano, un turbamento inavvertito dapprima che si faceva un male violento e selvaggio: e allora questo male attutiva ogni ricordo e ridecomponeva il preordinato volere. (SVP 419-20)

Qui la letterarietà e la maniera sono lessicali, con ricorso sostenuto ad aggettivi attributivi preposti e posposti («alti alberi», «caldo profumo», «turgidi fiori», «erbe folte», «oriente ignorato», ecc.) e iterati («le dolci, vane stelle», «desiderio un po’ malinconico e strano», «male violento e selvaggio»), così come a sostantivi e verbi marcati («ne aspirano», «frammisti», «semenza», «rimirarsi», «attutiva»), ma sono anche sintattici (si veda, ad esempio, la subordinata giustificativa introdotta da «siccome»-poiché, con le sue inversioni e cliticizzazioni e costrutti verbali; o il polisindeto a cinque membri «e gli arbusti poi e gli alberi giovani […] e le erbe folte ed i cespi […] e tutti gli steli […]» contenente a sua volta una coordinazione di predicati), e sono soprattutto nelle immagini abbastanza oleografiche (la preghiera unanime dei fiori, le stelle che si rimirano, ecc.), nonostante le suggestioni pascoliane del Gelsomino.

Questo tipo di letterarietà che veicola un pathos religioso o comunque sacrale della natura e della vita, se è presente quasi in ogni pagina dell’opera narrativa, affiora anche negli scritti d’argomento tecnico, che se ne potrebbero pensare immuni. Si legga qui, senza commento, ma con qualche sottolineatura, un passo di Pane e chimica sintetica, del 1937:

Da rilevare appunto come i tedeschi, detentori del processo Haber, acquistarono e fecero montare nella regione della Ruhr impianti Casale di grande potenzialità. […]

Dimezzata la chiara pianura, che si direbbe il fondo di un lago ricolmato, il Nera si getta nuovamente alla valle [è la Belebung simbolista delle preposizioni!] con tutta la fuga delle sue spume. All’imbocco, l’arco del ponte romano sembra misurarne la copia, la violenza. L’acqua incontra nuove opere di derivazione lungo la stretta romita: e, all’uscirne, l’edificio bianco d’una centrale: l’ultima. Lambisce la città dell’azoto dove i gazometri, i forni, le torri, i padiglioni delle fabbriche sono sorti dalle gibbosità del terreno incomposto come una selva dall’umidore del fiume. (SVP 127-28)

Nei (rari) interventi degli ultimi anni la letterarietà si fa più pesante ed omogenea, priva di scarti, con lessico tendenzialmente astratto e sintassi elaboratissima (per quanto al solito essa espanda spesso uno schema semplice sottostante) e molto meno pausata. Notevoli nel secondo esempio qui sotto (che assume un registro storico-filosofico) le ripetizioni, controllate o meno che esse siano: «L’accettazione […] avrebbe forse comportato l’accettazione […]», «[…] fatti e obietti e immagini e significati […] codesti fatti e obietti […]»:

Ed è ultimata da gli stillanti rami dell’olivo e dal màcero pratello che gli soggiace la còlta del suo frutto alimentatore, serbàtone lume quanto fa d’uopo al notturno matèma del savio e alla tutrice antica del pensiero: il quale dirà nei nuovi fasti de’ giorni a venire o per inconsuete lettere al mondo le novelle che gli dèi non sapevano: che Krono stesso ignorò dentro la smarrita acuzie delle rètine di cui forse nemmeno ab initio era provveduto, talché pur oggi, e vanamente, perseguono la inanità sconosciuta del futuro. (Il dolce riaversi della luce, SGF I 1210)

L’accettazione [= l’«accoglienza felicemente corale della nuova poesia» di Montale], chissà, lo stupore d’intendere fatti e obietti e immagini e significati, dilatando i circoscritti lemmi del passato a più ampie e complesse adduzioni idiomatiche e logiche, avrebbe forse comportato l’accettazione d’un nuovo linguaggio, d’uno «stil nuovo» a tutti non anco familiare, se pur vigoroso e valido a rappresentarci codesti fatti e obietti e il risolto lor lume di verità: più, dunque, il loro profondo essere, il loro certo persistere, quali pur si celano o si manifestano anche da lievi o cangevoli parvenze. (Poesia 1931-1932, SGF I 1216)

Per contrasto non mancano le serie puramente nominali, che allineano referenti e spezzoni memoriali secondo associazioni fonetiche («…luci, Lucina, luoghi…»), variazioni sinonimiche e riprese appositive:

Orti e giardini e selvette, luci, Lucina, luoghi di preghiera o di sosta allo schiudersi verso l’antico suburbio le vie. Sacelli per l’implorazione, alla tutrice de’ parti e del puerperio.
Aperto appena il racconto [= il Pasticciaccio], la pietà di cui nella inesaudita speranza della prole si conforta la donna [= Liliana Balducci]: e insieme il presentimento e quasi l’inconscio desiderio del cielo. Gli agi, gli averi, gli ori la circondano: le gemme che la naturale invidia della gente e la cupidigia e la rapina raggiungeranno. Donde il crimine orrendo. (Incantagione e paura, SGF I 1214)

Genitori e figli, liberi e famuli, apre i balconi, apre terrazze e logge la famiglia: la sacra, cara, carissima, e talvolta malauguratamente indispensabile famiglia. (Divagazioni e garbuglio, 1221)

Dunque, per ricapitolare, letterarietà e registro alto come caratteristiche essenziali della prosa gaddiana: una prosa aulica, che rifugge dall’uso se non per citarlo o parodiarlo, nella quale a costituire il traliccio lessicale-sintattico di fondo dominano (come si potrebbe dimostrare) i modelli di Manzoni e di D’Annunzio. E presenza, in questa letterarietà-ambiente, di ingredienti eterogenei, tra cui certo, col parlato popolare, anche il lessico tecnico e scientifico per cui Gadda è conosciuto: un lessico a volte necessitato dall’argomento, a volte conseguenza di una forzata lettura scientifica del reale, a volte puro strumento metaforico. (81)

Il secondo punto su cui ci si sofferma è la presenza, notoria, del dialetto, o meglio di successive varietà di dialetti, nella prosa gaddiana. Da prima il milanese (Cognizione e Adalgisa), eventualmente arioso, del contado nord (nella Cognizione); poi il fiorentino, più o meno arcaico, cioè più o meno letterario, in certi racconti degli Accoppiamenti e altrove; e infine un romanesco (nel Pasticciaccio) di matrice essenzialmente belliana, come è stato mostrato. Eccone tre campioni:

Ona pagüra, ma ona pagüra, cara el me Giròlom!… Pèna me son corgiüda ch’el me vegneva incontra… (L’Adalgisa, RR I 306)

Ova e’ son du mesi che le galline un ne fanno, pòere le mie cocche. (La sposa di campagna, RR II 829)

O è magara un’altra bucìa porca de questo, […] de sto piemontese der diavolo, che j’aritìntica de passà maresciallo a tutti li costi? (Pasticciaccio, RR II 244)

Ora, il dialetto, non è in Gadda, contrariamente a quel che è stato a volte asserito, un ingrediente necessario, a priori, della rappresentazione. Direi anzi, semplificando un po’, che sempre, se si prescinde dagli impieghi associativi, dove, alla stessa stregua dello spagnolo, del francese, del tedesco e dell’inglese, un termine italiano è riformulato dal corrispondente termine dialettale, la presenza del dialetto significa in primo luogo volontà di mimesi di una determinata aura (come la chiama l’Autore) sociolinguistica, notevole, per l’Autore, in positivo o in negativo. Credo vada prestata tutta la debita attenzione, e gli vada anzi attribuita una portata più generale, ad un avvertimento posto in calce al disegno Quattro figlie nell’Adalgisa (RR I 374-75), in cui si segnala come «L’orditura sintattica, le clausole prosodiche, l’impasto lessicale della discorsa, in più che un passaggio, devono […] ritenersi funzioni mimetiche del clima, dell’aura di via Pasquirolo o del Pontaccio: che dico, dell’impetus e dello zefiro parlativo i quali dall’ambiente promanano, o prorompono. E ciò non soltanto nel dialogato, ma nella didascalia e nel contesto in genere». La misura, poi, di questo rifare il verso, e i suoi modi (in genere antirealistici) sono variabili. Nel caso, ad esempio, dei personaggi dialettofoni della Cognizione, le voci potranno di volta in volta essere rese, se in discorso indiretto, con minime emergenze dialettali entro un dettato italiano; oppure, sempre nel discorso indiretto, con una parziale italianizzazione maccheronica (da parte, si badi, dell’autore stesso e non del personaggio) dell’originale dialettale; o ancora, magari, in termini di glosse metalinguistiche sopra un discorso diretto in (quasi) corrente italiano (vi è naturalmente anche il caso, ma più raro, del discorso diretto realistico, cioè regolarmente dialettale). In un passo come il seguente: «e teneva anche qualche libro desoravìa del cifone, per leggere di tanto in tanto anche quello […]. Mentre i contadini, alle otto, son già dietro da tre ore a sudare» (Cognizione, RR I 597) – accanto al dialettale desoravìa troviamo lo pseudo-italiano cifone, lomb. cifòn, comodino, e il costrutto son già dietro a…, un calco della forma progressiva (= stare + gerundio) dei dialetti lombardi. Altrove si ha invece un sottile commento grammaticale su una equivalenza di traduzione: «“Ho fatto tardi quest’oggi, a momenti è già qui mezzogiorno”. “Quimoto a luogo si dice “sciànei dialetti della Keltiké» (RR I 609). Poche sono però nel discorso del narratore – et pour cause – le tracce dialettali, perché, come il protagonista Gonzalo, il narratore si distanzia da un dialetto rustico, che non quello di Porta (ma anche se lo fosse non cambierebbe molto), e che giunge ad abominare.

Diverso è il caso del Pasticciaccio, che è dominato dal romanesco con sporadici episodi di molisano (Ingravallo), di napoletano (il dottor Fumi) e di veneziano («Una volta no te geri così lazaron»), quando prende la parola la Menegazzi. Anche nel Pasticciaccio si caratterizzano tramite il dialetto le voci e la natura dei personaggi, con una mimesi applicata selettivamente quasi solo ai registri bassi, dialettali – nulla sappiamo, per fare un esempio, della intonazione della signora Liliana, forse perché il suo parlato è privo, come Liliana, di carnalità. Così, certe battute dei personaggi rifletteranno, ma non sistematicamente, la loro verità linguistica – si pensi ad esempio: «“Sei stata tu,” [Camilla] fece sommessamente a Lavinia, mentre le arrivava a portata di coltello […] “Io?” fece Lavinia, “ecché, te saressi forse ammattita?”» (RR II 240), o poco oltre entro lo stesso dialogo: «“Sì, sei stata tu, brutta spia,” diceva a mezza voce, in un’ira più verde ancora della faccia. “A fa la ciovetta sei brava, ce lo so. Oggi come oggi, magara, je piaceva pure d’aritrovasse quarche vorta co te: je facevi commodo, ar tu’ ganzo”» (RR II 241). Così come rifletteranno la loro verità certe descrizioni di personaggi: «Poco più in là, sul margine alto del prato, due ragazzette a bocca aperta staveno a guardà co le mutanne lunghe e certe scarpe senza lacciuoli da fratello granne» (RR II 240). Ma la grande differenza, rispetto alla Cognizione, e anche all’Adalgisa, è che stavolta il narratore aderisce senza prevenzioni all’aura linguistica romana, che ricorda di tanto in tanto, a distanza e frequenza variabili, indipendentemente dalla presenza di un personaggio-locutore (alla soluzione gaddiana si ispireranno poi molti). Il discorso del narratore diventa così a tratti polifonico, facendo affiorare, a volte in modo massiccio, a volte per un minimo scarto consonantico (RR II 191: «una prossimità chiara d’infiniti penzieri e palazzi»), la voce di un ipotetico e generico locutore dialettofono, con funzione, si potrebbe dire, antiletteraria, e magari di coro, di commento. Per un esempio si pensi alla doppia insorgenza dialettale (che comporta uno scarto verso il basso del registro) nella descrizione paesaggistica di registro letterario alto nelle prime pagine del cap. VIII:

Era l’alba, e più. Le vette dell’Algido, dei Carseolani e dei Velini inopinatamente presenti, grigie. Magia repentina il Soratte, come una rocca di piombo, di cenere. […] Di là, da dietro a Tivoli e a Càrsoli [sic], flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, con falsi-fiocchi di zafferano, s’avventavano l’una dopo l’altra a battaglia, filavano gioiosamente a sfrangiarsi: indove? dove? chissà! ma di certo indó l’ammiraglio loro le comandava a farsi fottere, come noi il nostro, con tutti i velaccini in tiro nel vento. […] La metà opposta del tempo, là là sopra il litorale di Fiumicino e di Ladìspoli, era un gregge color marrone, sfumava in certe lividure di piombo: pecore da broda strette, compatte, addentate in culo dal suo cane suo di loro, il vento, quello che butta il cielo a piovorno. Quarche tuono, rrròoo, fijo d’una pignatta! ebbe er grugno pure de fasse sentì puro lui: alli ventitré de marzo! (RR II 190-91)

A riflettere più in generale sulla presenza e sulle funzioni del dialetto nell’opera di Gadda colpisce il fatto che il giudizio, implicito o esplicito, sull’espressione dialettale sia in genere tanto positivo. L’Autore sembra assaporare, con l’eccezione notevole del «dialetto orribile» nella Cognizione, le battute dei propri personaggi: «“Se ved ch’el foeugh el gh’à dàa la movüda”, sentenziò il capo drappello Bertolotti a salvataggio ultimato» (L’incendio di via Keplero, RR II 712). La chiave – preso atto, con un certo scetticismo – della dichiarazione di una lettera del ’46 a Contini, secondo cui il «dialetto è la mia forma di accostamento al pòppolo» (82) – ci è data da alcune dichiarazioni di una intervista del ’59 in cui affiora un sorprendente atteggiamento, che si potrebbe quasi qualificare vichiano, nei confronti del dialetto:

Nel valermi del dialetto e nel cercare le forme espressive del dialetto […] io ho creduto di poter attingere a una fonte di espressione immediata, originaria e talora più efficace delle forme razionali della lingua comune, in quanto il dialetto nasce da una più spontanea e ricca inventiva, sia dell’individuo creante la lingua, sia della collettività. […] io ho subìto il fascino del romanesco, nel suo momento sorgivo, inventivo, in quanto a me non romano anche la frase consacrata in un determinato senso, appariva nel suo sorgere originario. Il fatto che io abbia usato anche il romanesco, nel mio lavoro narrativo, è da considerare come un tributo di simpatia vitale per questo valore idiomatico. (Gadda 1993b: 69)

Il dialetto è dunque per Gadda una Ur-forma d’espressione, poetica in quanto originaria e primitiva, non intaccata dagli stereotipi linguistici e sociali, emanata dagli strati profondi dell’essere, «su, su, dalle città gremite, dalle genti, da ogni cantone di strada, da ogni spalletta di ponte: delle brune piagge, e dal popolo distorto e argentato degli ulivi, che ascendono il monte» (Pasticciaccio, RR II 120) e propria quindi ai personaggi non acculturati, incontaminati, vitali (tra cui, in primis, gli ex-lege del Pasticciaccio). Il dialetto non è insomma per Gadda una lingua per esercitazioni accademiche, e soprattutto non è una lingua adatta agli storiografi della verità al servizio del Reggitore. A monte di questa magnanima illusione vi è naturalmente il dato psicologico elementare, di cui Gadda stesso è cosciente nel secondo passo citato sopra, che l’espressione, in una lingua o dialetto diverso da quelli usuali del locutore, appare più efficace e più nuova (per la stessa ragione Gadda ama tanto lo spagnolo simile e sottilmente diverso dall’italiano). Il caso del dialetto di segno negativo della Cognizione, infine, sarà dovuto oltre che alla vis polemica nei confronti dei calibani dialettofoni anche alla usuale svalutazione delle varietà rustiche rispetto a quelle cittadine, ed alla competizione tra varietà prossime, ognuna delle quali percepisce in negativo la concorrente.

Ma vi è ancora un punto fondamentale a proposito dei dialetti, e in generale delle scelte linguistiche di Gadda. A credere all’Autore, e non vi sono stavolta ragioni per dubitare, il ricorso ai dialetti servirebbe anche a «sfuggire a quel più formidabile dialetto che è la lingua toscana (Compagni, Sacchetti, Cellini)» (Gadda 1993b: 30) nelle sue manifestazioni, a tenersi agli esempi addotti, più letterario-spontanee. Singolare è in effetti il rilievo che occupano nella produzione gaddiana i pastiches in italiano antico, un fatto su cui attira l’attenzione l’Autore stesso a proposito delle Favole:

Molte di queste «favole» sono scritte […] in lingua italiana arcaica, arieggiante a modelli del ’300, ’400 e ’500, da Dino Compagni al Villani, dal Cellini al Machiavelli […] questo rappresenta per me […] una soluzione irresistibile. D’altra parte, non sono nuovo a tali esiti formali. Soluzioni formali del genere possono trovarsi con facilità nella mia produzione precedente. Per esempio, nella prefazione al Castello di Udine, che ha per titolo Tendo al mio fine. Direi che sono stato sempre ossesso [sic] da questa «prosa» toscana: anche Dante, Compagni, Machiavelli. (Gadda 1993b: 27)

E davvero di ossessione si può parlare per questa costante della scrittura gaddiana, riscontrabile (spesso in apertura, e a volte con stridenti dissonanze coll’inizio vero e proprio della narrazione, come accade nella Meccanica) dal Giornale di guerra e di prigionia, alla Meccanica, in apertura, al Castello di Udine, sempre in apertura, agli interi Viaggi di Gulliver, almeno ad un pagina della Cognizione (sul cui «stato di lingua immaginario» si è fermato Contini: attender si pòssino, arebbe scogitato, ecc.), alle citate Favole, passim, e a tutta la lunga Nota bibliografica che le accompagna, sino ad Eros e Priapo, al solito in apertura (ma anche passim): «Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare […]» (SGF II 221), per non parlare di molti passi della corrispondenza. Qui, nell’ordine con cui li si sono evocati, e a suggerire la consistenza del fenomeno, alcuni campioni che esibiscono appariscenti arcaismi lessicali e morfologici (specie nelle coniugazioni verbali e nella distribuzione degli articoli) e fonetici (i troncamenti) e grafici:

Hodie quel vecchio Gaddus e Duca di Sant’Aquila arrancò du’ ore per via sulle spallacce del monte Faetto, uno scioccolone verde per castani, prati, e conifere […]. (Giornale, SGF II 452)

Ma, davanti l’ombra de’ monti e sotto li stellati cieli della notte, per entro e per fuora le vene delli umani e il popolo immenso delle foreste, de’ tenebrosi fatti delle lor anime non ha sortilegio da predir se non pochi […]. (Meccanica, RR II 467)

Tendo a una sozza dipintura della mandra e del suo grandissimo e grossissimo intelletto: tendo a far che vàdino contenti li eroi; darò loro cignale e vitellozzo a mangiare e molto mescerò perché molto bevino […]. (Castello, RR I 120)

Sicché lichâlets [sic], che li Sguizzeri di molto bosco li fanno con adagiar travi e legni sopra quattro cappelle di sasso, le quali salvino il legno dall’umido e tutta la casa dalla rampicata de’ sorci, e poi li rivestono d’assi annerite con il fummo […]. (Viaggi di Gulliver, RR II 957)

E pur tuttavia sendo valorosissimi omini, e cittielli di grande animo e pittori e poeti, che ’n sì trista coniunzione de le duo spere, e de’ funesti lor lumi, e ’ntanto ragghiare del Somaro-in-tromba facevino e davino da sotto al torcolino loro quel meglio, o quel meno peggio, che ’n tanto suspetto si potessi dare per istampe […]. (Primo libro, SGF II 71)

Come etichettare nelle sue ragioni il fenomeno? Certo non come estetismo antiquario – di cui pure Gadda aveva modelli, lessicali e di grafia, nel «divino Gabriele». In qualche misura direi che è operante anche qui, come s’è ipotizzato per il dialetto, il gusto materico per una lingua estraniata, che non sia solo un veicolo trasparente del pensiero. E sarà altresì operante il bisogno di moltiplicare le manifestazioni della polifonia, che è, come diremo tra un istante, il modo d’essere della mente gaddiana. L’etimo profondo mi sembra tuttavia vada cercato nell’altra tendenza propria a Gadda: quella di distanziare, dominandola, la propria materia: a cui non si consente di manifestarsi se non dopo essere stata sottoposta ad una spinta elaborazione intellettuale. Non per nulla i modi più caratteristici della rappresentazione gaddiana sono lo scherzo e l’ironia. Ecco, alla scelta gaddiana di travestire l’attualità, a volte la scottante attualità biografica, e in generale la rappresentazione, avvolgendole in una veste linguistica desueta, sembra presiedere la stessa operazione mentale del descrivere per contrasto una situazione bassa in stile elevato (contemporaneo), cosa che è la regola in Gadda. Si ricordi almeno una terna di passi scatologici (in ordine cronologico di composizione), accomunati dalla ricercatezza stilistica, che li sublima, che avvolge cioè l’ingrata materia di una trasparente ma impenetrabile protezione di cristallo:

[…] gli si erano invece spalancate tutt’a un tratto le cataratte dei bronchi e allentati, nel contempo, i più valorosi anelli inibitivi dello sfinctere anale, sicché fra urti di tosse terribili, […] nello spavento e nella congestione improvvisa […], finì, anzitutto, con l’andar di corpo issofatto dentro la veste notturna: a piena carica: e poi per estromettere dalle voragini polmonari tanta di quella buona roba […]. (L’incendio, RR II 712)

[…] od oblìo d’un rugginoso baràttolo, vuotato, beninteso, dell’antica salsa o mostarda: tratto tratto anche, sotto il livido metallo d’un paio di mosconi ebbri, l’onta estrusa dall’Adamo, l’arrotolata turpitudine: stavolta per davvero sì d’un qualche guirlache de almendras, ma di quelli! (Cognizione, RR I 713)

Nel frattempo, senza darlo a divedere tuttavia, si sforzava jugular l’evento, quello, dei tre soprastanti, che più paventava e aborriva nel tormento dei visceri: con raccomandarsi di preghiera in brucio a Sant’Antonio di Padova miracolatore amorosissimo a tutti noi, anche però in una ai buoni uffici (nel trascorso di lei tempo automatici) del plesso emorroidale medio, plexus haemorroidalis medii. Pervenne infatti alla deliberata strizione dei più quotati anelli rettali, se pur estenuati da vecchiezza […]. (Pasticciaccio, RR II 219)

In certo modo è vero che l’opera narrativa di Gadda, apparentemente realista, e maniaca dei dettagli («L’ante di legno, a le finestrine, una a chiudere, una a sbattere: senza pittura che pur fosse e di già putride o di già scheggiate nel tempo, nel vaporare eguale degli anni. In luogo d’un vetro carta unta, a un telaio, o un rugginoso ritaglio di bandone» – Pasticciaccio, RR II 270) è tutta di secondo o terzo grado rispetto al referente. A prender le distanze, servono di volta in volta, o tutti ad un tempo, l’umorismo, l’ironia, i travestimenti narrativi, e la lingua fattasi schermo: nella fattispecie un registro eletto incongruo rispetto al denotato, o una varietà diacronicamente lontana – e cioè, nei due casi, si potrebbe dire, una espressione tra virgolette. Sul versante dei risultati espressivi, infine, e della loro valutazione, va ben detto che la via del pastiche arcaizzante è di per sé problematica, in quanto essa neutralizza, a favore di un registro omogeneo nella sua falsità, le altre tecniche di complicazione e di variazione dell’Autore, in particolare le escursioni polifoniche, e risulta alla fine, se protratta (come nella Nota delle Favole), relativamente monocorde. Ciò non toglie che il pastiche eroico che apre il Castello di Udine, così come quello eroicomico dei Viaggi di Gulliver, siano due mirabili riuscite espressive.

L’ultimo punto che si toccherà, infine, riguarda il fenomeno della metonimia, della associatività, e quello apparentato (un modo del precedente, quasi) della polifonia, dell’evocare più voci nel testo, assegnando loro la responsabilità enunciativa di frasi o segmenti di frase successivi. La scrittura gaddiana, si può affermare, è sempre per sua natura sostanzialmente metonimica, retta com’è da un bisogno di omnia circumspicere (secondo la felice formula di Roscioni), di tutto evocare, di non perdere nemmeno una delle associazioni che collegano ogni entità ad ogni altra entità. Fili innumerevoli sembrano andare da ogni parola o costrutto della pagina verso ogni entità del mondo – oggetti, persone, situazioni, ma anche e soprattutto altre parole e costrutti –, verso il passato e il futuro, verso tutto ciò che è in qualche modo accessibile su una rete di causalità o di somiglianza. Donde l’impressione, alla lettura, d’una straordinaria complessità e densità, perché oltretutto ogni aspetto dei molti è trattato come strutturalmente significativo al pari degli altri. La controparte di questa metonimia generalizzata a più voci sarà a volte il turgore stilistico della pagina, l’eccesso del dettaglio, il cumulo di riformulazioni parafrastiche, la ritardata e faticosa progressione, e tutto sommato uno svalutarsi del narrare.

Un esempio, non so bene se in positivo o in negativo, ma esempio comunque di esplosione associativa e della conseguente labirintica complessità (che la sintassi magistralmente frena e moltiplica), è dato dal passo centrale e conclusivo della citatissima ecphrasis degli ori, ossia dei gioielli, nel Pasticciaccio, che varrà la pena di citare per esteso, anche per il suo modernismo d’esibito esercizio descrittivo. Si noterà che nella seconda parte la descrizione si configura, grazie al soggetto collettivo (di materia) corindone (con apposizione al plurale: pleòcromi cristalli, ripresa più oltre da un singolare quantificato universalmente: ogni gemma), ed alle molteplici disgiunzioni, come riassuntiva delle precedenti descrizioni puntuali delle singole gioie:

[…] E un anellino di fil d’oro, con un chicco rosso di melagrana da beccarlo un pollo: e un dondolino ultimo, un gingilluccio, quasi una palletta di blu di metilene da cavare il giallo al bucato, tenuto da una calottina d’oro e da un pippolo: e tramite questo appendibile, per maglia d’oro, ad altro e altrettanto essenziale organo del finimento, vuoi della ricolma bellezza d’un seno, come anche del maschio risvolto del bavero o della panciatica e orologiata autorità del tutore di codesto seno, amministratore, morigeratore e in definitiva consorte, «e babbeo del diavolo!» ideò il Pestalozzi a denti stretti. […] Il corindone, pleòcromi cristalli, si appalesò tale di fatto sul bigio-topo dell’ambienza, venuto di Ceylon o di Birmania, o dal Siam, nobile d’una sua strutturante accettazione, o verde splendido o rosso splendido, o azzurro notte, anche, un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido di Al2 O3 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio: a dispetto del valore-lavoro del Tafàno. Tafàno di Revello ch’era per durare in seggiola un’ora, capintesta economista del Dindo e ministrogallo delle di lui buggerate non-finanze: che ad un mover di ciglia del Caciocavallo stesso avrebbe disvelato agli italiani il nuovo cielo dei valori infiascabili, sostituendo, nella fascia zodiacale del credito e della circolazione monetaria, alla bilancia dell’oro che andò poi a Ramengo a liquefarsi, lo scorpione delle panzane che non se ne andranno mai più: E la talianka, di quel fiasco, ne bebbe a gargana avidamente. (RR II 230-31)

Si constaterà per finire che la nozione di metonimia polifonica, una vera e propria cifra stilistica di Gadda, consente di ricondurre ad uno le diverse manifestazioni, di ambiti tra loro anche molto distanti, del caleidoscopio rappresentativo. Siano qui ricordate almeno le seguenti: (I) l’accostamento ad una parola delle sue trascrizioni in altri registri o dialetti o lingue; (II) la frequenza (già ricordata sopra) della disgiunzione «…o…o…o…», che consente di moltiplicare le facce del dato, di vedere una situazione contingente sullo sfondo di tutte le sue potenziali alternative; (83) (III) la ricchezza di comparazioni di vario tipo, di divagazioni, di digressioni; (IV) il lasciarsi guidare nella progressione tematica da associazioni di significante; (V) la diacronia immanente nella caratterizzazione di entità sincrone: alla contingenza del presente sovrapponendosi modalità del passato e ipotetici sviluppi futuri; (VI) l’affiancare alla rappresentazione il momento speculativo del commento o della valutazione: un’associatività metalinguistica che genera fasce testuali sovrapposte, con continui passaggi dall’una all’altra; e (VII) il provvedere il testo di introduzioni, avvertimenti, postfazioni, note, e note bibliografiche: cioè di tutto un imponente paratesto destinato ad incrementare il contrappunto, e che stavolta, rispetto al caso precedente, è materialmente esterno al testo.

11. L’opera di Gadda nella narrativa italiana del Novecento

Non è fuori luogo sostenere che il caso del maggior prosatore del Novecento italiano permane – malgrado i tentativi di integrazione a linee o correnti (espressioniste o altro) e le posteriori rivendicazioni di paternità – sostanzialmente isolato nella storia letteraria del secolo. Singole componenti, linguistiche e tonali, della sua scrittura si possono facilmente allacciare a modelli prestigiosi (anche) novecenteschi – diremo in particolare di un Gadda dannunziano –, e si prestano viceversa alla ripresa e alla variazione, come è accaduto per il mélange di italiano e dialetti e per certo impasto espressionista. Ma il complesso dell’operazione gaddiana, le sue motivazioni, la funzionalità dei singoli ingredienti sono del tutto idiosincratiche.

Se si ragiona a posteriori, a partire dalle opere della maturità (e non dagli esordi), la classe di affini a cui appartiene Gadda sarà quella di scrittori – molti dei quali saggisti – che, semplificando, si servono (ognuno a suo modo) di una lingua inaudita, fantastica, spastica per scoprire i propri referenti o per crearli. Tra questi non tanto gli espressionisti in senso stretto, vociani (ad es. il grande Boine del Peccato, di Plausi e botte, dei Frantumi) o altro, che mediante la lingua costruiscono il proprio Io (cosa che naturalmente fa anche Gadda), quanto, magari, Emilio Cecchi, lo stesso Contini e soprattutto Roberto Longhi (molte tracce di una ammirata lettura sono reperibili in diversi luoghi gaddiani). Si pensi, per un esempio tra i tanti, a come Longhi, in un bellissimo passo (84) del suo Piero del ’27:

i corpi fecero muratura cromatica con i fondali intermessi, ed ecco: tra gli altipiani di un’umanità generica, e, ahimè, alquanto disumanata, aggallarono i ritagli dei secondi e degli ultimi piani; tra le facce atterrite dei guerrieri coronati di mazzocchi apparvero fantasmicamente le arance degli orti, i solchi nei campi; accanto alle gambiere d’acciaio i tronchi degli alberi, accanto ai cinturoni d’argento i nastri dei fiumi; tra le lance le foglie dei sempreverdi,

riveli sotterranee analogie di consistenze e di tinte, nella pittura di Paolo Uccello, tra i corpi e le forme della natura. Le categorie che Contini nella Prefazione alla scelta di scritti di Longhi nei «Meridiani» Mondadori (1973) applica al funambolismo descrittivo di Longhi – «animazione antropomorfica impressa […] alla realtà studiata», «convocazione di tutte le arti e le tecniche possibili perché offrano le loro riserve di metafore a un poliglottismo di cui non si è ancora dato un così estremo esempio» (p. xix) – valgono alla lettera anche per l’invenzione linguistica di Gadda, se non sono poi semplicemente state trasferite dal secondo al primo.

Nel registro degli affini novecenteschi potrebbe poi comparire il nome del dimenticato (in quanto scrittore) viareggino Lorenzo Viani: meno per i momenti di espressivismo un po’ troppo carico e scontato (85) che per certe energicamente perspicue descrizioni, come ne Gli ubriachi (1923):

Era il muro di cinta di un convento di monache, centrato in un orto grande, tra viali di cipressi […]. Una suora attingeva acqua da un pozzo a carrucola e colmava due pile di pietra bianca entro le quali due altre suore nettavano erbaggi.
Il giardiniere, intanto, zappava sotto un uliveto folto.
La campanella del portone grande squillò forte: le suore si volsero tutte bruscamente e gli scuffioni bianchi ondeggiarono come bianchi uccelli marini. (Viani 1962: 15)

E ancora, passando risolutamente alla seconda metà del secolo, e insistendo ancora sulla affinità (perché altrimenti la differenza è grande) i nomi di Luigi Meneghello, soprattutto in Libera nos a malo (1963) e in Pomo pero (1974), testi dalle straordinarie escursioni di lirismo fantastico (come la fine del cane Rol, che «un giorno un marrano prezzolato […] fece svoltare non per l’onesto sentiero di destra, diritto, sgombro, tra ordinate colture, ma per l’erbaceo, sghembante, sentiero a sinistra, invaso di glauca natura. Le piante sfuggite al guinzaglio, le ortiche, le felci; la nogara nutrita da magre gocce di fiele, l’amolaro sfibrato dal troppo figliare, coi figlietti verdognoli aggrappati sui rami […]»; (86) e di Vincenzo Consolo, per l’impiego materico degli elenchi e delle serie sinonimiche, ma anche per il pastiche, la parodia, e la sintassi liricamente frammentata (come nel passo che segue):

Dentro il fitto intrico della cerchia e la curva larga in cui nei muri, negli accessi, erano ancora i segni del Naviglio. Lento, nel volgere del buio al grigio, nel primo movimento delle vetture, si trovò sui gradini della chiesa, in faccia all’ospedale. Guardò là, oltre il cancello, la guardia, gli alberi, il padiglione del soccorso. Dell’inutilità d’ogni intervento. In cui s’era conclusa, cruda, la sciagura. S’apriva la frattura, irrompeva la più grave pena, il rodio perenne, l’arresto d’ogni tempo, il vuoto e il silenzio. (87)

(Entrambi, Meneghello e Consolo, mostrano comunque anche nei momenti patetici un controllo moderno, cioè di grado nettamente superiore, dell’enfasi lirica e della letterarietà.)

Come autore, Gadda, lo s’è visto, cresce nell’ambiente di Solaria, la rivista fiorentina (1926-1934) fondata da Alberto Carocci, le cui pagine «manifestavano la persuasione che la letteratura italiana contemporanea non era che una provincia della più vasta letteratura europea, e neanche la provincia più splendida», (88) un atteggiamento intellettuale in cui certo Gadda si sarà riconosciuto. E in Solaria, fucina mirabile di cultura nuova, (89) Apologia manzoniana, I viaggi, la morte o Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche si affiancano a scritti di Svevo, di Saba, di Montale, di Vittorini, di Loria, di Solmi, della Manzini. Si cercherebbe tuttavia invano, tra i diversi collaboratori, un denominatore comune letterario in cui trovi posto la specificità gaddiana. Questa specificità, oltretutto, risulta costituita da tratti tra loro parzialmente contraddittori o per lo meno eterogenei, che possono suggerire (e hanno suggerito) legami da una parte con forme e registri della tradizione; e dall’altra con la rottura rispetto al passato e l’avanguardia.

Di una estetica che può apparire, oggi, remota, Gadda condivide il gusto della pagina ben scritta, della formula impeccabile che si stampa nella memoria. L’idea che la lingua sia un veicolo in sé neutro di contenuti gli è del tutto estranea – anche quando gli accadrà di lodare l’esatto elenco del magazziniere. Per il suo temperamento lirico Gadda non poteva non essere in certa misura un calligrafo (secondo l’etichetta di G.A. Borgese), (90) vale a dire uno scrittore forse non «tormentato dal problema della bella scrittura», ma certo sensibilissimo alla lingua, tanto da rimproverare a Foscolo, a Carducci, a Pascoli clamorose cadute espressive. La prosa d’arte rondista (Bacchelli, Baldini, B. Barilli, ecc., e anche Cecchi), col suo programma classicistico di «equilibrio formale», così come il frammento lirico vociano (e il frammento rondista), sono modelli soggiacenti, inconsci forse, ma senz’altro operanti in Gadda.

Ad un altro modello, del resto non troppo lontano dalla prosa d’arte, Gadda è sicuramente debitore per una delle componenti della sua scrittura: intendo il D’Annunzio dei romanzi (e ciò malgrado i successivi duri giudizi sul «vuoto torricelliano» delle pagine), in particolare del Trionfo della morte. Della prosa dannunziana – ma come potrebbe essere altrimenti? – è la frammentazione emotiva della sintassi nei momenti lirici («Gli alberi, fuori, udiva, davano rade stille, verso notte, detersi come da un pianto» – Gadda o D’Annunzio?). E molto lessico alto viene a Gadda, che lo impiegherà a volte parodisticamente (come gli accade nella Cognizione per l’«Onta | dell’Uomo» dell’Elettra), anche dalle amatissime Laudi. (91)

Simmetricamente, le caratteristiche moderne della scrittura di Gadda, il suo lavoro sulla lingua, liberata (a volte) dalla soggezione alla logica del discorso, e l’avere (involontariamente) contribuito alla fine della narratività tradizionale, hanno favorito l’appropriazione di Gadda da parte delle avanguardie (penso in particolare ai critici ed agli scrittori del «Gruppo 63», o vicini ad esso, come Alberto Arbasino, cui si deve la formula dei «nipotini dell’ingegnere» – Arbasino 1971), che ne hanno fatto un antidoto a Cassola e a Bassani, rivendicando una improbabile filiazione.

12. La critica e Gadda

Contrariamente all’opinione corrente (costruita sulla iper-reattività dell’autore stesso ad ogni censura per lieve che fosse), Gadda è stato felicemente gâté dalla critica sin dagli inizi. I due primi volumi dell’outsider ingegnere aspirante letterato, la Madonna dei Filosofi del ’31 e il Castello di Udine del ’34, vennero recensiti, in negativo ma soprattutto in positivo, da studiosi illustri, che rispondono ai nomi di Alfredo Gargiulo (accanto al «Gadda umorista, ironico, satirico» Gargiulo aveva visto anche un «Gadda incomparabilmente “maggiore”»), Giuseppe De Robertis (Gadda «descrittore lirico tra i più perentorii») e Giacomo Devoto («L’alta intelligenza, la ricchezza lirica, la forte personalità di Carlo Emilio Gadda compaiono riunite in questa rievocazione del mondo dei combattenti»). L’ammirazione e l’affetto di Gianfranco Contini, il grande maestro della generazione successiva, accompagneranno per quarant’anni, sino alla fine, lo scomodo amico. E Bigongiari e Cecchi diranno dei Racconti e della Cognizione cose bellissime.

Le riserve della critica degli anni Trenta, che tanto irritarono Gadda, coglievano aspetti effettivamente ancora irrisolti nella ricerca di un giusto tono, o caratteristiche che solo più tardi avrebbero acquistato (o di cui sarebbe stata percepibile) la piena funzionalità: la «sostenutezza e preziosità letterarie», l’ironia a volte elementare e indiscriminata, il raccontare «svagato e slegato» (Gargiulo), il «barocco riccioluto» e in generale l’eccessiva ricchezza della prosa (De Robertis), l’«indulgere ai mille richiami» (De Robertis), momenti di «vuoto stilistico» (Devoto), e così via.

Una menzione distinta, nella serie dei primi contributi critici, spesso a dire il vero occasionali e di scarso peso, merita, per due ragioni, l’intervento di Devoto (cfr. § 3) sulle scelte espressive nel Castello di Udine. Si tratta, in primo luogo, di uno dei rari (in assoluto) tentativi di valutare con strumenti tecnici l’idiosincratica adibizione da parte dell’Autore dei materiali linguistici: e più precisamente, la tensione che si viene a creare tra «impulsi espressivi e istituto linguistico» (Devoto 1975: 279-70). Di categorie come le deviazioni, gli incisi, il discorso diretto, la sintassi del periodo, le ripetizioni di termini e suoni, l’interpunzione affettiva, l’ironia, il grottesco, vengono con chiarezza descritte le realizzazioni e gli effetti espressivi. Ma, inoltre, l’intervento di Devoto (92) è notevole per avere provocato nel 2° numero di Letteratura (I, 2, 1937, 143-48) una puntigliosa replica di Gadda, le Postille ad una analisi stilistica, che senz’altro vanno aggiunte alle molte pagine di (auto)critica gaddiana da parte dello stesso Autore. All’ottica obiettiva di Devoto, che «lo conduce a stabilire il valore (o il disvalore) dell’espressione in rapporto ai generali fini rappresentativi di una scrittura» (SGF I 815), Gadda contrappone (fondandosi accortamente su alcuni fraintendimenti nella lettura di Devoto) il «discorso vero dell’anima», che «tende a venire a galla» (SGF I 816), cioè la sincerità ed urgenza espressiva, la necessità del proprio dire, da cui la forma è totalmente determinata (il che equivale, si può aggiungere, a negare ogni possibilità di correzione).

Registrate alcune voci e alcune tendenze degli anni Trenta e Quaranta, si deve pur ammettere che nella storia della critica gaddiana segna una svolta (o un nuovo inizio) l’anno di pubblicazione in volume – il 1957 – del Pasticciaccio. Lenta dapprima, e limitata per lo più a recensioni e interventi brevi, con un’accelerazione dopo la comparsa in volume della Cognizione, la crescita diventerà esponenziale verso la fine degli anni Sessanta (del ’69 sono i due primi studi monografici: il Gadda di Seroni e la Disarmonia prestabilita di Roscioni). Ci si limiterà qui, rinviando per un panorama generale alle rassegne già esistenti o in preparazione, (93) ad un orientamento di massima, accennando agli apporti (che sembrano a chi scrive) decisivi, e ad alcune tendenze o contrapposizioni significative.

Nessun critico è stato così vicino all’arte di Gadda, per gusto e scelte estetiche, come Contini. Le sue ipotesi interpretative hanno influenzato oltre che la ricezione dell’Autore la stessa concezione della letteratura italiana, nel cui svolgimento veniva individuata, dalle origini al Novecento, una non secondaria linea gaddiana di espressionismo plurilinguistico. Dei diversi interventi di Contini (Contini 1989), che cronologicamente vanno dalla recensione nel ’34 (in Solaria) al Castello di Udine a quella dell’edizione einaudiana commentata della Cognizione nel Corriere della Sera del 3 gennaio 1988, ma che per lunghezza non superano la settantina di pagine, forse il più noto e influente è l’ermetico saggio (per lunghi tratti temo inaccessibile al normale lettore) che apriva nel ’63 la prima edizione in volume della Cognizione. Questo Saggio introduttivo, bipartito, delineava nella prima sezione una «sommaria topografia dei possibili gaddiani» seguita da qualche accenno agli «ingredienti» della lingua gaddiana, fissando poi nella seconda sezione storico-letteraria, le «coordinate dell’apparizione di Gadda», cioè in sostanza l’idea cui si è accennato di una linea espressionistico-plurilingue – una astrazione forse in sé problematica, perché fondata sui materiali linguistici più che sulla loro funzione. La cosiddetta topografia dei possibili, la mappa cioè delle soluzioni formali e rappresentative accessibili all’Autore, comprendeva anzitutto secondo Contini la categoria del «frammento narrativo», a cui Gadda sarebbe stato condotto dalla «qualità lirica del temperamento», affine a quello dell’«avanguardia lirica di Solaria», l’«ambiente nel quale spontaneamente gli avvenne di presentarsi al pubblico», e quindi, innestata sullo sfondo lirico, l’altra categoria, psico-letteraria questa, dello scatto liberatorio (liberatorio anche esteticamente) del riso, fondato – se bene interpreto – su una «intensa fiducia nel reale», nella «buccia delle cose» (ma la nozione di realtà è in Gadda molto personale: visto che il mondo pullula di «deformi forme», reale – e quindi vera – non è la realtà, ma solo certa realtà).

Un apporto altrettanto decisivo alla critica gaddiana, ma di carattere molto diverso, è costituito dagli studi di Roscioni, e in primo luogo dalla Disarmonia prestabilita del 1969, ricostruzione, fondata su tutta l’opera, edita ed inedita, del «sistema gaddiano del mondo», e della «tensione onnisciente del gran sogno di Gadda» (Garboli). Gli insoliti aspetti formali dell’opera appaiono così (in certa misura) necessitati o almeno spiegati da un pensiero soggiacente – il che è poi uno dei punti su cui Gadda caparbiamente insisteva. Si citerà ancora, in Gadda umorista, (94) la proposta di una tipologia sterniana a cui Gadda, narratore umorale interessato in primo luogo alla «creazione di un personalità dell’autore», di diritto appartiene. Preziose integrazioni agli studi più propriamente critici di Roscioni andranno poi cercate nel volume biografico Il duca di Sant’Aquila. Infanzia e giovinezza di Gadda (Roscioni 1997), su cui si ritornerà in § 13. La linea di ricerca sul sistema della conoscenza in Gadda viene egregiamente continuata dai diversi interventi (citt. in § 13) di Guido Lucchini, tra i quali in particolare si segnala Gli studi filosofici di Carlo Emilio Gadda (1924-1929) (Lucchini 1994: 223-45).

Di importanza davvero capitale sono stati nel caso di Gadda gli accertamenti filologici (ivi compresi gli accertamenti linguistici), un presupposto necessario anche se da molti ignorato ad ogni discorso sul testo gaddiano, che ha potuto in qualche caso indurre nuove prospettive critiche (penso a certe note al testo di Raffaella Rodondi, di Claudio Vela e di altri). Questo ambito è contrassegnato da un monopolio pavese. Il lavoro di Dante Isella e del gruppo di giovani (olim) studiosi (95) cresciuti attorno a Isella, ma anche a Maria Corti, a Franco Gavazzeni, Cesare Segre e Angelo Stella – lavoro inestimabile per qualità e quantità – ha fornito ai lettori e alla critica testi nella misura del possibile affidabili, e ha cambiato, a volte in maniera radicale, la nostra visione del percorso creativo dell’Autore.

Una delle questioni che sembra tuttora dividere la critica gaddiana (e il gusto) è la funzionalità narrativa e più in generale estetica della macchina linguistica. È stato notato, giustamente, che la critica, attirata da aspetti più appariscenti, non si è quasi mai occupata in profondità delle tecniche narrative gaddiane. E si è pensato, suggerendo un rapporto di effetto a causa tra i due fatti, che queste tecniche non siano dopo tutto né moderne né elaborate, (96) ma che esse si limitino a «dilatare e giustapporre poemetti in prosa» e che proprio nella «costante accensione stilistica» vada visto l’impedimento principale a che la narrativa gaddiana, malata d’una ipertrofia della scrittura, possegga «il vero “passo del racconto”, e non sia ingorgo ma sviluppo» (Mengaldo 1993: 38-39). Per contro, è stato sostenuto che la modernità della scrittura gaddiana – modello per uno svecchiamento radicale della narrativa italiana del dopoguerra – consiste proprio nella dimissione narrativa, nella proliferazione autonoma di un linguaggio che ignora i principi tradizionali di economia rappresentativa.

Nell’ultimo decennio la produzione critica è letteralmente esplosa, con le conseguenze di ripetitività che ciò comporta. Servirebbero, al lettore e allo studioso di oggi, più che i molti saggi più o meno fondamentali, concordanze, dizionari, (97) analisi narratologiche, analisi linguistiche e, soprattutto, commenti.

13. Bibliografia essenziale

Le opere complete di Gadda (non l’epistolario) sono disponibili nei cinque volumi della collana garzantiana «Libri della Spiga»: Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da Dante Isella, Milano, 1988-93. Specificamente:

– I: Romanzi e Racconti (1988) (RR I), a cura di R. Rodondi, G. Lucchini e E. Manzotti. Comprende I sogni e la folgore (vale a dire il volume Einaudi del 1955 che raccoglie La Madonna dei Filosofi, Il castello di Udine, e L’Adalgisa); e La cognizione del dolore.

– II: Romanzi e Racconti (1989) (RR II), a cura di G. Pinotti, D. Isella e R. Rodondi. Comprende Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nella redazione in volume del ’57, e nella redazione anteriore e incompleta di Letteratura, quindi La Meccanica, Accoppiamenti giudiziosi, e due sezioni di «Racconti dispersi» e «Racconti incompiuti».

– III: Saggi Giornali Favole e altri scritti (1991) (SGF I), a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella. Vi sono raccolti, nell’ordine, Le meraviglie d’Italia; Gli anni; Verso la Certosa; I viaggi la morte e un centinaio di «Scritti dispersi».

– IV: Saggi Giornali Favole e altri scritti (1992) (SGF II), a cura di C. Vela, G. Gaspari, G. Pinotti, F. Gavazzeni, D. Isella e M.A. Terzoli. Compaiono qui Il primo libro delle Favole; I Luigi di Francia; Eros e Priapo (Da furore a cenere); Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo; il Giornale di guerra e di prigionia; tre schede autobiografiche e sette poesie (Autunno in due redazioni, la solariana e quella di Cognizione).

– V* (tomo primo): Scritti vari e postumi (1993) (SVP), a cura di A. Silvestri, C. Vela, D. Isella, P. Italia e G. Pinotti. Come il titolo indica, si tratta di volume composito, dal progetto, rispetto a quanto precede, non molto perspicuo («Ultimi inediti», «Altri scritti»,…). Basterà dire che vi figurano, con altro: il Racconto italiano di ignoto del novecento, la Meditazione milanese e Il palazzo degli ori. Ma è innegabile che il taglio delle Opere si è assestato definitivamente solo per via, e che, a complicare la situazione, nuovi o ultimi inediti sono venuti e vengono progressivamente alla luce (cfr. per un esempio il frammento del Secondo libro della Poetica reso noto da D. Isella in MicroMega 3 (1997), 131-38, e gli ulteriori capitoli dell’Adalgisa-Fulmine sul 220 (Gadda 2000b), sempre per cura di Isella, e da Garzanti, a quelli presentati nei Disegni milanesi di cui più avanti).

Il quinto volume consta anche di un tomo secondo (V**) di Bibliografia e indici a cura di D. Isella, G. Lucchini e L. Orlando, alla cui prima parte in particolare si rimanda per l’intricata bibliografia dell’Autore, ricca come è noto di anticipazioni, riprese, excerpta e rifacimenti, collocati a volte in sedi improbabili (una sua integrazione indispensabile è il Catalogo delle edizioni di Carlo Emilio Gadda di G. Sebastiani, Milano, Scheiwiller, 1993).

Singole opere sono correntemente ristampate da Garzanti (che verso la fine degli anni Settanta ha rilevato i diritti d’autore per tutta l’opera) in volumi indipendenti di altre collane (soprattutto «Gli elefanti», ma anche i «Narrratori moderni»), con o senza introduzioni o postfazioni. Ma sarà indispensabile, per una lettura approfondita, riandare alle precedenti edizioni critiche e/o commentate, quando esse esistano, di singole opere; e in particolare a: Meditazione milanese, a cura di G.C. Roscioni (Torino: Einaudi, 1974); Racconto italiano di ignoto del novecento (Cahier d’études), a cura di D. Isella (Torino: Einaudi, 1983); La cognizione del dolore, a cura di E. Manzotti, (Torino: Einaudi, 1987); Il primo libro delle Favole, a cura di C. Vela (Milano: Mondadori, 1990); e per il San Giorgio in casa Brocchi, L’incendio di via Keplero, e l’Adalgisa-Fulmine sul 220 il volume di testi, materiali genetici e apparati Disegni milanesi a cura di D. Isella, P. Italia e G. Pinotti (Pistoia: Edizioni Can Bianco, 1995). Si registrerà inoltre che l’Apologia manzoniana è egregiamente commentata nel cit. vol. Lombardia; e che una prima (certo ancora imperfetta) annotazione accompagna l’edizione scolastica del Pasticciaccio nella collana «Garzanti Scuola», provvista inoltre d’una pregevole appendice di «Strumenti per la lettura» a cura di M. Marchetti (Milano: Garzanti, 1997).

Per un primo approccio antologico all’opera di Gadda si rimanda all’antologia continiana Letteratura dell’Italia unita. 1861-1961 (Firenze: Sansoni, 1968), 1049-087; o, per il Gadda milanese, alla Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi: Lombardia, a cura di A. Stella, C. Repossi e F. Pusterla (Brescia: Editrice La Scuola, 1990). Una pregevole antologia di tutto Gadda è il volume di 246 pp. curato e commentato da E. Melfi, Per leggere C.E. Gadda (Roma: Bonacci Editore, 1986).

Tra i frammenti di epistolario resi noti (e prescindendo da singole lettere o gruppi di lettere pubblicate in rivista – per cui si rimanda alla Bibliografia dell’ultimo tomo delle Opere) riterranno l’attenzione P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda (Milano: Pan, 1974) (contiene stralci delle lettere al cugino Piero); le Lettere agli amici milanesi, a cura di E. Sassi (Milano: Il Saggiatore, 1983); le Lettere a una gentile Signora [= Lucia Rodocanachi], a cura di G. Marcenaro (Milano: Adelphi, 1983); A un amico fraterno. Lettere a Bonaventura Tecchi, a cura di M. Carlino (Milano: Garzanti, 1984); L’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti (1919-1930), a cura di G. Ungarelli (Milano: Rizzoli, 1984) (di interesse generale è il primo paragrafo della Introduzione, su «Gadda scrittore di lettere»); le Lettere alla sorella (1920-1924), a cura di G. Colombo (Milano: Archinto, 1987); le Lettere a Gianfranco Contini (1934-1967), a cura del destinatario (Milano: Garzanti, 1988); Carissimo Gianfranco. Lettere ritrovate 1943-1963, a cura di G. Ungarelli (Milano: Archinto, 1998); Lettere a Piero [Bigongiari], a cura di S. Priami (Firenze: Edizioni Polistampa, 1999). Si segnala inoltre la consistente (numericamente e per interesse) corrispondenza con la redazione di Solaria (nella fattispecie A. Carocci) in Lettere a «Solaria», a cura di G. Manacorda (Roma: Editori Riuniti, 1979); vi si troverà ad esempio la molto citata parodia dell’Addio manzoniano: «Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola […]».

Le interviste (preziose per i giudizi sulle opere) sono state ottimamente edite e commentate in «Per favore mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, a cura di C. Vela (Milano: Adelphi, 1993). Ad esse si aggiungeranno le interviste televisive riprodotte (con parziali sovrapposizioni rispetto al precedente) in Gadda al microfono. L’ingegnere e la Rai. 1950-1955, a cura di G. Ungarelli (Torino: Nuova ERI, 1993).

Una biografia d’eccezione è Il duca di Sant’Aquila. Infanzia e giovinezza di Gadda di G.C. Roscioni (Milano: Mondadori, 1997), in cui sotto la minuziosa ricostruzione di fatti e umori con caute ipotesi integrative corre un raffinato pensiero critico (si leggano per prova le pagine sulle «cinque maniere», Roscioni 1997: 220-24, o sull’Autore, nella Madonna dei Filosofi e altrove, impasticciato nella trama, Roscioni 1997: 259-62). La lettura parallela dei due saggi di Roscioni, Il duca di Sant’Aquila e la Disarmonia prestabilita di cui si dirà, è certo la migliore introduzione complessiva all’Opera e all’Autore. Di tutt’altro genere, ma godibilissima, è la cronaca aneddotica degli anni romani alla Rai in G. Cattaneo, Il gran lombardo (Torino: Einaudi, 1991) (che estende la prima edizione garzantiana del ’73). Ulteriori pezze biografiche forniscono (oltre naturalmente ai citati carteggi) le Carte militari edite da G. Ungarelli (Milano: Scheiwiller, 1994), e i molti interventi di amici o colleghi (piace qui ricordare tra gli altri C. Cases, La lombatina di Gadda, negli Atti della Giornata torinese di studi di cui sotto).

Materiale iconografico (e relativi commenti) sulla vita e sui luoghi dell’opera sono disponibili in diversi volumi. In primo luogo, a patto di non sottilizzare sulle didascalie, in F. Pierangeli, Carlo Emilio Gadda. Biografia per immagini (Torino: Gribaudo, 1995). Più in particolare, per la Milano di Gadda, si consulteranno La Milano disparsa di C.E. Gadda. Antologia gaddiana di pagine milanesi, a cura di A. Comotti (Milano: Garzanti, 1983); e Carlo Emilio Gadda milanese, a cura di G. Sebastiani, G. Ungarelli e V. Scheiwiller (Milano: Scheiwiller, 1993). Divertenti e informativi i diversi interventi briantei, variati da mutamenti o integrazioni, di G. Dossena, prima in Guida ai misteri e segreti della Brianza, a cura di M. Spagnol e L. Zeppegno (Milano: Sugar, 1970), 87-98; poi nell’ampia voce Longone al Segrino del volume dello stesso Dossena, I luoghi letterari (Milano: Sugar, 1972); quindi in La Brianza dei poeti. Paesaggi Opere Personaggi (Firenze: Vallecchi, 1980) (i soli testi sono raccolti da ultimo in Gadda e la Brianza profanata, I quaderni di palazzo Sormani 14, Milano, 1994). Su Longone e la villa dei Gadda si vedrà inoltre M.A. Terzoli, La casa della «Cognizione». Immagini della memoria gaddiana (Milano: Effigie, 1993).

In attesa che le Concordanze pisane (basate sulle Opere Garzanti) vengano rese pubbliche, e che vada a stampa il Catalogo di quel che rimane della biblioteca di Gadda (98) (il cosiddetto «Fondo Gadda» della Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo a Roma), preziosi strumenti per la ricerca sono L’indice dei nomi preparato da G. Lucchini e da L. Orlando per il secondo tomo del vol. V delle Opere, così come il Glossario di Carlo Emilio Gadda «milanese». Da «La meccanica» a «L’Adalgisa» di P. Italia (Alessandria: Edizioni dell’Orso, 1998).

Nel 2000 vedrà la luce presso Garzanti una rivista annuale di studi gaddiani diretta da D. Isella (redazione: G. Gaspari, F. Gavazzeni, P. Italia, G. Lucchini, E. Manzotti, C. Martignoni, L. Orlando, G. Pinotti, A. Silvestri e C. Vela), dal titolo (probabile) de I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani.

Si dirà ora, in modo estremamente selettivo, della vastissima bibliografia critica, cresciuta esponenzialmente nell’ultimo decennio. Per tutti i dati che eccedono la misura qui di rigore si rinvia alle rassegne già note; in particolare, sino al 1980, a A. Brandalise, Rassegna di studi gaddiani (1963-1973), in Lettere italiane, 26 (1974), 518-57; R. Scrivano, Carlo Emilio Gadda, in I Classici Italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, vol. III: Da Fogazzaro a Moravia (Firenze: La Nuova Italia, 1977), 733-74; La critica e Gadda, a cura di G. Patrizi (Bologna: Cappelli, 1975); A. Ceccaroni, Leggere Gadda. Antologia della critica gaddiana (Bologna: Zanichelli, 1978); F. Gabici, Bibliografia della critica, in appendice a Gadda: il dolore della cognizione in Otto-Novecento, 5 (1982), 305-19. Per anni più vicini si consulterà la Nota bibliografica, ristretta nominalmente alla Cognizione, ma di fatto comprensiva, che conclude il profilo appunto della Cognizione nell’ultimo vol. delle Opere della Storia della letteratura italiana Einaudi; e soprattutto l’ampio saggio bibliografico in due puntate di A. Cortellessa, Il punto su Gadda. Tentativo di ordinare la bibliografia gaddiana: 1993/1994, Studi Novecenteschi 51 (1996), 159-242, e 53 (1997), 177-223. Un loro aggiornamento sino al ’98 o ’99, con una sezione sulla critica non italiana dal ’93 al ’98, è previsto nel primo numero della cit. rivista di studi gaddiani. Infine, sempre da A. Cortellessa si attende nella primavera del 2000 un volume di Storia della critica gaddiana nella collana «La scrittura e l’interpretazione» dell’editore Palumbo.

In tanta abbondanza di Sekundarliteratur (mal dominabile ormai anche dallo specialista), i punti fermi della critica gaddiana rimangono gli scritti di Gianfranco Contini e di Gian Carlo Roscioni. Gli interventi di Contini, dal solariano (1934) Carlo Emilio Gadda o del «pastiche» al classico Saggio introduttivo (1963) alla Cognizione ed alla Voce di enciclopedia (1985), sono raccolti in Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988) (Torino: Einaudi, 1989) (bellissima, (99) ivi, è la relativamente poco nota recensione, so to speak, alle traduzioni dallo spagnolo nell’antologia Bompiani del ’42, alla quale lo stesso Contini aveva contribuito). L’altro point de repère è il volume, cui si è già accennato, di G.C. Roscioni, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda (Torino: Einaudi, 1969) – riedito una prima volta nel ’75 in altra collana (con in appendice La conclusione della «Cognizione del dolore» originariamente apparso in Paragone 238 (1969), 86-99 e la Introduzione alla Meditazione milanese) e una seconda volta nel ’95 ancora in altra collana con un’appendice parzialmente diversa (vi figurano, con la detta Introduzione, due interventi a convegni per il centenario, Gadda umorista e Terre emerse. Il problema degli indici di Gadda).

I volumi di carattere più o meno generale dedicati a Gadda sono, in ordine cronologico (con alcune omissioni), i seguenti: A. Seroni, Gadda (Firenze: La Nuova Italia, 1969) (lo stesso anno della Disarmonia prestabilita); G. Baldi, Carlo Emilio Gadda (Milano: Mursia, 1972); E. Ferrero, Invito alla lettura di C.E. Gadda (Milano: Mursia, 1972); E. Flores, Accessioni gaddiane. Struttura, lingua e società in C.E. Gadda (Napoli: Loffredo Ed., 1973); M. Gersbach, Carlo Emilio Gadda. Wirklichkeit und Verzerrung (Bern: Francke, 1973); L. Cattanei, Carlo Emilio Gadda. Introduzione e guida allo studio dell’opera gaddiana (Firenze: Le Monnier, 1975); G. Cavallini, Lingua e dialetto in Gadda (Messina e Firenze: D’Anna, 1977); E. Gioanola, L’uomo dei Topazi. Saggio psicanalitico su C.E. Gadda (Genova: Il Melangolo, 1977; e quindi Milano: Librex, 1987); C. De Matteis, Prospezioni su Gadda (Teramo: Giunti & Lisciani, 1985); G.C. Ferretti, Ritratto di Gadda (Bari: Laterza, 1987); A. Andreini, Studi e testi gaddiani (Palermo: Sellerio, 1988); G. Lucchini, L’istinto della combinazione. Le origini del romanzo in Carlo Emilio Gadda (Firenze: La Nuova Italia, 1988); L. Sergiacomo, Le donne dell’ingegnere. Serve, signorine, madri e antimadri nella narrativa di Carlo Emilio Gadda (Pescara: Medium, 1988); M. Fratnik, L’écriture détournée. Essai sur le texte narratif de C.E. Gadda (Torino: Meynier, 1990); M. De Benedictis, La piega nera. Groviglio stilistico ed enigma della femminilità in C.E. Gadda (Anzio: De Rubeis Editore, 1991); M. Bertone, Il romanzo come sistema. Molteplicità e differenza in C.E. Gadda (Roma: Editori Riuniti, 1993); M. Lipparini, Le metafore del vero. Percezione e deformazione figurativa in Carlo Emilio Gadda (Pisa: Pacini, 1994); J.-P. Manganaro, Le Baroque et l’Ingénieur. Essai sur l’écriture de Carlo Emilio Gadda (Paris: Seuil, 1994); S. Zancanella, La parola in bilico. La scrittura intima nel Novecento e la produzione epistolare di Carlo Emilio Gadda (Venezia: Il Cardo Editore, 1995); F.P. Botti, Gadda o la filologia dell’apocalisse (Napoli: Liguori, 1996); G. de Jorio Frisari, Carlo Emilio Gadda filosofo milanese (Bari: Palomar, 1996); A. Pecoraro, Gadda (Bari: Laterza, 1998); F. Pierangeli, Carlo Emilio Gadda. l’indagine dolorosa (Roma: Studium, 1999); R.S. Dombroski, Creative Entanglements: Gadda and the Baroque (Toronto: Toronto University Press, 1999).

Agli studi precedenti vanno aggiunti alcuni dei profili in opere più generali: G. Barberi Squarotti, Realtà e lingua di Carlo Emilio Gadda, in Letteratura italiana. Novecento (Milano: Marzorati, 1979), vol. VI, 4926-967; R. Luperini, Carlo Emilio Gadda, ovvero della grandezza e della miseria della letteratura, in Il Novecento, tomo II (Torino: Loescher, 1981), 487-515; G. Gorni, Carlo Emilio Gadda, in Un’idea del ’900. Dieci poeti e dieci narratori italiani del Novecento, a cura di P. Orvieto (Roma: Salerno Editrice, 1984), 300-16; la voce Gadda curata da R. Barilli per il Dizionario critico della letteratura italiana diretto da V. Branca (Torino: UTET, 19862), 307-12; e infine G. Guglielmi, I paradossi di Gadda, in La prosa italiana del Novecento (Torino: Einaudi, 1989), 211-43.

Tra i volumi collettanei e gli atti di convegni si menzioneranno: L’alternativa letteraria del ’900: Gadda, a cura di F. Bettini et al. (Roma: Savelli, 1975) (strano volume in due parti, la prima corrispondente al titolo, con 12 interventi gaddiani, e la seconda su Marxismo e strutturalismo); Gadda. Progettualità e scrittura, a cura di M. Carlino, A. Mastropasqua e F. Mùzzioli (Roma: Editori Riuniti, 1987) (articolato in cinque parti: Gadda nella letteratura del Novecento, La progettualità gaddiana, La scrittura gaddiana, Di alcune fonti gaddiane, Inediti e testimonianze); Le ragioni del dolore. Carlo Emilio Gadda 1893-1993, a cura di E. Manzotti (Lugano: Edizioni Cenobio, 1993) (scritti di E. Manzotti, G. Ungarelli, L. Orlando, M.A. Terzoli, R. Castagnola, G. Clerico); Lo scrittore Carlo Emilio Gadda moralista lombardo: dall’ambiente familiare d’origine alla fortuna della sua opera in Europa. Atti del Convegno Santa Maria la Vite, Olginate, 9-10 ottobre 1993 (Olginate: Edizioni del Centro Internazionale di Studi Lombardi, 1994) (utile soprattutto per i dati familiari della prima parte); Per Gadda il Politecnico di Milano. Atti del Convegno e Catalogo della mostra. Milano 12 novembre 1993, a cura di A. Silvestri (Milano, Scheiwiller, 1994) (comprende interventi di D. Isella, J.-P. Manganaro, A. Silvestri, G. Consonni e C. Segre); Per Carlo Emilio Gadda. Atti del Convegno di Studi, Pavia, 22-23 novembre 1993 [= Strumenti critici 75] (Bologna: Il Mulino, 1994) (interventi di G.C. Roscioni, D. Isella, C. Vela, G. Gaspari, G. Lucchini, G. Pinotti, P. Italia, M.A. Terzoli, G. Zampa); Le lingue di Gadda. Atti del Convegno di Basilea, 10-12 dicembre 1993, a cura di M. A. Terzoli (Roma: Salerno Editrice, 1995) (interventi di G.C. Roscioni, D. Isella, G. Bonalumi, D. Wieser, G. Gorni, P. Italia, G. Lucchini, M.A. Terzoli, S. Agosti, G. Orelli, O. Lurati, C. Riatsch, M. Benuzzi Billeter, G. Stellardi); Carlo Emilio Gadda. Etudes réunies par M.-H. Caspar (Parigi, Univ. Paris X–Nanterre, 1995) [= Narrativa, 7] (raccoglie gli atti del Seminario di studi organizzato a Nanterre il 26 nov. 1994, con interventi di G. Clerico, S. Casini, D: Ferraris, J.-P. Manganaro, C. Benedetti, M. Bertone, E. Manzotti e L. Pavan); Carlo Emilio Gadda. La coscienza infelice, a cura di A. Andreini e M. Guglielminetti (Milano: Guerini Studio, 1996) (interventi di C. Cases, G. Guglielmi, R. Rinaldi, G. Baldi, M. Guglielminetti, A. Andreini, M. Cerruti, M.A. Terzoli e J.-P. Manganaro); Carlo Emilio Gadda. Contemporary Perspectives, a cura di M. Bertone e R.S. Dombroski (Toronto: Toronto University Press, 1997) (scritti di G.C. Roscioni, A. Guglielmi, R.S. Dombroski, E. Manzotti, G.P. Biasin, M. Bertone, F.G. Pedriali, C. Benedetti, G. Lucchini, W. Krysinski, P. Hainsworth, A. Andreini e P. Archi).

Venendo infine a singole opere, ed a studi più specifici, una scelta (ristrettissima) è la seguente.

Sulla Cognizione: P. Citati, Il male invisibile, in Il menabò, 6 (1963), 12-41, poi con mutamenti ne Il tè del cappellaio matto (Milano: Mondadori, 1972), 286-317; R. Rinaldi, La paralisi e lo spostamento. Lettura della «Cognizione» (Livorno: Bastogi Editore, 1977); l’Introduzione alla edizione commentata della Cognizione negli «Struzzi» (Torino: Einaudi, 1987), vii-lxi; A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della «Cognizione del dolore» (Pisa: Edizioni ETS, 1996); e infine il profilo curato da chi scrive per la Letteratura italiana. Le Opere, IV/2. Il Novecento. La ricerca letteraria (Torino: Einaudi, 1966), 201-337. Singoli passi o aspetti sono analizzati in: P.P. Pasolini, Un passo di Gadda [il paragrafo del gatto cadente], L’Europa letteraria, 4 (1963), nn. 20-21, 61-67; G. Gorni, Lettura di «Autunno» (dalla Cognizione di Carlo Emilio Gadda), in Strumenti critici, 7 (1973), 291-325; E. Manzotti, Astrazione e dettaglio: Lettura di una passo della «Cognizione» [l’apertura del VII tratto], in Cenobio, 33 (1984), 332-56.

Sul Pasticciaccio: il manualetto introduttivo di E. Bolla, Come leggere «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» di Carlo Emilio Gadda (Milano: Mursia, 1976) (che si completerà ora con l’appendice di analisi e materiali che accompagna l’edizione scolastica commentata di cui s’è detto). Su un altro piano, A.R. Dicuonzo, La coscienza della complessità. Sulla struttura del «Pasticciaccio» gaddiano, in Lingua e stile, 29 (1994), 59-89; C. Benedetti, Una trappola di parole. Lettura del «Pasticciaccio» (Pisa: ETS, 1980); e F. Amigoni, La più semplice macchina. Lettura freudiana del «Pasticciaccio» (Bologna: il Mulino, 1995).

Sui diari: M. Guglielminetti, Gadda/Gaddus: diari, giornali e note autobiografiche di guerra, in Versants, 25 (1994), 81-96 (e quindi nel cit. La coscienza infelice, 127-39), e G. Gorni, Gadda, o il testamento del capitano, in Le lingue di Gadda cit., 149-78.

Sui Luigi di Francia: S. Casini, Carlo Emilio Gadda e i re di Francia. Retroscena di un testo radiofonico (Firenze: Le Lettere, 1993).

Sull’atteggiamento gaddiano nei confronti del fascismo: E. Flores, La polemica contro il fascismo nella «Cognizione», in Accessioni gaddiane cit., 62-70; le pagine finali di L. Greco, L’autocensura di Gadda: gli scritti tecnico-autarchici, in Censura e scrittura. Vittorini, lo pseudo-Malaparte, Gadda (Milano: Il Saggiatore, 1983), 51-98; C. De Matteis, Guerra, dopoguerra e fascismo nella narrativa giovanile di Gadda, in Prospezioni su Gadda cit., 56-89; R. Luperini, Il fascismo e la «repubblica delle lettere»: storia e simboli nelle «Occasioni» e nella «Cognizione del dolore», in Rivista di studi italiani, 5-6 (1987/1988), 41-50; G. Papponetti, Gadda e il lavoro italiano, in Otto-Novecento, 13 (1989), 5-36; e da ultimo, e soprattutto, le osservazioni sparse nell’eccellente Luzzatto 1998: 120-58.

Quanto agli autori di Gadda, dopo aver preso atto dei giudizi gaddiani su Alfieri, Parini, Foscolo, Manzoni, Carducci, Pascoli e D’Annunzio nelle conversazioni riprodotte da A. Arbasino nel capitolo Genius loci de La Belle époque per le scuole (= Certi romanzi, Torino, Einaudi, 1977), si segnalano: sulla presenza di D’Annunzio in Gadda: G. Papponetti, Gadda e-o D’Annunzio. Fallimento e congedo del Superuomo, in Otto-Novecento, 7 (1984), 23-42; R. Rinaldi, I dioscuri senza Leda: biografia e letteratura nel primo Gadda, in La coscienza infelice cit., 39-95; e A. Zollino, Il vate e l’ingegnere. D’Annunzio in Gadda (Pisa: Edizioni ETS, 1998). Per Foscolo, Leopardi e Belli, cfr. rispettivamente P. Gibellini, Gadda e Foscolo, in Giornale storico della letteratura italiana, 159 (1982), 26-63; S. Righi, Gadda e Leopardi, in La rassegna della letteratura italiana, 91 (1985), 148-56; P. Gibellini, Gadda e Belli, in Il coltello e la corona (Roma: Bulzoni, 1979), 164-81. Molti gli studi sulla particolare adibizione del modello manzoniano. Si segnalano qui (con i due principali scritti manzoniani dell’Autore, Apologia manzoniana e Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia (riprodotti ora nella sezione «Scritti dispersi» di SGF I): G. Nava, C.E. Gadda lettore di Manzoni, in Belfagor, 20 (1965), 339-52; G. Contini, Premessa [ad una ristampa dell’«Apologia»] su Gadda manzonista, in Quarant’anni d’amicizia cit., 69-72, così come i paragrafi introduttivi di Gadda milanese, ibid., 73-75); E. Flores, Il binomio Gadda-Manzoni, in Accessioni gaddiane cit., 46-62; G. Cavallini, in due capp. del cit. Lingua e dialetto in Gadda; A. Andreini, Il manzonismo di Carlo Emilio Gadda, in Studi e testi gaddiani cit., 17-54; G. Bonalumi, Carlo Emilio Gadda e «I Promessi Sposi», in L’almanacco 1992 – Cronache di vita ticinese, 11 (1991), 53-62; C. Bologna, Il romanzo come cognizione e rappresentazione: Gadda, in Tradizione e fortuna dei classici italiani, vol. II (Torino: Einaudi, 1993), 744-98; e infine il cit. Gadda e Manzoni di A. Pecoraro. Del dantismo gaddiano si è occupato L. Scorrano, Dante in Gadda: reminiscenza come parodia e invenzione, in Modi ed esempi di dantismo novecentesco (Lecce: Adriatica Editrice Salentina, 1976), 232-61; e quindi nel cap. XIV di Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento (Ravenna: Longo, 1994), 157-63. Si rinvia infine ad Orazio e Gadda di G. Papponetti (in Bimillenario oraziano. Bollettino informativo, 4 (1994), 3-6, 14.

Infine, per un approccio linguistico all’opera di Gadda si consulteranno: G. Devoto, Carlo Emilio Gadda: il «Castello di Udine» (1934), in Itinerario stilistico (Firenze: Le Monnier, 1975); P. Gelli, Sul lessico di Gadda, in Paragone, 20 (1969), n. 230, 52-77; E. Manzotti, Note sulla sintassi della «Cognizione», in In ricordo di Cesare Angelin. Studi di Letteratura e Filologia, a cura di F. Alessio e A. Stella (Milano: Il Saggiatore, 1979), 343-79; i capitoli gaddiani di P.V. Mengaldo, Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Il Novecento (Bologna: il Mulino, 1994), 148-54 e 317-22; e, last, la sezione conclusiva – pp. 289-319 – del cit. Profilo della Cognizione nella Letteratura italiana Einaudi. Sulla versante della polifonia e dell’espressionismo si vedrà C. Segre, Punto di vista, polifonia ed espressivismo nel romanzo italiano (1940-70), in L’espressivismo linguistico nella letteratura italiana. Atti dei Convegni Lincei 71, Roma, 16-18 gennaio 1984 (Roma: Accademia Nazionale dei Lincei, 1985), 181-94; e quindi in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), cap. III.

Université de Genève

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Note

70. Cfr. I Luigi di Francia (SGF II 200) e Emilio e Narcisso (SGF I 650), in cui sul Fontenelle una diffusa nota con citazioni.

71. Cfr. L’egoista (SGF I 654): un io-«nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne», così che «se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me».

72. Intervista al microfono (SGF I 504): anche, gli «archi a spiombo» e le «piramidi sintattiche», che «mi vengono così giustamente rimproverati dal buon gusto e dal buon senso delle mie vittime».

73. Si rimanda per i particolari all’esattissima Nota al testo delle Favole approntata da Claudio Vela per SGF II 903 sgg.

74. Rispettivamente Cognizione (RR I 598), Adalgisa (RR I 303), Castello (RR I 135), e Adalgisa (RR I 301-02).

75. Cfr. la Nota bibliografica dell’Autore (SGF II 65-78), dove le favole sono «codeste nugae», come in Marziale II 1, 6: «nugis […] meis».

76. Il lupus proprio della favola iniziale del Liber primus, naturalmente: «Ad rivum eundem lupus et agnus venerant».

77. Da Giorgio Pinotti nell’ampia Nota al testo di SGF II la cui lettura è premessa indispensabile alla comprensione anche formale (la scansione in capitoli, ecc.) di Eros e Priapo.

78. Lettera del 25 novembre ’45 ad A. Mondadori (SGF II 995).

79. Si veda l’illuminante S. Luzzato, Il corpo del duce (Torino: Einaudi, 1998).

80. Per un compatto repertorio di fatti linguistici si rimanda alle pagine su Gadda del Novecento di P.V. Mengaldo, nella Storia della lingua italiana curata da F. Bruni (Bologna: il Mulino, 1994), 148-54. Un più esteso panorama linguistico è nel capitolo sulla Cognizione della Letteratura italiana Einaudi, Opere, IV/2.

81. I tre impieghi sono rappresentati, ad esempio, nelle prime due pagine di Al parco, in una sera di maggio dell’Adalgisa (RR I 483-84), dove una nota tecnica su catenaria («la curva secondo cui si dispone un filo pesante, omogeneo, flessibile, inestensibile, tenuto per i due estremi A e B, nel campo della gravitazione terrestre», RR I 502), appena sotto, la «carrozza» che «sospinge, con la componente orizzontale del proprio peso, il quadrupede, in lieve discesa» (ancora la «gravitazione terrestre», dunque), e una pagina più avanti la «tolemaica girogiostra di motociclette rampanti».

82. Gadda 1998: 35. Nella stessa lettera tutto un programma di pasticcione dialettale «con interlocutori nei varî dialetti: un settetto di voci con veneto, bolognese, bresciano, romano, fiorentino, napoletano, ecc. ecc. come in certi numeri di “variété”. Un “Guerra e pace” col principe Bolkonski che parla milanese, Nicolenka bolognese, donne fiorentine, ecc. ecc.».

83. La rappresentazione gaddiana è tendenzialmente proiettiva nel senso geometrico del termine: il suo oggetto è costituito non da singole figure ma da classi o famiglie di figure.

84. In cui figura del resto il verbo aggallare usato da Gadda per l’affiorare alternativo nella pagina degli ingredienti eterogenei della scrittura. La citazione è da Piero della Francesca (Firenze: Sansoni, 1980), 12.

85. Come in Ritorno alla patria del 1929: «Fuoco d’interdizione. I cannoni come bestie che avessero incendiato il capo e bruciata l’anima spurgano, schizzano boccate di fuoco. Denti verticali spezzano l’armatura delle trincee. Furie avvolte nella fumacea schiantano barbe di alberi e scentano la paniccia della terra grumata» – cito dalla raccolta Mare grosso (Firenze: Vallecchi, 1962), 450.

86. Pomo pero (Milano: Rizzoli, 1974), 20-21.

87. Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998), 71-72.

88. A. Carocci, nella Introduzione alla Antologia di «Solaria», a cura di E. Siciliano (Milano: Lerici, 1958), 10.

89. Anche se, come ricorda sempre Carocci nella cit. Introduzione, i suoi lettori «furono sempre quattro gatti» e la sua tiratura «non raggiungeva le 700 copie».

90. Nella raccolta Tempo di edificare del 1924. Alla contrapposizione (un po’ fatua) tra calligrafi e contenutisti Gadda (accusato lui stesso di calligrafismo) accenna i vari luoghi, e in particolare in una nota di Polemiche e pace nel Direttissimo (RR I 275, n. 1).

91. A Roma, vv. 186-87. Per un inventario del molto «D’Annunzio in Gadda», come suona il sottotitolo, si veda Zollino 1998a.

92. Segnalato a Gadda da Contini.

93. In particolare Patrizi 1975; Ceccaroni 1978; uscirà presso Palumbo una Storia della critica gaddiana di Andrea Cortellessa.

94. Nell’appendice della terza edizione della Disarmonia (Roscioni 1995a).

95. I loro nomi sono registrati (ma non tutti) nel frontespizio dei volumi garzantiani delle Opere.

96. Una posizione estrema è stata sostenuta da Renato Barilli: Gadda resterebbe tutto sommato fermo al naturalismo, estraneo ad una «cultura veramente novecentesca» (Barilli 1964).

97. Che estendessero a tutta l’opera l’ottimo Glossario di Carlo Emilio Gadda «milanese». Da «La meccanica» a «L’Adalgisa» (Italia 1998).

98. [entrambi resi pubblici – rispettivamente: DBT 4 Gadda 2000, CNR Centro Nazionale delle Ricerche (Pisa), e La biblioteca di Don Gonzalo, Il Fondo Gadda alla Biblioteca del Burcardo, a cura di Andrea Cortellessa e Giorgio Patrizi (Roma: Bulzoni, 2001), I, 27-282, N.d.E.]

99. Cfr. ad esempio p. 59, dove si osserva come «Gadda tocchi spesso la sua poesia attraverso la sua punteggiatura più risentita, cioè a dire riformando i periodi secondo l’articolazione sintattica che ha più la sua cifra […]. Può darsi che in questa distensione sovrana e, a suo modo, classica stia il livello più alto di Gadda […]».

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-16-7

© 2000-2024 &EJGS Manzotti Archive. First archived in EJGS 0/2000, then in EJGS 5/2007, Supplement no. 5. Previously published in E. Malato (ed.), Storia della letteratura italiana, vol. IX: Il Novecento (Rome: Salerno Editrice, 1999), 605-81. Here reproduced in the original, unabridged version.

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