![]() |
Part III
-
1. La notte, la valle, gli umili
- La luna nella valle
- Umanità degli umili
- Sulla tomba del Tasso
- La contemplazione della notte
-
2. La torre del dolore
- L’amore delle torri
- «Più giù, dentro la valle»
- Lukones, «borgo selvaggio»
- Il fumo delle ville
- Le filosoficherie del commissario
- Virginia
- Conclusioni
1. La notte, la valle, gli umili
Perché un teorema abbia validità, ha da superare verifiche e riscontri nell’applicazione. Senza la dimostrazione di un effettivo utilizzo di Leopardi nell’opera narrativa di Gadda, si ridurrebbero a civetteria tutte le nostre congetture. Dopo aver delineato i contorni di questa presenza, è perciò tempo di occuparci con maggior cura del testo, e di come le tecniche e le tematiche del grande poeta vadano ad intervenire nella creazione gaddiana.
Diciamo fin d’ora che non si tratta di tracce evidenti e delimitate; è una luce che irraggia in modo diffuso, senza contrasti forti: quasi che l’influenza leopardiana s’inserisse nel tessuto gaddiano con discrezione. Ci troviamo di fronte a riprese che riguardano l’aspetto lessicale e quello concettuale; nel senso che il primo influisce direttamente sul secondo, gli aggiunge ulteriore spessore, mentre il secondo stimola Gadda nella ricerca di particolari termini.
A volte capita di imbattersi in specie di déjà-vu sintattici, in periodi che richiamano con forza quelli del recanatese. Ma a risultare fondamentale, in questo contesto, è specificatamente il riuso dell’idillio, lo smembramento delle parti che lo costituiscono e il reinserimento di queste nel proprio scrivere. Gadda ricorre all’idillio per sublimarsi lo stile, per donargli quella liricità che lo contraddistingue in uno dei suoi aspetti più noti; e nel ricorrervi finisce, quasi naturalmente, per cadere nel prestito leopardiano, come per consecuzione logica. L’idillio viene ripreso nel lessico, nella terminologia peregrina; ma anche nella figuratività, quando si tratta di creare quadri particolarmente emblematici, al limite dello stereotipo. Si assiste così ad una sorta di tripartizione, o meglio: di trinitarismo; perché tre sono le forme che l’idillio preferisce assumere: quella che si basa su una pensosità notturna; quella che vede l’occhio dello scrittore posarsi sui declivi dolci delle valli, fino alla pianura; quella, infine, che esalta, commossa, l’operosità semplice degli umili. Ciascuna di queste forme permane, sì, in una suggestione e in una significatività autonome, ma va anche a collegarsi, più o meno direttamente, alle altre due: va cioè a ricostruire l’unità idillica originaria.
La luna nella valle
Particolarmente fitto di ricami leopardiani è il tessuto aggrovigliato del Racconto italiano. Questa sofferta officina di lavoro è opera che deve forse alla sua data di composizione (1924-25) il perché di tanta evocazione. Il periodo, cioè, non solo lo possiamo definire giovanile (i corsivi sono comunque d’obbligo, visto che l’età di Gadda aveva all’epoca già passato i trent’anni), ma è anche estremamente prossimo, se non contemporaneo, alla preparazione per l’esame di letteratura italiana sostenuto nel novembre del ’24 su Leopardi.
Delle tante intuizioni di cui Roscioni ci ha fatto dono, una in particolare è buona allora a questo discorso: «Sorprende […] il ruolo quasi paradigmatico che finivano per assumere nelle sue riflessioni gli autori studiati […]. Qualcosa lo spingeva, parrebbe, a fare il massimo uso possibile delle esperienze acquisite: se queste erano esigue, casuali, il suo spirito analogico e dialettico provvedeva a contrapporle, intrecciarle, metterle comunque a frutto». (1) Dopo aver analizzato nel dettaglio l’opera, in versi e in prosa, del recanatese, Gadda acquisisce dunque con essa una familiarità ancora più profonda; i versi che gli riscaldavano il cuore durante i mesi di prigionia gli sono ora più vicini anche nella mente; tanto da averli presenti, con costanza, in alcune occasioni di creazione letteraria.
Ci viene incontro, in tale assunto, la considerazione di Turolo, che nell’esaminare il linguaggio gaddiano al suo primo manifestarsi afferma: «La valorizzazione intellettuale che traspare da qualche riga […] rende non inverosimili degli echi leopardiani nel sottofondo del lessico filosofico del Cahier. Più in generale, trattandosi pur sempre di esili legami, è difficile supporre spento il ricordo leopardiano nell’uso di alcune parole». (2) A comprovare questa attinenza, fatta di vaghi legami, lo studioso propone di accostare alcuni versi della Palinodia al marchese Gino Capponi a un brano iniziale del Racconto, poi confluito – ampliato – nell’ouverture dell’Adalgisa, da cui si cita:
La sera vi passano senza rallentare altri ciclisti e pedoni, reduci dal lavoro, con vari abiti e generalmente dimessi: e ragazze un po’ stanche, dai capelli raccolti, uscite dalle fabbriche. Non esiste, purtroppo, un costume regionale […]: né corsetto o giustacuore a fiorami, bretelle come spallari larghe, penna o piumicino in sul cappello, di gallo di monte o del collo del fagiano crisòtide, o altro volatile di pregio che si stato raggiunto nel tiro magistrale dal portatore. Non lo spadino dal pugno di madreperla, non piumaggi da riverenza lunga, né lama di rabescata guardia, né filigranato monile, né fibbia, o scarpino, o cappa, o guarnacca, o ciarpa, da figurare cose di Spagna o le sagre del Tirolo; o altra grandezza e costumi di popolo, come ne’ teatri. Alcuni vestono larghi pantaloni di fustagno, quasi un rozzo velluto […]. Quelli che procedono a piedi, recano a spalla una povera giacchetta sudando ancora nella sera, minatori assetati, frantumatori delle antiche rocce […]. In qualche viso rasciutto […], sulle grinze della non pensionabile pelle, è rimasto uno schizzo di calcina […]. I fabbri, i meccanici, i conducenti vestono talora combinazioni di tela turchina […]. Garzoni discesi dai ponti e dai bilancini con la faccia tutta sbiancata dalle sfarinature del gesso, come Pierrot nel pallore della luna, come infarinati mugnai». (RR I 294-95)
I versi cui Turolo lega questo brano sono parte dell’elencazione sarcastica di quelle meraviglie che le «magnifiche sorti e progressive» senz’altro avrebbero apportato; meraviglie che si riducono, secondo Leopardi, a semplici banali comodità, inutili alla felicità dell’uomo – il caso delle migliorie concernenti il vestiario e, per contrasto, della grossolanità delle umili vesti:
Di giorno in giorno diverran le vesti
Più molli
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
(Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 109-14)
A parte il campionario degli improbabili «costumi di popolo», le analogie più interessanti riguardano soprattutto i riferimenti all’aspetto della povera gente che rientra da una faticosa giornata di lavoro: il «rozzo velluto» che riprende il sintagma «rozzi panni»; la menzione dei «fabbri» in mezzo ad altri mestieri; la descrizione della pelle grinzosa dei vari operai che richiama la «scabra pelle» leopardiana – anche se a nostro parere è il pezzo in sé, ossia l’impressione generale che se ne ricava a risultare significativa, più ancora delle riprese testuali.
Le ragazze che escono dalle fabbriche, i minatori che rientrano a casa recando sulla spalla una povera giacchetta, i garzoni che somigliano al malinconico Pierrot: tutti discendono dagli umili personaggi che popolano il mondo leopardiano, dalle donzellette, dagli artigiani, dai garzoncelli scherzosi delle poesie più note. E, a prescindere da questo particolare passaggio, l’intero racconto iniziale dell’Adalgisa presenta ascendenze chiare quanto diffuse: è un rincorrersi di parole poeticissime, (3) di pause sintattiche (quelle «riprese gnostiche» che proprio Gadda riscontrava nella poesia montaliana), di figurazioni propriamente idilliche; e si presenta, per la prima volta, un’immagine che tornerà con insistenza ossessiva nel corpus gaddiano, all’insegna di una riscrittura instancabile: quella della valle che si stende serena nell’operare degli uomini, dominata, spesso, dall’altezza rassicurante della torre:
I cubi delle case e delle ville parevano bianchi e chiari, per una dolcezza che fosse, come verità, nella terra serena […]. Da presso, le ville si vedevano avere un lor tetto di falda scura e lenta, di cui emergeva il tepido muro della torre. Alta, bianca, nell’imminente chiarità della notte, come rocca da guardare tutte le terre all’intorno. (RR I 292-93)
Questo breve estratto risulta, già solo ad una prima occhiata, incredibilmente gravido di richiami; sottacendo del lessico altamente leopardiano, basti soltanto raffrontare la descrizione della torre con il verso del Pensiero dominante: «Siccome torre | In solitario campo, | Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei». Già Pierangeli, d’altra parte, aveva notato questi forti legami, scrivendo che la «posizione della luna e, giù nel paese, la fatica del lavoro e la truppa in riposo, richiamano motivi leopardiani, anche nell’immagine della torre […]. Non mancano neanche i garzoni» (Pierangeli 1999: 74-75). Il discorso si arricchisce, oltre che confermarsi, con l’altra novella espunta dal Racconto italiano, intitolata anch’essa Notte di luna. (4) Sebbene diversa nella struttura, e decisamente più legata al racconto di origine (vi è delineata una parte della trama), ritornano e si ampliano, in questa composizione, gli elementi che costituivano già quella precedente: l’evocazione della valle, della torre, e – più di tutto – la presenza di termini-chiave come chiarità e opere, che ricorrono con ostinazione:
Invece, la valle si apriva verso la luce chiara delle opere e un tintinnio lontano, il sonaglio di qualche giudizioso cavallo, e qualche lontano e secco schiocco di frusta, rompevano talora la profonda mormorazione del fiume, invisibile nel fondo. Un lieve alito dalle cime fruscianti dei làrici; di contro, al di là del vuoto, su rupi ispide un eremo bianco: e un muro che ne ascendeva tortuoso la groppa e finiva a una grigia, vecchia torre. (RR II 1073)
Assolutamente inequivocabile risulta, nel brano, il prestito dalla Quiete. Un intero periodo («un tintinnio lontano, il sonaglio di qualche giudizioso cavallo») è tratto, testualmente, dal grande idillio:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
(La quiete dopo la tempesta, vv. 22-24)
Ogni chiosa si ridurrebbe a semplice pleonasmo. Preferiamo allora far notare, semmai, anche il riferimento al «fiume, invisibile nel fondo», che nel canto leopardiano compare invece d’improvviso:
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare. (vv. 6-7)
Si tratta di due fiumi molto dissimili, divergenti nel valore simbolico (segno di speranza il primo; parente stretto dell’infernale Devero, presente nel Racconto italiano, il secondo). Del resto, ad opporsi qui sono proprio i relativi contesti: nella poesia, nella sua parte descrittiva, ogni elemento sta a simboleggiare la vita che riprende; mentre nel racconto gaddiano ad essere narrati sono i pensieri cupi e disperati di Carletto, che ripensa alla mamma, che legge presagi oscuri in ogni manifestazione della natura e della notte. È anzi interessante sottolineare la presenza, nel brano di Gadda, di alcuni elementi che si contrappongono ad altri del canto: non c’è «la gallina […] che ripete il suo verso» (vv. 2-4), ma una «civetta» («segno di morte») che «aveva cominciato a fare il suo verso» (RR II 1074); nessuna traccia degli «augelli» a «far festa», ma solo un «usignolo» che «si era taciuto, lasciando sola la notte e le sue stelle fredde, infinite» (RR II 1074); e poi anche la luce non «rompe là da ponente» come il «sereno» leopardiano (vv. 4-5), ma all’opposto essa «appare da oriente» (RR II 1074).
Non giureremmo su un preciso intento gaddiano, ma certo ci sembra che la Quiete venga scomposta in tante particelle, disseminate poi all’interno del brano in un uso simbolico che alterna il ribaltamento di senso all’evocazione diretta. In quest’ultima direzione sembra inserirsi l’uso del termine opera, presente, oltre che nel pezzo citato, qualche capoverso più avanti: «L’aspetto di tante opere vive lo distrasse» (RR II 1075). Anche questa parola fa parte, seppur in forma sincopata, ma nello stesso significato, della poesia leopardiana: «Quando con tanto amore | l’uomo a’ suoi studi intende? | O torna all’opre?» (vv. 28-30).
Sempre nella stessa direzione, poi, vanno situati altri due vocaboli che vedremo essere collocati su un piano simbolico, nella narrativa gaddiana: chiaro e, naturalmente, valle. A proposito di quest’ultimo, è forse utile riportare due altri luoghi dei Canti in cui esso appare, onde farne apprezzare appieno l’estrema vicinanza contestuale con le occorrenze gaddiane. Sono versi che descrivono, in maniera splendida, il paesaggio lunare, e che hanno influenzato probabilmente la redazione di entrambe le notti di luna:
Nell’infinito seno
Scende la luna; e si scolora il mondo;
Spariscon l’ombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna.
(Il tramonto della luna, vv. 11-14)Le cime si scoprian delle montagne.
In queta ombra giacea la valle bruna,
E i collicelli intorno rivestia
Del suo candor la rugiadosa luna.
(Frammento XXXIX, vv. 16-18)
Non è il caso di rischiare ulteriori forzature (inevitabili in questo tipo di approccio) con altri espunti, anche perché, lo ripetiamo, la luce leopardiana che illumina lo scritto irradia più che colpire. Discorso diverso merita, però, un’altra ascendenza diretta che si manifesta nella seconda Notte; questa volta, ad essere evocate sono due poesie che parlano del giorno festivo e della sua vigilia; si tratta, ovviamente, della Sera del dì di festa e del Sabato del villaggio, che presiedono alla stesura del brano seguente:
Tutti erano sul limitare, ciascheduno del suo sito […]. Solo i bimbi sgattaiolavano di tra le gambe de’ maggiori a rincorrere un nero, disperato ricetto, con calzoni poveri e frusti e piè nudi […]. Allora si sparpagliavano gridando e chiamandosi, o scagliando temibili sassi verso i rondinini che, nel tramonto arancione, cercano rifugio, impauriti, di là dalla torre. I grandi discutevano. Discutevano con la loro usuale energia, che il dì di festa e la mescita esaltano, più che non possa temperarla il riposo. (RR I 1080)
Della prima non v’è forse che il richiamo esplicito al titolo; dell’altra l’omaggio all’entusiasmo dei bambini:
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore.
A rifletterci, però, ci si accorge che il brano di Gadda si dispone in modo singolare rispetto ai due canti, e precisamente nel mezzo. Mentre infatti La sera si colloca temporalmente dopo la festa e il Sabato prima, lo scritto gaddiano le è simultaneo: l’occhio del narratore coincide con quello dei personaggi. Del resto, il sintagma dì di festa viene utilizzato almeno in una seconda occasione, nella Festa dell’uva a Marino; (5) il che ci aiuta a ipotizzare, con buona approssimazione, che l’espressione doveva essere paradigmatica nella mente dell’ingegnere: Leopardi, e ciò che lo concerne, agisce nell’immaginario gaddiano in modo sillogistico, necessario, consecutivo.
Umanità degli umili
Negli scritti di Gadda tornano spesso le scenografie leopardiane, e con esse gli attori che le popolano. Il cantiere aperto del Racconto italiano è solo il primo, ottimo esempio di una lunga serie di allusioni. Già al suo interno si intuisce il vincolo che lega il paesaggio delle valli all’operosità tenace dei lavoratori; ma finora, ad essere raccontati, sono stati i momenti del rientro a casa o della festa. Solo in un caso, in una splendida proposizione, il legame viene esplicitato: «la valle si apriva verso la luce chiara delle opere». Compaiono qui quelle tre parole chiave del lessico gaddiano – valle, chiara, opere – che ricorrono, come per impulso irresistibile, praticamente in ogni accensione lirica; tutte e tre sono, per quanto comunissime, di probabile derivazione leopardiana, presenti in molti dei luoghi più tipicamente idillici. (6)
Con opera, comunque, e saldandola frequentemente alle altre due, l’ingegnere effettua un lavoro di arricchimento semantico che gliela rende più sua, una sorta di connivenza lessicale generatrice di frasi memorabili: frasi che partecipano, a volte, di quella «nitidezza lunare» tanto apprezzata nei versi del recanatese. Opera, con i suoi derivati, è parola che significa per lo più la presenza di un ordine e di un decoro propri alla fatica dei semplici – l’ultimo scritto gaddiano, risalente al 1970, è per l’appunto una toccante celebrazione della loro vita:
Gli umili, o coloro che tali si ritengono per un modesto riserbo, hanno da molti anni fermato l’attenzione di chi, e parlo di me, vorrebbe essere del loro novero se difficoltà esterne non gli avessero imposto un contegno forzatamente più cauto avverso le tristi esigenze della sua condizione umana: non è escluso che tale desiderio di riserbo abbia origine in una ammirazione lontana, quasi un insegnamento atavico, trasmesso da quello che potremmo chiamare un comando genetico. Nei miei lunghi decenni romani, grande fascino ha esercitato il ritorno serale dei muratori, i cosiddetti maestri muratori che, stanchi e talora bruciati da calce le mani o il volto riconducevano alla povera abitazione senza poter aggiungere alla loro giornaliera fatica altro che chilometri e chilometri di cammino. A volte la mia ammirazione andava all’opera loro abile e sollecita […]. L’animo del sottoscritto è legato ai cosiddetti umili, è preso dall’ammirazione per la loro continua e vigile fatica. (SGF I 1224-226)
Si percepisce, nei loro riguardi, un sacro rispetto, sentimento che tante volte trova testimonianza nella narrativa gaddiana. Non manca il riferimento all’«opera» e all’«abitudine dell’ordine» (SGF I 1225) che quasi consustanzia il vivere degli umili. A volte sembra che Gadda abbia della natura una concezione prossima al panteismo; un panteismo, beninteso, non oleografico, ma personalizzato, basato su un’ideologia industriale, debitrice delle stigmatizzate magnifiche sorti leopardiane; un’ideologia legata, forse, a una visione ancora pre-positivista, ancora priva della spocchia ottocentesca: grazie alla scienza, alla tecnica ingegneristica, e per mezzo della fatica degli uomini, si può cioè creare un ordine, bello a vedersi e – non meno importante – fruttuoso. Gli umili, in questo contesto, si inseriscono in modo assolutamente armonioso, necessario all’equilibrio delle cose. Un commosso, partecipe scritto degli Anni ci viene incontro nell’affermazione:
La pianura lavorata persiste, nelle parvenze della natura e dell’opere, ad essere la madre cara e necessaria, la base di nostra vita […]. E ogni volta che scorgiamo il fumo e poi i bruni coppi e il tetto remoto d’una cascina, ecco un sogno è suscitato nell’anima: un’idea di vigore, di saggezza operosa, tenacemente fedele alle opere necessarie. Questa dimora della vita prima e povera, della silente fatica, sorge improvvisa dopo i salici, i pioppi, nella sua ragione e nella sua pace, dal verde tenero della pianura lavorata […]. Dentro vi si immagina la famiglia, dopo il giorno e il sudore; e cucchiaiate lente, necessarie, confortatrici. Nella campagna una ragione profonda, antica. L’ordine geometrico e la dirittura delle opere, il popolo stupefatto dei pioppi, la specchiante adacquatura delle risaie. (SGF I 212-13)
Nel caso di Gadda, parlare di armonia significa sempre parlare di un sogno difficilmente raggiungibile, se non a prezzo di estrema fatica, se non all’interno dell’alienazione, millenaria, del lavoro: la consapevolezza, disillusa, dell’impossibilità dell’ordine è troppo lucida per lasciarsi prendere dal sentimentalismo. Ciononostante, capita di trovare tra le sue pagine un senso di stupefazione dinanzi allo spettacolo della terra lavorata, ordinata, geometrica.
Terra lombarda rappresenta, in questo senso, una sorta di archetipo, un distillato di quanto sinora asserito: come se, circostanza rara, Gadda fosse riuscito a depurare la sua scrittura. Tutto, nel quadro descritto, viene visto come necessario: la pianura, le opere, le cucchiaiate. Qui il sogno è ancora possibile. La «pianura lavorata» è lì a dimostrare che «l’ordine geometrico e la dirittura delle opere» esistono, sono sotto gli occhi; e questo, perché nella campagna opera «una ragione profonda, antica», che risale la corsa del tempo per secoli e secoli, fino all’armonia originaria. (7) Ma anche questa che appariva come ultima ancora di salvezza sembra affondare, inesorabilmente, insieme a tutto il vascello delle speranze: nella riedizione di Verso la Certosa, il brano si arricchisce d’un finale più amaro e desolante che, come annota anche Pierangeli, accentua le parole sogno e paura «verso un avvertimento più acuto della presente vanità» (Pierangeli 1999: 66):
L’ordine geometrico e la dirittura delle opere, il popolo stupefatto dei pioppi, la specchiante adacquatura delle risaie: che la sera illividisce di sogni, di futili paure. (SGF I 290)
C’è un altro brano degli Anni, già abbondantemente citato, che ci offre qualcosa in più rispetto agli altri. La particolarità di Dalle specchiere dei laghi consiste in una dichiarazione in prima persona da parte di Gadda, in cui egli espone il suo desiderio di appartenenza, di appartenenza a un ordine, al sistema armonico delle campagne lombarde:
Nella terra che avrebbe potuto esser terra e patria anche a me, come a tutti era, e c’erano per i chiari sentieri le ragazze delle filande, con un canto, con a mano il secchiello della refezione: contadini robusti, sudati, dentro la luce di operosi mattini. (SGF I 227)
Avevamo già commentato questo passo come l’enunciazione di una sensazione: quella di non appartenere alla propria terra e, metaforicamente, alla propria madre. Ma un terzo elemento si può aggiungere ai primi due per completare questo stato di estraneità totale: il non sentirsi parte integrante del naturalis ordo, meccanismo ben funzionante, e il risultante sgomento di fronte al garbuglio universale. Di un paio di anni prima è una confessione che si inserisce perfettamente nel nostro discorso, e che si può estrapolare da un articolo su un’esposizione milanese del ’39: «Quest’ordine veramente ci soccorre nel cammino, alleviandoci quello sgomento, quella confusione, che prende ognuno di noi davanti a un compito di troppo superiore alle sue forze» (SGF I 227). Le parole di Gadda da sole bastano a giustificare il continuo riferirsi al concetto d’ordine; e, di conseguenza, ad avvalorare l’ipotesi di un suo ringraziamento per quelle rare occasioni in cui esso si manifesta.
è quindi con una meraviglia ed una stima ripetute, che Gadda ci suggerisce di collegare queste occasioni al lavoro, specialmente, degli umili. (8) Che questi però siano, per l’appunto, operosi, che partecipino cioè attivamente all’ordine: «nelle opere e nei dì della pace lodarò il villano», viene detto nella malvagia prefazione del Castello di Udine, Tendo al mio fine (RR I 121). La citazione offre il destro per un’altra osservazione: Gadda accetta l’umiltà esclusivamente «nei dì della pace», questo perlomeno a sentire alcune pagine del Castello. Soprattutto in Impossibilità di un diario di guerra, l’autore si lascia andare ad affermazioni che sfiorerebbero un patriottismo becero, se non fossero in certo senso giustificabili dal suo acutissimo senso del dovere, anche di quello militare:
Dico che mai non mi sono sentito umile, come soldato, ma orgogliosissimo sempre […]. Io non fui e non sono un umile fante, ma un soldato d’Italia a ora a ora buono o gramo, che ebbe infiniti difetti e conobbe infiniti peccati, salvo quelli dell’umiltà […]. L’umiltà vera di alcuni mi rendeva cattivo. (RR I 136-37)
Confrontando queste ed altre perentorie asserzioni del testo («I soldati non dovevano essere umili, ma bravi soldati», RR I 141) con le sparse e diffusissime attestazioni di stima che compaiono nel resto del corpus gaddiano, si capisce come in realtà, più che una superbia fascistoide, bruciano in Gadda due cose: l’orgoglio di discendere da una famiglia di patrioti (tra gli altri, lo zio senatore); e il male oscuro che nella guerra trova forse la sua precisa scaturigine. È l’atroce esperienza della morte, della morte gratuita, quella rimproverata con furore ai generali incompetenti, che lo segnerà per sempre fino nell’intimità dei suoi pensieri.
A parte la caduta del fratello (notizia che apprenderà dopo la fine del conflitto), alla guerra si possono cioè ricondurre alcuni dei suoi traumi più sottili e feroci: la scoperta, o la conferma, della propria fragilità fisica e psicologica; e la disillusione verso una nazione cui era fermamente legato, una nazione che aveva mostrato un difetto, un male non scusabile ai suoi occhi, la superficialità. In tutto questo sfacelo esistenziale, permane però qualcosa di valido, di vitale: l’orgoglio di aver prestato servizio alla patria, di aver comunque rischiato la pelle per la propria nazione e per i propri connazionali. Da qui, il disprezzo inemendabile verso i disertori, i socialisti, gli anarchici, i non-interventisti; e infine gli umili: perché anche gli umili, con la loro saggia rassegnazione, sono inutili alla guerra. Perché il nemico va ucciso, e non sopportato.
Ma al di là della guerra, e una volta smarrita la sacralità del campo di battaglia, perde di senso ogni etichetta; e si scopre che anche il più convinto tra i socialisti può risultare una brava persona: senz’altro più di un rampollo qualsiasi dell’alta società. (9) Lo stesso dicasi per la categoria degli umili, anzi nel loro caso il rimbrotto appena riportato costituisce eccezione: (10) non solo essi figurano, infatti, con regolarità nelle varie descrizioni panteistiche, ma è a loro che vengono anche rivolte costanti dichiarazioni di affetto. Quella citata ad apertura di paragrafo è senz’altro la più eloquente e definita, non ha bisogno di chiosa; ne esistono però altre, in cui l’affetto si evince dal calore che soffonde le parole, dalla scelta dei termini usati.
Ciò avviene pure nei saggi ed articoli, laddove Gadda cerca arricchimento di partecipazione emotiva. E in questo senso rientra in scena Leopardi. In una delle divagazioni saggistiche, ad esempio, Gadda motiva, seppur in modo celato, la dipendenza tra l’argomento umile e il recanatese. La supposizione non è attestata da una dichiarazione vera e propria, ma da una serie di assonanze lessicali, e da un impiego dell’articolo particolarmente sospettabile. Siamo di fronte ad una dissertazione sull’utilizzo della terminologia tecnica in poesia; ad un certo punto vengono evocati casi di autori che non distolsero la penna dall’uso di un vocabolario poco sublime:
E quelli che annotano, […], le visioni degli uomini; e descrivono i loro costumi e il loro strazio, poetando circa le nobili opere della pace o della guerra, sopra le vendemmie o l’Achille, non hanno disdegnato di riguardare, talora, al sudore dei fabbri, degli artieri; e han dedicato anche, sia all’incudine che al mantice, un certo loro spiritato interesse. (Tecnica e poesia, SGF I 240)
Nell’esemplificare l’occorrenza dei mestieri degli umili, delle tecniche artigianali, Gadda ricorda la discesa di Teti dal dio Efesto per chiedergli di fabbricare nuove armi a suo figlio Achille:
Il zoppicante mostro è ben lieto di rendere un tanto servigio alla sua antica soccorritrice e poi caritatevole nutrice. Tantoché, rivenuto alla sua fucina, impartiti ai garzoni i martellanti ordini della bisogna, organizza seduta stante il lavoro. (SGF I 241)
Leopardi non può che far parte della schiera di coloro che descrissero i costumi e lo strazio degli uomini; ma più ancora a dover essere sottolineato è che il luogo omerico viene richiamato per mezzo dell’idioletto leopardiano: l’uso dell’articolo il dinanzi a z è lo stesso de il zappatore del Sabato del villaggio, e di questa poesia fa anche parte il rimando al garzone e al suono del martello. Sono riferimenti, questi, abbastanza evidenti, che confessano, come in un lapsus, la connessione esistente tra il poeta e la figura degli umili.
Sulla tomba del Tasso
Ma era questa connessione reale, o era piuttosto un’interpretazione particolare dell’ingegnere? La presenza dei vari artigiani nei Canti è sufficiente ad attribuire a Leopardi la tendenza alla comprensione e alla commozione verso di essi? Sebbene esca un po’ fuori dal nostro percorso, è forse opportuno riportare il testo di una famosa epistola leopardiana, in cui è racchiuso il succo della sua poetica idillica e della sua partecipazione emotiva alla vita semplice. Essa costituisce un nullaosta autorevole, tanto da contenere, anche dal punto di vista terminologico, notevoli attinenze con i paragrafi gaddiani appena citati.
La lettera è quella del 20 febbraio 1823, scritta da Roma al fratello Carlo, e definita da Binni l’«unico capolavoro romano di Leopardi» (Binni 1973: 273). Dopo aver narrato dell’emozione provata nel visitare la tomba del Tasso, e dell’indignazione nel trovarla misera e sproporzionata alla grandezza del poeta, Giacomo racconta della strada percorsa per raggiungerla:
Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione.
Lasciando da parte le implicazioni sociologistiche, e le discussioni sul modo di volgersi al popolo, possiamo affermare che questa lettera risolve praticamente ogni dubbio, sulla simpatia che Leopardi provava per la povera gente; e aggiunge altra, limpidissima acqua al mulino delle nostre congetture. È straordinaria soprattutto la prossimità concettuale e lessicale di un sintagma come «vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili», in cui si concentrano mirabilmente temi e giudizi presenti negli scritti gaddiani. Ma anche la menzione delle donne e degli operai che stanno al lavoro, del «travaglio» che informa la loro esistenza: sono solidi basamenti all’edificazione dell’universo idillico che Leopardi avrebbe creato di lì a poco, e che sarà fonte ai muratori, fabbri e contadini gaddiani.
La contemplazione della notte
Non fanno però soltanto i mestieri narrati nei Canti, gli umili di Gadda. Dai lucidatori di pavimenti dell’Adalgisa e dalle mondine delle Meraviglie d’Italia agli elettricisti del Pasticciaccio: molti altri sono i lavori ed i lavoratori descritti dal gran lombardo. Vi è anche il caso di un brevissimo omaggio all’opera degli spazzini, che riportano per noi le strade ad uno stato di decoro:
Tu li senti [gli spazzini]: la città s’è purgata dei rumori e più non frastorna, con il suo trambusto, il corso delle tacite stelle. Allora ti pare di destarti da quella gran pena del vivere, di aver dimesso, risvegliandoti, una soma che troppo faticavi a portarla […]. Essi, gli uomini della ramazza, hanno la lenta e notturna pazienza del bovaro e del pastore che sospinge, sospinge la carnale necessità della mandra e del gregge oltre duna e collina, fino a vedere la fascia dell’oriente […]. Finché chiare serenità si dipingono, a oriente, nel cielo della speranza. Nel buon sonno dell’alba vanisce […], il brontolamento dei vecchi spazzini: e ti pare che la luce del sogno sia traversata d’un pensiero di malinconia, d’un dolce ricordo degli anni. Gli spazzini si sono dileguati nel primo chiarire, come ombre al sùbito canto del gallo. Si sono allontanati dalla strada ridivenuta manicomio: e mi paiono i saggi esecutori del destino, che col loro sdruscio accompagnano, quanto dura la notte, il corso altissimo delle stelle. (SGF I 61-62)
Il tessuto, ricco di echi ormai noti, si sviluppa su due piani, tematico e testuale; e i due fili, i due sentieri della memoria, conducono a diversi luoghi dell’opera leopardiana. La metafora di fondo, che assimila gli spazzini ai pastori, malgrado richiami puntualmente molti sintagmi del Canto notturno, si apre in realtà a un discorso che ha poco a che vedere con l’infelicità cosmica lì espressa; si incentra ancora una volta, piuttosto, su quel diffuso, grato stupore che aiuta ad esprimere la pietas verso la gente semplice. Eppure, la presenza del Canto notturno è qui notevole e singolare, non si limita a fornire la sostanza testuale all’analogia:
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe.
(Canto notturno di un pastore errante, vv. 9-13)
Tanto che al pastore leopardiano che «move la greggia oltre pel campo» risponde quasi letteralmente quello gaddiano che «sospinge la carnale necessità della mandra e del gregge oltre duna e collina», e così come il primo inizia la sua fatica «in sul primo albore», l’altro la interrompe «nel primo chiarire». E si allarga, questa presenza, anche a descrivere i sentimenti, le stanche riflessioni dell’ingegner Gadda rimasto solo nella notte fonda, le cui parole rimandano forse alla famosa metafora del «vecchierel»:
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
[…],
Corre via, corre, anela,
[…]; infin ch’arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando, il tutto obblia. (vv. 21-36)
L’ingegnere parla di «gran pena del vivere» e di «soma» faticosa, così come Leopardi parlava di «gravissimo fascio in su le spalle» per significare la gravosità del vivere; la vicinanza formale e concettuale è massima, se consideriamo anche lo sfociare nel nulla di questa concezione dell’esistenza. Il lessico, soffusamente pervaso di vocaboli peregrini, si fa poi più definito in un ulteriore richiamo a un altro luogo della poesia, quando per due volte viene citato il corso delle stelle: alla prima delle occorrenze, in particolar modo, esso viene definito «tacito», proprio come il «tacito, infinito andar del tempo» del verso 72. Ma la vicinanza diviene persino ombra se ripensiamo all’apertura di Aspasia, dove Leopardi parla di «tacenti stelle» (v. 5). L’aggettivo (con le sue varianti) viene usato spesso dal poeta, e spesso per suggerire il silenzio della notte, l’inevitabile ripiegamento su stessi ad ascoltare la voce interiore.
La notte è la dimensione che agli occhi di Gadda, e non solo ai suoi, appare come particolarmente connessa al poeta di Recanati; (11) innumerabili sono i luoghi leopardiani che trattano l’atmosfera lunare, dalle primissime composizioni all’ultima in senso cronologico, Il tramonto della luna. Viene allora in mente l’invocazione, improvvisa, nel capitolo VIII della Meccanica, «Notte, immobile notte! I tuoi punti di zaffiro e d’oro sono, forse, lontani dolori» (RR II 583), dove l’esclamazione iniziale sembra imitare un ipotetico verso leopardiano. (12) Del resto abbiamo già osservato quanto le due Notti di luna gaddiane debbano agli idilli. È ora il caso di sottolineare che il titolo ha reale attinenza con i due pezzi: la vicenda si sviluppa perlopiù nella notte e, soprattutto per la versione dell’Adalgisa, il paesaggio descritto è interamente notturno, rispecchiando dunque anche in questo l’impostazione leopardiana. È però in un altro scritto, estrapolato dal materiale di Un fulmine sul 220 e ora presente nelle Meraviglie d’Italia, che Gadda ci fa partecipi, e in modo eloquente, del suo punto di vista sul rapporto intercorrente tra Leopardi, la notte e la riflessione:
E come la dècade, quand’è intatta, converte […] la leopardiana contemplazione dello stellato infinito […] in un intreccio di ricognizioni canine; così la sera, la sera più bella! si veniva allegrando […]. La ronda cominciò a funzionare alle otto e mezza e durò poi tutta quella sera e infino all’una, perseverando nelle più fruttuose indagini e severi interrogativi: discorrendo i tre […], immalinconiti, come in cerca d’un introvabile bàndolo del dover loro. Vedevano gli altri fringuelli così liberi in frasca, e taluno financo, al passare, li salutava in allegrezza dopo scrutatili in viso. (Ronda al Castello, SGF I 98-99) (13)
Nella descrizione della pattuglia di vigilanza che si aggira la sera nel Parco del Castello Sforzesco viene messa in risalto un’attitudine all’introspezione, all’immalinconimento. Si verifica allora una immediata estensione del lavoro di ronda (e delle necessarie indagini) a un più universale pattugliamento della mente, del proprio inconscio: a cercare dentro di sé il bandolo della matassa. Come spesso accade in Gadda, il dettaglio è gravido di altre, alte significazioni.
Ma la cosa che qui più interessa è che subito, senza quasi soluzione di continuità, necessariamente, la mano e il pensiero del narratore legano una situazione di assorta contemplazione alla figura di Leopardi. Leopardi è cioè sinonimo di riflessione, di interrogazione, di sguardo alle stelle e all’infinito; nella catena dei significati il lavoro di accostamento trasforma il poeta in un aggettivo da apporre alla notte e ad una situazione di idillio. Sì perché, nella mente di Gadda, è forse parso opportuno raddoppiare la sovrapposizione inserendo un’ulteriore metafora di matrice leopardiana: quella che vede tutti gli altri ragazzi esonerati dal servizio di ronda paragonati a «fringuelli» «liberi», proprio come il passero solitario Leopardi vedeva tutti gli altri ragazzi della sua età «augelli contenti», che «a gara insieme | Per lo libero ciel fan mille giri, | Pur festeggiando il lor tempo migliore» (vv. 9-11). (14) Rammentiamo che i tre termini in cui si smembra l’idillio sono in realtà sempre profondamente legati; capita a volte che venga evidenziato un aspetto piuttosto di un all’altro, ma mai in maniera assoluta; al ceppo originario si può continuamente risalire.
In uno dei suoi sopralluoghi di ingegnere, ad esempio, Gadda si ritrova in Arsia. Il sole è calato, e il paesaggio è immerso nella tenebra:
Ora tutto veniva consegnato alla notte e le vie e i sentieri mi parevano infidi. Dal folto di quelle macchie annerate e indistinte, eguagliatesi nella inanità della tenebra, nasceva l’aspettazione di un segno, come presagio o speranza, d’un evento recuperatore della continuità: fra le opere intralasciate entro la piccola valle, sotto le finestre e degli uffici, ch’erano accese. E dopo tarda angoscia ne scaturì nota e canto di purità e solitudine, dal folto de’ quercioli indistinti: in un ignoto luogo, insonne limpidità della notte, la vertigine dei rosignoli. Poi subito moltiplicata, come stille, stille: d’una infinita rugiada. Svolava ogni trillo, appassionato, verso la cima del canto; occupavano d’un pensiero di vita la distesa del silenzio, incidendovi il loro notturno magico. (SGF I 186)
Appare il paese. Da lontano, sulla strada, si vedono lumi che «parevano stelle che dal cielo fossero scivolate sul monte, a partecipare di nostra vita e pena: dentro i cespuglietti apparivano e disparivano, come lucciole per i sentieri notturni. Erano i minatori in cammino: con la lampada, le scarpe di ferro» (SGF I 187). Poi, finalmente, vede le abitazioni dei minatori: «Sono case e focolari veri per le vere famiglie dei veri operai» (SGF I 187).
Dalla descrizione della notte, come sempre, scaturisce una diffusa, impalpabile pensosità: provocata da termini leopardianamente poetici quali «solitudine», «indistinti», «ignoto», «limpidità», «infinita rugiada», «silenzio». (15) Ma l’intero brano è letteralmente impregnato di vocaboli che rimettono in circolo le argomentazioni appena affrontate: dal richiamo alle «opere» della «piccola valle», fino alla riconferma della stima per la vita degli umili operai, tanto da ribattere con insistenza sulla parola vero. Non solo la notte, dunque, non solo la malinconia, ma anche la valle e le opere, la «nettezza» e l’«ordine». E anche un riferimento, fuggevole, al «rintocco dell’ora» (SGF I 186).
Con un’insistenza ancor più ossessiva di quella di altri ossessivi vocaboli, l’immagine della torre ritorna praticamente in tutte le narrazioni gaddiane, dal Racconto italiano al Pasticciaccio, tanto da obbligare il lettore a definirne l’ambivalenza simbolica. Ma la congerie di significati che si addensa in questa parola è talmente vasta, da disorientare anche il più scrupoloso degli investigatori; come già sottolineato da Muzzioli, basterebbe il semplice numero delle occorrenze ad attestare la debolezza dell’ingegnere per questo vocabolo. (16)
Innumerevoli sono le categorie nelle quali esso può rientrare: dalla somiglianza con «eremi strani» o con «antiche certose», alle rocce che si stagliano dagli «spalti dell’Alpe», fino a rappresentare l’intera Roma vista in lontananza, col suo giustapporsi di «cupole» e, per l’appunto, «torri». Innumerevoli sono anche i discorsi che vi si possono allacciare: dal senso di protezione al tempo che scorre, dalla patria (iconograficamente riconoscibile per il copricapo turrito) alle privazioni dell’infanzia: fino ai vapori di un treno in lontananza. Va però detto che due soprattutto sono le torri richiamate da Gadda: quella del castello (o del palazzo comunale) e quella della chiesa, il campanile. Si assiste ad un’oscillazione continua tra rocche e abbazie, tra orologi e campane: tra tempo fisico e tempo rituale; al punto da confonderli, e così confondere quello che si cerca, in certo senso, di simboleggiare.
E questo perché ad importare veramente è la torre in sé, la sua imponenza, sia essa laica o religiosa. È nella sua piena polisemanticità che la torre sembra percorrere un cammino ben preciso lungo tutta l’opera gaddiana: una sorta di viaggio, di parabola esistenziale. Inizialmente, allora, può esser vista come emblema della dominazione, dell’ordine: come il centro della comunità; quasi contemporaneamente, però, essa diventa segno della scomparsa di quest’ordine, vestigia, e quindi dolore – fino a ridursi a semplice base per l’orologio: un orologio che, tra l’altro , segna la stessa ora dell’uomo. Tutto questo, ripetiamo, si succede nell’opere in maniera sincronica: vale a dire senza un’evoluzione cronologica, nel corso degli anni, con tappe precise; al momento della scrittura (anche delle prime prove di scrittura), questo processo consequenziale è già avvenuto, e si riverbera interamente nel nome, ricco di ogni sua sfaccettatura.
Tale percorso esistenziale all’interno del corpus gaddiano è poi parallelo a quello compiuto dall’idillio; sembra anzi simboleggiare la deformazione che esso subisce nel trasformarsi in sconfitta, in pulsione disperata verso la perduta armonia con la natura. Già avevamo visto come, grazie ad una semplice aggiunta, cambiasse il senso dell’ elegiaca Terra lombarda. Ora possiamo affermare che questa trasfigurazione si compie pienamente proprio nell’opera più grande e desolata di Gadda, La cognizione, in cui l’alter ego Gonzalo rappresenta in modo perfetto quell’impossibilità di partecipazione. In tutto questo discorso, Leopardi fornisce una sicura base testuale, ed esistenziale, oltre ad alcuni spunti concettuali da legare alle immagini della torre e della campana.
L’amore delle torri
Nella gaddiana Notte di luna, e cioè in una delle primissime occasioni narrative cercate dallo scrittore, il sintagma compare ben tre volte nel giro di poche righe, intersecandosi ad altri termini all’interno di un intenso tessuto leopardiano, e suggerendo temi diversi ad ogni occorrenza:
Accade che troppo stanchi, o perduti in un’ansia, riguardiamo ai segni lontani della notte. Dei secoli sono germinate le torri […]. (Per anni si erano uditi fragori dalle montagne, come tuoni lunghi, implacati […]. Della città erano a dolorare le torri, illividite nella tenebra) […]. Una sirena strideva a tratti, lontanando sulla camionabile. Da presso, le ville si vedevano aver un lor tetto di falda scura e lenta, di cui emergeva il tepido muro della torre. Alta, bianca, nell’imminente chiarità della notte, come rocca da guardare tutte le terre all’intorno. (RR I 292-93)
Si percepisce già da ora, e senza sforzo, il legame che unisce la torre alla storia e alla memoria di un popolo e dell’individuo singolo. E si percepisce altresì la presenza di vocaboli evidentemente leopardiani quali «alta», «chiarità», «lontanando». (17) La torre è tutto ciò che resta dell’avvicendarsi delle generazioni; è figlia legittima del tempo e dell’uomo («Dei secoli sono germinate le torri»), (18) l’emblema, forse, di una dispersa armonia; ma è anche – nella sua onnipresenza, nella sua altezza («Alta, bianca […] da guardare tutte le terre all’intorno») – madre e nutrice: simbolo di sicurezza e di protezione, come lo stesso Gadda dichiara espressamente in un famoso scritto:
E l’amore delle torri, dei fossati, delle chiuse ed alte mura, il sogno dei castelli, e tutte in genere le imaginative, per me così veementi, di casa, di protezione, di chiusura, di porta sbarrata, di mura della città, di corpo di guardia, di esclusione degli sconosciuti dalla città e dalla casa. (SGF I 77)
La torre è quindi, proprio perché riconoscibile sempre, fin da lontano, qualcosa che tranquillizza, fa ritrovare la strada – qualcosa di strettamente legato alle «alte mura», ai «castelli» e, in definitiva, alla nobiltà. (19)
Ma la nobiltà è disparita insieme all’ordine, e a risaltare è più che altro la sua assenza. Per questo motivo, forse, capita di trovare spesso questa parola all’interno di un contesto melanconico, dubitativo, quando non acerbamente doloroso: faccia parte di un edificio signorile o di una chiesa, la torre si staglia, nella pagina, su un’atmosfera pensosa, raccolta, trapelante sofferenze mai sopite. Alle volte, il dolore si traduce in una tristezza soffusa e quasi silenziosa:
Quella sera la mamma era assente. Elio, mutatosi d’abiti, si era pettinato con cura, aveva tristemente spento tutte le luci di casa: i vecchi quadri senza senso erano piombati a un tratto nel buio. Sette rintocchi, dalla vecchia torre, caddero nel lago opaco del silenzio. Poi un ritornello che saliva dalla via solitaria. (RR I 225)
Più frequentemente si risolve in immagini di concreto, concretissimo sconforto, di immedicata disperazione:
Lo strazio delle cose remote e perse lo prese: ricordò sua madre […]. E la torre quadrata è senza bellezza e attende gelide nebbie. Già gli alberi han freddo, le campane propongono malinconiche meditazioni. (RR I 41)
L’essenza del male si esplica qui nel ricordo della madre, che prima invece era causa implicita di tristezza. In entrambi i casi, la torre assorbe in sé i correlativi della morte: cadere nel silenzio e attendere gelide nebbie. Questa chiarezza nella dicitura fa in fondo da contraltare alla cripticità di Notte di luna, dove il motivo del dolore – del «dolorare [delle] torri», e qui la torre potrebbe essere proprio segno della madre e della casa in attesa – era nascosto dietro una coltre di densa simbolicità, che lasciava forse intravedere, nel ricordo della guerra, il riferimento alla morte del fratello, precipitato col suo aeroplano su un monte nei pressi di Vicenza («Per anni si erano uditi fragori dalle montagne, come tuoni lunghi, implacati»).
A risultare essenziale, in questa continua intersezione tra torre e dolore, è, va detto, il suono ridondante e invadente delle campane. Quello delle campane, dopo tutto, è un tema che accomuna Gadda a poeti e scrittori del suo dialetto. In Buzzati e in Delio Tessa, ad esempio, ma anche in Dossi, il suono delle campane compare come triste messo di fastidio, di disturbo: quasi che proprio la diversa cadenza delle note del rito ambrosiano (unica in Italia) porti con sé un’oscura sensazione di disagio. (20)
Anche in Gadda, infatti, è il loro rimbombare continuo a costituire «memento […] crudele» della pena, (21) ed è dunque sotto la forma del campanile che si identifica il traslato basilare di tutta l’opera gaddiana. Eppure non crediamo sia fondamentale operare questa distinzione; fondamentale è dire invece che alla memoria della comunità si lega indissolubilmente la memoria personale, quella legata alle vicende interiori dell’autore e di nessun altro. Dal tutto si passa al singolo, dal generale al particolare. Ma lo scarto è quasi invisibile, perché la sofferenza si effonde sul resto del foglio in modo impercettibile, si confonde spesso con la levità e la vaghezza del paesaggio idillico. Nel male oscuro che la torre ipostatizza si riflette anche l’inaccessibilità all’idillio. E viceversa.
Nello sguardo di Gonzalo si fondono così in uno il dolore che lo devasta e la separazione dalla vita vera. Alla prima comparsa nella Cognizione, comunque, l’illusione è forse ancora possibile:
Parete altissima e grigia incombe improvvisa sull’idillio, con cupi strapiombi: e canaloni, fra le torri, dove si rintanano fredde ombre nell’alba, e vi persistono, coi loro geli, per tutto il primo giro del mattino […]. Ivi alcuna più ardita torre, (con mattutine campane), lacera il velo dorato delle nebbie; il vapore […] sibila per lontani rimandi tra le colline, e rigiri: porta la stipata, nera folla degli uomini poveri, che ne traboccano verso gli opifici e le fabbriche o, sul poco fiume, il maglio. (RR I 575)
La torre e le campane non sembrano significare nulla se non se stesse, e quasi proteggono la leopardiana «nera folla degli uomini poveri» diretti al lavoro; qui il campanile è ancora segno dell’ordine, centro del villaggio, e il suono dell’ora non disturba, non lacera che «il velo dorato della nebbia»: è insomma rito del giorno, (22) «metallo accomunante della liturgia» (RR I 628). E il sogno sembra durare anche più oltre, in un contesto che si presenta sempre più legato all’esempio leopardiano; ma già qui esso prende coscienza di sé, del suo essere cioè «favola» e «inganno», e dunque inesorabilmente distante:
Il toccare delle undici e mezza separò i due, dalla torre, metallo immane sullo stridere di tutte le piante; quasicché la ronda del Conta-ore li avesse colti in peccato […]. Attraverso le barre in legno […] fu, come ogni volta che ci arrivava, in uno sguardo, la chiarità dell’estate […]; e là discendeva la costa, assai verde, e là dopo il breve ozio dei laghi erano altri colli dentro la luce, ed ancora, ancora. L’occhio abbagliato voleva inseguirvi una nuova favola, tenue, dolcissima, tra scene lontane, nell’inganno delle prospettive di fuga […]. Vide perdersi con una coda nera e un bioccolìo bianco il vapore delle Ferrovie del Sud. (RR I 615)
Il tocco dell’ora scandisce praticamente tutto il romanzo. Viene menzionato sempre, e sempre con dovizia di particolari, tanto da aprire ogni volta le porte a brevi digressioni che spostano lo sguardo sulla campagna circostante. A seconda del personaggio che ne ascolta il suono muta, però, il sostrato metaforico; figlio e madre accolgono in maniera diversa il richiamo: in modi, cioè, che rispecchiano i loro rispettivi caratteri. Nel caso di Gonzalo, il suono diventa frastuono, baccano, oltraggiosa invasione alla sensibilissima bolla psichica che lo circonda; nel suo caso, le campane sono quelle per il cui acquisto i genitori donarono una cifra consistente, e per cui da bambino patì la fame e il freddo. Non sappiamo se l’episodio sia veramente accaduto nei termini in cui viene raccontato (Roscioni 1997: 72-73); sta di fatto che da questo punto del romanzo in poi la torre sarà basamento all’invadenza delle campane:
Intanto, dopo dodici enormi tocchi, le campane del mezzogiorno avevano messo nei colli, di là dai tègoli e dal fumare dei camini, il pieno frastuono della gloria. Dodici gocce, come di bronzo immane, celeste, eran seguitate a cadere una via l’altra, indeprecabili, sul lustro fogliame del banzavóis […]. Lo stridere delle bestie di luce venne sommerso in una propagazione di onde di bronzo […]: cinquecento lire di onde, di onde! cinquecento, cinquecento!, basta basta, signor Francisco, ma questo qui non fa male… di onde, di onde! dalla torre: dal campanile color calza, artefice di quel baccano tridentino;
… è inutile ch’io lo nòmini invano… Quello che ha appena finito di venir fuori di là…», col volto significò la torre, «dalla matrice di quelle mènadi scaravoltate a pancia all’aria… col batacchio per aria… Bestie pazze! per cui ho patito la fame, da bimbo, la fame! Cinquecento pesos! cinquecento: di munificenza pirobutirrica: cinquecento pesos!… con la maglia rattoppata… i geloni ai diti… i piedi bagnati nelle scarpe… i castighi! perché i diti gelati non potevano stringer la penna… col mal di gola sul Fedro… con sei gradi di amor paterno addosso… e un fumo da far inverdire le meningi… perché il caro batacchio venisse buono… buono agli inni e alla gloria… il batacchio… a intronare la cara villa, con le care patate, nel caro Lukones… a romperci i timpani per quarant’anni!… Tolgono la pace ai vivi e ai morti, creda: mi vietano di scrivere: di leggere… financo i Vangeli mi fanno buttar via,… dal baccano che impiantano, dopo due minuti!… tale è il pandemonio che ne dirompe fuori, dalla mattina alla sera… dalle quattro alle undici… Una russia compagna! ma è roba da spararsi… (23)
Le due lunghe citazioni aiutano a comprendere appieno quanto il rancore e il dispetto siano inestirpabili dal cuore di Gadda-Gonzalo. Le campane si allacciano, senza soluzione di continuità, al tema delle privazioni infantili, dell’incapacità degli educatori; costituiscono, insomma, una vera e propria tautegoria: significano e sono. La loro superficie opaca riflette, distorcendole, le immagini della pena.
Il rancore, ovviamente, non si limita all’obolo dei «cinquecento pesos», investe tutto il mondo circostante la villa. La differenza più grande tra il personaggio e il suo autore risiede forse nella sclerosi del primo rispetto al secondo: Gonzalo è assolutamente più feroce e più inasprito di Gadda; l’affetto verso gli umili, che in quest’ultimo perdurerà sino alla morte, nell’hidalgo frana presto. L’ombra, si sa, è piatta, bidimensionale. Nell’essere ombra del suo creatore, Gonzalo perde proprio la profondità, lo spessore; si irrigidisce in una smorfia di bile e di dolore, muta in maschera tragica. È questa rigidezza, difatti, che viene messa in rilievo nell’ennesima menzione della torre; la rigidezza e la disfatta della possibilità, che nel lessico gaddiano è sinonimo di vita:
Chiuse torri si levano contro il vento. Ma l’andare nella rancura è sterile passo, negare vane immagini, le più volte, significa negare se medesimo […]. Lo hidalgo, forse, era a negare se stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. (RR I 703-04)
Il non scendere a compromessi col «vento» delle «parvenze» e delle «figurazioni non valide», il non saper salvare nulla dalla «spietata cernita» (Gadda 1987a: xxxiii-xliii) riduce Gonzalo al delirio, e all’omicidio virtuale della madre, unico oggetto d’amore. Ma anche lei, anche la Signora subisce il suono delle campane; è per lei che esso costituisce «memento innecessario, crudele», così come il suo nome è alle sue orecchie «il nome dello strazio». Ogni cosa le riporta alla mente la scomparsa del figlio: e la torre, nel suo essere anche balia, le rammenta la sua condizione di madre monca, mancata. È in uno dei thèmes (24) della vera Signora, Adele Lehr, che possiamo rintracciare una più chiara motivazione a questa dolorosa anamnesi: lì, ella ammette di non saper resistere alla dolce voce delle campane, perché essa risuona nell’aria come quella «d’une mère qui dit à ses enfants d’employer les premières heures du matin qui rapportent l’or» (Roscioni 1997: 72-73). Adele stessa, dunque, aveva effettuato il transfert campanile-madre, e forse Gadda ne era a conoscenza, e per questo lo arricchisce di un senso di irreversibilità, di irrimediabilità:
e l’ora da una torre lontana sembrò significare: «gli atti sono tutti adempiuti»; (RR I 629)
Tardi rintocchi: e il lento lucignolo delle vigilie si era bevuto il silenzio. Lungo gli interrighi s’insinuava l’alba: nobili paragrafi! ed ella, nel sonno, ne ridiceva la sentenza. Generazioni, stridi delle primavre, gioco della perenne vita sotto il guardare delle torri. Pensieri avevano suscitato i pensieri, anime avevano suscitato le anime; (RR I 681)
E dalla torre, dopo desolati intervalli, spiccavasi il numero di bronzo, l’ora buia o splendente. (RR I 714)
La torre si innalza ancora a dominare la campagna, ma il suo è dominio fittizio, epidermico: incapace ormai di rincuorare, degradata a banale orologio.
Ne è spia una trasformazione lessicale che avviene nel passaggio dalla Cognizione al Pasticciaccio. Il rintocco, nel primo romanzo, scandisce dolorosamente l’arco del giorno ai due protagonisti, metaforizzato in metallo («Il toccare delle undici e mezza separò i due, dalla torre, metallo immane sullo stridere di tutte le piante»); metallo che in seguito si specifica essere bronzo, precisamente goccia o numero di bronzo («Dodici gocce, come di bronzo immane, celeste eran seguitate a cadere una via l’altra»; «E dalla torre, dopo desolati intervalli, spiccavasi il numero di bronzo»). (25)
Nell’altro capolavoro gaddiano, la metafora viene ripresa, ma con deformazione evidente: «Un gocciolone di metallo fuso, il tocco, dall’orologio di Santa Maria della Neve. Si coricò, s’addormì, russò pesantemente, rinviata ogni deduzione al mattino» (RR II 258). La goccia diventa «gocciolone», e il metallo, il «bronzo immane» cede in «metallo fuso». Un senso di stanca pesantezza si avverte in quest’ultimo brano; la leggerezza e la soavità dell’idillio sembrano essere travolte da un’ondata di gravame. (26) Anche il resto del passo ne subisce l’influenza: il tocco non si riverbera più sulla campagna circostante, a suggellarne l’armonia, o la sua irraggiungibilità; e invece di istradare i pensieri al ricordo, seppur doloroso, suggerisce il sonno a don Ciccio: un sonno che, per di più, si rivela anch’esso pesante.
Abbiamo già accennato a come i simboli della torre e della campana seguano un percorso straordinariamente prossimo a quello dell’idillio; ennesima riprova l’esempio appena fatto: nel mondo definitivamente sconfitto del Pasticciaccio tutto subisce un’ulteriore alterazione ironica, violenta, rabbiosa, anche il suono delle campane. Ma la rabbia e la violenza vanno di pari passo con la tristezza, dietro ogni ironia c’è una sofferenza non placata, e questa, forse, nasce da un’estrema consapevolezza: quella torre che tanto s’era amata, che aveva costituito emblema di nobile dominazione e di protezione, ormai non è più buona che a fornirci l’ora, e l’ora, ultimo sberleffo, è la stessa dell’orologio dell’uomo; tempo del rito e tempo fisico si confondono, la spiritualità è scomparsa:
Levò gli occhi alla torre, che una sgrondatura di luce pressoché gialla, da una lampadina schermata, tingeva ad alto e di striscio, poco sotto la ruvidità superstite del còrdolo in fastigio. Sei e venticinque nell’orologio della torre: quanto nel suo proprio, esattamente. (RR II 189)
«Più giù, dentro la valle»
Ma qual è il ruolo di Leopardi in tutto questo? Finora s’è parlato della significatività estrema della torre, ma quasi mai – se non all’inizio – il poeta è stato tirato in ballo. Ebbene, Leopardi sembra fornire a Gadda sia un appoggio testuale (certo non l’unico) che una suggestione memoriale. Nelle Ricordanze, ad esempio, compare il verso che è stato richiamato da innumerevoli gaddisti come sicura ispirazione alla creatività dell’ingegnere:
Viene il vento recando il suon dell’ora
Dalla torre del borgo.
(Le ricordanze, vv. 50-51) (27)
Basterà ricontrollare i vari luoghi citati, per accorgersi che il sintagma dalla torre ritorna in gran parte di essi. Ma oltre a questa coppia di versi è forse utile riportare il passo dello Zibaldone da cui essa è stata tratta:
Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della notte, o al mattino: ancora silenzioso, e all’età consistente. (Zibaldone, 36, 1)
Il cenno all’«età consistente», che induce alla riflessione sulla secolarità della torre, ricorda analoghi riferimenti gaddiani. È proprio questo esserci nel tempo che risalta in quei luoghi dei Canti dove ne viene fatta menzione. Pensiamo all’incipit della prima canzone, quella consacrata alla patria:
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
I nostri padri antichi.
(All’Italia, vv. 1-6)
Le torri leopardiane, assieme agli altri segni del castello, sono vestigia degli «avi nostri», di un passato scomparso, in cui forse la speranza era ancora possibile – non diversamente in Gadda, ad esempio nel già citato «sogno dei castelli» di Tigre nel parco. Riviene alla mente, nel caso specifico, la strofe dedicata da Leopardi a un altro oggetto d’elezione gaddiana, Ludovico Ariosto. Nella canzone intitolata ad Angelo Mai, infatti, il modo in cui il poeta evoca l’autore dell’Orlando furioso risulta essere in perfetta sintonia con il sintagma dell’ingegnere:
[…] O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi! a voi pensando,
In mille vane amenità si perde
La mente mia.
(Ad Angelo Mai, vv. 111-15)
Ma in un’altra celeberrima ouverture, quella amatissima del Passero solitario, si ravvisa di nuovo il senso di una vetustà consustanziale alla torre: «D’in su la vetta della torre antica». L’aggettivo, oltre a rispondere ai canoni dell’indistinto, anticipa la tendenza gaddiana a qualificare con vecchia la parola in questione. Questa compare poi un’ennesima volta, nel Pensiero dominante, dove il suo essere «gigante» in mezzo alla campagna, (28) arricchisce la derivazione dantesca di una frase come: «Chiuse torri si levano contro il vento». Le immagini sono simili, sebbene i rispettivi sostrati siano assolutamente incompatibili.
Non solo la torre, ad ogni modo, compare nel corpus dei Canti. Sebbene la parola campana non vi figuri, la sua presenza è assicurata da un sinonimo forse più confacente alle regole del peregrino: squilla. Per due volte il suo intervento va legato a situazioni di festa, di richiamo, e sempre il suo suono sembra avvertirsi come di lontano. È, in fin dei conti, un ulteriore aspetto dell’idillio, informato anch’esso di leggerezza e genericità:
Odi per lo sereno un suon di squilla,
[…]
Che rimbomba lontan di villa in villa;
(Il passero solitario, vv. 29-31)Or la squilla dà segno
Della festa che viene.
(Il sabato del villaggio, vv. 20-21)
In una terza occasione, però, la squilla perde definitivamente la gioiosità della festa e si trasforma in campana a morto:
E spesso al suon della funebre squilla,
Al canto che conduce
La gente morta al sempiterno obblio,
Con più sospiri ardenti
Dall’imo petto invidiò colui
Che tra gli spenti ad abitar sen giva.
(Amore e morte, vv. 56-61)
è presente, in questi versi leopardiani, una coppia di temi gaddiani, temi che abbiamo trattato qui e altrove: il senso di morte, di distacco implicito nel suono della campana, e il desiderio di seguire i caduti nel loro ultimo viaggio. Un altro accenno alle campane che battono a festa o a morto è ravvisabile in un luogo della Cognizione estraneo alla narrazione. Si tratta dei Chiarimenti indispensabili ad Autunno, la poesia che segue il romanzo, in cui Gadda, con un’ennesima forma di digressione, si adopera nella spiegazione di alcuni termini del componimento (RR I 771-72). La chiamata in causa di questa poesia ci offre il destro per analizzarne, brevemente, il contenuto. Sebbene non ascrivibile ad ascendenza leopardiana, ma piuttosto ad un mélange ironico di poeti non troppo amati da Gadda (Foscolo, D’Annunzio, Carducci), il testo presenta non solo lessemi che facilmente conducono il pensiero all’universo idillico – «torre» (v. 6), «passero» (v. 17), «travaglio» (v. 23), «chiari mattini» (v. 80) –, ma anche una serie di versi riconducibili ad un luogo preciso del Sabato, come rilevato da Gorni (Gorni 1973: 302-05):
Ma dal campanile – canta l’ora di festa. Canta
A la Fabbrica i vani ritorni,
Tristezze vane!
(Autunno, vv. 50-52)Diman tristezza e noia
Recheran l’ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
(Il sabato del villaggio, vv. 40-42)
Affatto puntuali i rilievi di Gorni sulle consonanze lessicali e stilistiche tra vari luoghi della Cognizione e molti versi dei Canti. Qui però sarebbe pedissequo, oltreché superfluo, riportarli, anche perché, in fondo, aprono la strada alle successive analisi di Manzotti. In Manzotti, poi, ovvero nell’edizione critica del romanzo, i riferimenti all’opera leopardiana quasi si perdono per esuberanza – tanto che non possiamo far altro che rimandare, tramite un freddo elenco, alle sue pagine. (29) In almeno un paio di occasioni, tuttavia, non possiamo evitare il plagio.
Si tratta di due passaggi che hanno una tale ricchezza di influenze da rischiare il pastiche. In uno, soprattutto, probabilmente proprio di pastiche si tratta, perché la consueta cornice idillica – e il modo consueto di fregiarla con ornature leopardiane – è qui talmente dichiarata ed evidente da attirare su di sé tutta l’attenzione, e obnubilare così il quadro:
Più giù, dentro la valle, era la carità del villaggio, donde esala dopo le stagioni e le pene il tremante fumo dei poveri: sull’ancudine udivasi per tutta la luce il martello del maniscalco a battere, battere: piegando, piegando, scandiva l’ora di siesta, nel tacere della fatica di tutti ripreso per sé solo il travaglio. Dall’antro della fucina rendeva la percossa al monte: il rimando del monte precipitava sulle cose, dal tempo vuoto deduceva il nome del dolore. E dalla torre, dopo desolati intervalli, spiccavasi il numero di bronzo, l’ora buia o splendente. (RR I 714; Gadda 1987a: 383-84)
Il passaggio è quello conclusivo del tratto VII, quello che, nell’edizione del ’63, era clausola all’intero romanzo. La Cognizione terminava, dunque, con la descrizione esasperata dell’idillio circostante, irrimediabilmente distante: «Più giù, dentro la valle». La sola cosa che dalla valle giunge alla casa dei Pirobutirro è il suono, atroce, delle campane. Onde evitare inutili ridondanze, preferiamo, per ora, riportare direttamente le chiose di Manzotti, chiose che non possiamo che sottoscrivere in pieno:
valle… carità: Il segno leopardiano degli ultimi due paragrafi (in valle, in particolare è forse traccia de La quiete dopo la tempesta, v. 7) regge l’evoluzione da sudiciume/povertà delle prime stesure […] a carità «soccorso reciproco», «comune preghiera» (A[dalgisa], 5), «comune bene» (A[dalgisa], 180).
martello… travaglio: Cfr. Leopardi, Il sabato del villaggio, vv. 31-37 «Poi quando intorno è spenta ogni altra face, | E tutto l’altro tace, | Odi il martel picchiare, odi la sega | Del legnaiuol, che veglia | Nella chiusa bottega alla lucerna, | ecc.». In Polemiche e pace nel direttissimo […] Gorni […] rintraccia «varie prove del tema del “martello che batte”» […]. Il travaglio (termine anch’esso leopardiano: cfr. Il sabato del villaggio, v. 41) non è tanto in C[ognizione] la fatica e la pena del singolo per portare a compimento il lavoro (il petrarchesco e poi leopardiano «fornir l’opra»), quanto la dedizione al bene comune (donde la «carità del villaggio»), un valore che diviene esplicito in A[dalgisa], 180 «La vita di sua tribù, come di tutte le tribù della stirpe, era un motivo reale nella partitura del destino. Ogni fabbro lavorava solerte e docile: batteva sicuro, attento. Lavorava fino a notte, per il comune bene: necessità lo esigeva». (30)
Lo stesso sistema può esserci utile per un altro famoso luogo del romanzo, l’apoteosi lirica del tratto V; il riferimento a Leopardi diventa esplicito, esplicita citazione – dopo l’oltraggio dell’uragano, e la discesa ad inferos, si ritorna forse alla vita:
Il zoccolante passo del contadino risuonò sull’ammattonato di sopra: reduce dalla spesa del tabacco […]: si fece, con nuovi urti di voce, a disserrar l’ante, i vetri. Rinfrancata, ella rivide chiarità dolci e lontane del paese e nella dolce memoria le fiorirono quelle parole di sempre: «apre i balconi – apre terrazzi e logge la famiglia»: quasi che la società degli uomini ricostituita le riapparisse dopo notte lunga. E il famiglio, ecco, davanti ai gatti, le andava per la casa. (RR I 678-79; Gadda 1987a: 275)
La risalita, il ritorno alla speranza, si traduce in memoria lirica: la possibilità rinasce con i versi della Quiete dopo la tempesta, poesia che sigilla e commenta l’ingiuria subita dalla Signora. Anche in questo caso riferiamo testualmente le osservazioni di Manzotti:
Il zoccolante passo: Con articolo forse non immemore (per il successivo pastiche leopardiano) de Il sabato del villaggio, v. 29 «il zappatore» (che riede a casa così come vi è reduce […] il contadino g[addiano]).
chiarità dolci e lontane: Lessico e immagini leopardiane: cfr. La sera del dì di festa, vv. 1-4 «Dolce e chiara è la notte e senza vento, | E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti | Posa la luna, e di lontan rivela | Serena ogni montagna» […] e La quiete dopo la tempesta, v. 7 «E chiaro nella valle il fiume appare» […].
apre… famiglie: Leopardi, La quiete dopo la tempesta, vv. 20-21; la famiglia (che influenza sotto [il «famiglio»] la designazione del peone) vi vale naturalmente «la gente di casa, i domestici». Ivi, ai vv. 37-41 e 42-43 il terrore delle genti e il tema della immotivata aggressione degli elementi («Mossi alle nostre offese | Folgori, nembi e vento»). (Gadda 1987a: 384)
Si è detto della raffinata perizia di queste note. Per certi aspetti, sfiorano l’esaustività. Tuttavia non possiamo evitare di muovere un appunto: se un limite c’è nell’analisi di Manzotti, è quello di confinare la vastissima presenza leopardiana nel limbo dell’ accessorietà. Per Manzotti, infatti, la sola vera presenza, nella Cognizione, è quella di Manzoni, «a cui competono ruoli molto diversi da quelli affidati alle evocazioni dantesche […], o di Leopardi (di cui è evocato Il sabato del villaggio), di Parini […], di Porta […]». (31)
Eppure, proprio Manzotti ha sottolineato come il titolo stesso del romanzo derivi forse da due sintagmi presenti nel Filippo Ottonieri («cognizione degli uomini e della vita» ed in particolare la «cognizione del mondo e del tristo vero»). Se, dunque, oltre a quella sorta di screziatura lessicale che caratterizza alcuni tratti della storia, Leopardi si presenta sin dal titolo come una delle fonti, la sua influenza non può essere marginale: soprattutto dopo quello che abbiamo rilevato in precedenza. A nostro avviso, il poeta di Recanati va considerato come essenziale al tessuto del romanzo; va cioè a collocarsi proprio nella sua essenza. Ed è per questo che il suo esserci risulta nascosto, defilato: come un qualcosa che c’è, ma non appare.
In più, vi è un’intelligenza che governa le occasioni di queste citazioni; esiste cioè un filo rosso che lega i prestiti qui evidenziati, ed è il richiamo costante all’idillio: l’idillio viene assimilato nella diegesi gaddiana. Ribadiamo ancora una volta l’osservazione: il richiamo a Leopardi sottostà a una regola, a una legge; non v’è spazio per l’anarchia, e nemmeno per la maniera. Le poesie che intervengono fanno tutte parte dei Piccoli o dei Grandi Idilli, per l’appunto, quasi che, nei momenti di slancio lirico, di omaggio alla quotidiana umiltà, scatti irrefrenabile la citazione leopardiana: come se la memoria poetica gaddiana costringesse, in determinate situazioni, all’evocazione del modello eccelso.
Resta ora da trattare la questione inerente al finale dell’edizione ’63. Si è visto come Manzotti ne abbia evidenziato la struttura a pastiche, ma né lui, né altri si sono soffermati sull’importanza fondamentale di questa operazione gaddiana. Leopardi è presente nel titolo, nel tessuto, ed anche nel finale del romanzo; un ruolo che non sia accessorio dovrà pure avercelo. Già in precedenza abbiamo accennato al senso di separazione che scaturisce dal sintagma «Più giù, dentro la valle». Il lettore che abbia seguito la parabola dell’idillio non si lascerà ingannare dalla sensazione di quiete e di armonia racchiusa nell’ultima descrizione della valle: quell’armonia, proprio nel suo essere più giù, nel suo essere lontana (non a caso il senso che risalta in queste righe è l’udito) sta a significare la sconfitta di Gonzalo, definitivamente incapace di partecipare, di accedere a quella che sembra essere un’ultima ipotesi di vita vera, «un mondo incorrotto, pieno e positivo». (32)
Alla fine del romanzo, Gonzalo si affaccia dunque per l’ultima volta dal terrazzo, e dalla sua persona si genera un movimento che risulta a un tempo centrifugo e centripeto: il suo sguardo – che si posa sul «muro di cinta, simbolo più che munizione del privato possesso» (RR I 712), per poi scendere lungo i declivi della valle – si interiorizza sino a raggiungere l’anima, nella consapevolezza sempre più netta della sua estraneità dal mondo. Egli osserva dal terrazzo della villa la «carità del villaggio» e la vede ormai irraggiungibile. Già Lorenzini aveva notato come sia agevole decodificare l’immagine del terrazzo come soglia – «contrapporsi del fuori al dentro» –, e come questa contrapposizione sottolinei «più che la reclusione, l’esclusione dell’io dal possesso del mondo e di sé, una separatezza totale, incolmabile» (Lorenzini 1999: 140). E ancora da Lorenzini:
Il terrazzo si precisa sempre più come quel punto limitrofo aperto a tutti gli orizzonti e insieme circoscritto che consente al personaggio, colto in posizione immobile, di fuggire da se stesso nella rêverie, e cioè in una sorta di divagare estatico, o nella proiezione dell’inconscio. (Lorenzini 1999: 146)
Giustissimo. Ma altrettanto giusto, e immediato, a noi sembra legare questo «divagare estatico» non tanto a un lirismo di matrice montaliana (come suggerisce la studiosa), ma proprio e ancora una volta a Leopardi, al naufragare dei versi più famosi del poeta, L’infinito. Infatti, cosa più degli interminati spazi leopardiani rappresenta la «dimensione virtuale che mentre proietta nello spazio e nel tempo senza confini consente insieme il concentrarsi in immagine dello psichismo» (Lorenzini 1999: 140)? quale miglior «luogo psichico e virtuale» (Lorenzini 1999: 145) dell’ermo colle di Recanati? Il terrazzo della Cognizione assomiglia molto a quel colle, ma in esso è implicitamente compresa anche la siepe oltre cui si estende l’ultimo orizzonte.
Gonzalo posa l’ultimo sguardo dell’edizione Einaudi ’63 su un paesaggio tipicamente leopardiano, e lo fa in maniera anch’essa strettamente legata al poeta-filosofo di Recanati, con le stesse implicazione psichiche. Ma di «matrice leopardiana» è pure lo sguardo in sé: lo «sguardo doloroso che arriva all’arido vero». (33) Se all’hidalgo risulta vietata la partecipazione alla vita, è perché questa è vera solo in apparenza: perché l’armonia che dalla valle giunge ai suoi occhi e alle sue orecchie è possibile solo facendo ricorso a un pastiche, in virtù di una reminiscenza letteraria. Ad un’analisi più profonda, anche quella quiete si rivela «parvenza», «figurazione non valida», e negandola, egli nega se stesso. (34) Il suo male, allora, si moltiplica; alla percezione dolorosa della sua inadeguatezza al mondo, si aggiunge la consapevolezza doppiamente dolorosa che quel mondo, «incorrotto, pieno e positivo» lo è soltanto nella memoria, nella finzione letteraria. Leopardianamente, la sua intelligenza lo condanna. (35)
Lukones, «borgo selvaggio»
Si direbbe, dunque, che Gonzalo e Leopardi guardino il mondo da due finestre contigue; forse dalla stessa finestra, dallo stesso terrazzo-colle. Anche qui, insomma, avviene una sovrapposizione; è come se, nel romanzo, uno stesso raggio di proiezione colpisse contemporaneamente Gonzalo e Leopardi: la sagoma del primo, sebbene copra quasi del tutto il secondo, non ne preclude comunque la percezione, come in un’eclissi.
I due, inoltre, dalla loro finestra subiscono come una condanna la vita e la mentalità provinciali – «in Gadda, come già in Leopardi, l’insofferenza della provincia è soprattutto insofferenza della cultura che questa provincia sembra immortalare» (Righi 1985: 152). Non è un caso che tutti e due vengano visti, dalla popolazione locale, in maniera negativa:
E [il dottore] pensava, andando, quale cattiva stampa circondasse quel figlio, così appartato, e così lontano da tutti, a Lukones, che lo si sarebbe detto un misantropo, o, peggio, un nemico del popolo; se non addirittura un vigilato della gendarmeria; (RR I 596)
Fu odiato comunemente da’ suoi cittadini; perché parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini. (36)
Il riferimento alla gente, poi, è in entrambi estremamente polemico, violento, quando non addirittura feroce. Sull’esempio, ancora una volta, delle Ricordanze:
(Né mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso),
(Le ricordanze, vv. 28-43) (37)
Gadda spiega, in appendice al romanzo, l’atteggiamento del suo personaggio in modo quanto mai icastico:
Nella Cognizione la stessa diceria delle genti, e la parlata e il gesto de’ commedianti, de’ furbi o furbastri, degli ebefrenici e dementi furiosi, si colora a volte dei colori del grottesco […]. In questa sorta di scoppi d’odio verso i deficienti, gli ebeti, gli opinanti cretini, i calcolatori beccuzzanti sullo strame un lor miserrimo e già risecchito vantaggio, tutte persone fisiche e giuridiche aventi voto pari al suo, potrebbesi discernere […] un’ira esplosa e per dir così rampollata dalla fonte stessa del raziocinio. (RR I 762)
In Leopardi esiste però anche la pulsione opposta della stima e dell’elogio alla vita semplice e umile, mentre in Gonzalo l’odio si esacerba e si sclerotizza, come tutto ciò che lo concerne: la sua furia delirante spazza via ogni cosa, riducendo all’impossibilità – e alla morte – la speranza di salvezza. Quantunque i due partano da posizioni molto prossime, Gonzalo non riesce, come Leopardi, ad abbandonare il passato per il presente, a cambiare l’atteggiamento con cui rapportarsi alla vita: in lui vince la negazione, e tutto viene «esaurito dalla rapina del dolore».
Il fumo delle ville
Il discorso sulla Cognizione potrebbe qui trovar la sua conclusione. Ciononostante, nell’ottica di uno studio specifico sulla presenza di Leopardi in Gadda, non possiamo esimerci dal proporre una serie di altre testimonianze in merito. Un’immagine, in special modo, ritorna ossessivamente nel corso del romanzo; immagine che – a parer nostro e d’altri (Gadda 1987a: 437; Gorni 1973: 303) – deriva quasi sicuramente da un verso leopardiano non molto conosciuto in quanto parte dei Frammenti successivi ai Canti veri e propri:
Spento il diurno raggio in occidente,
E queto il fumo delle ville.
(Frammento XXXIX, vv. 1-2) (38)
Per tre volte compare nella Cognizione il sintagma «i fumi delle ville». Sebbene Manzotti prediliga la mutuazione dalla prima Ecloga virgiliana («Et iam summa procul villarum culmina fumant | Maioresque cadunt altis de montibus umbrae»), (39) noi riteniamo, insieme a Gorni, la diretta ascendenza leopardiana – il contesto rientra di diritto nell’orbita idillica, con «ragazze» che svolgono il mestiere della filatrice, (40) «garzoni» che fanno gli operai, «canti» che giungono di lontano, l’evocazione del ritorno ad una «parca mensa», e sintagmi come «a frotte» e «allegrezza»:
Dalla terrazza, nelle sere d’estate, ella scorgeva all’orizzonte lontano i fumi delle ville […]. Le ragazze, a frotte, tornavano dall’opificio, telaî, o incannatoî, o bacinelle di filanda: biciclette avevano riportato i garzoni dall’incudine […]: posavano come dimenticate le stanche falci, nell’ombre di sera. Prole rustica venuta senza numero dal lavoro al fuoco, a un cucchiaio: alle povere scodelle slabbrate che ne rimeritavano il giorno. Bagliori lontanissimi, canti, le arrivavano dal di fuori della casa […]. Ella non invidiava a nessuno. Sperava a tutte, a tutte, l’allegrezza e la forza pacata dei figlioli, che avessero lavoro, sanità, pace. (41)
Nell’ultima delle occorrenze, l’ascendenza è avvalorata dalla prossimità con un altro vocabolo presente nei due versi leopardiani, occidente: «Poi i fumi delle ville esalarono dai colmigni, al limite del lontano occidente» (RR I 737; Gadda 1987a: 437).
Inoltre, nella vicenda descritta nel Frammento, testo che Gadda doveva conoscere, e bene, una donna viene sorpresa dalla tempesta mentre torna a casa, morendone infine dal terrore – impossibile qui non pensare al luogo forse più celebre della Cognizione, il V tratto, l’episodio dell’uragano. Ad un esame più attento, le due vicende mostrano invero di collidere, anche a livello testuale. La descrizione di una tempesta obbliga, certo, all’uso di determinate parole; in questo caso però il numero delle coincidenze è troppo alto per poterle attribuire al caso, soprattutto trattandosi di uno scrittore come Gadda.
Il progressivo scurirsi del cielo, ad esempio: «Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talora delle sue cupe nuvole; che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente» (RR I 674; nostri corsivi), viene narrato con un uso ravvicinato di termini ed immagini che rimandano, nella loro concentrazione, a una serie di versi della poesia:
Ecco turbar la notte, e farsi oscura
La sembianza del ciel, ch’era sì bella,
E il piacere in colei farsi paura.
Un nugol torbo, padre di procella,
Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,
Che più non si scopria luna né stella.
(vv. 28-33; nostri corsivi)
Ma, a parte la presenza di un’immagine meno obbligatoriamente inerente al topos della tempesta come quella dei monti, è, lo sottolineiamo, la prossimità dei termini a incuriosire; e così anche per il vento che ghermisce i capegli della vecchia madre nel paragrafo successivo (RR I 675), dove i termini si accostano come nei versi 56-58 («e poi correa, | Sì che i panni e le chiome ivano addietro | E il duro vento col petto rompea»). Questa prossimità probabilmente non stimolerebbe se non ci fosse, alla base, la somiglianza sostanziale tra le due donne e le loro terribili vicende. È in virtù di questo parallelismo che ci si avvede di sintagmi ovvi nel contesto dell’uragano, e che compaiono in entrambe le composizioni: parole quali tuono (RR I 676), bufera, gocce (RR I 677), presenti nei vv. 59-63, e nembo (RR I 678), dei vv. 48 e 69, passerebbero senz’altro inosservati.
Lo stupore sorge però irresistibile qualche riga dopo: la Signora, scesa nell’oscurità del sottoscala per proteggersi dalla minaccia del temporale, si imbatte nella visione orribile e nera dello scorpione: «Ristava ora, atterrita» (RR I 675). Il modo verbale, e anzi il verbo medesimo, compare nell’Appressamento a introdurre lo stesso stato d’animo e lo stesso terrore della Madre, quasi lo stesso aggettivo: «Talvolta ella ristava, e l’aer tetro | Guardava sbigottita» (vv. 55-56). Qui, si potrebbe fare a meno anche del contesto per segnalare la contiguità, il rapporto diretto tra le due traversie; anche perché gli stessi versi fanno forse da base ad un altro brano del romanzo, qualche pagina oltre, seppure siano l’avverbio e l’azione del guardare ad assomigliarsi molto: «Dal fondo delle scale levava talora il volto, e anche in quell’ore, a riconoscere sul suo capo taciuti interludî della bufera» (RR I 677). La chiusa della poesia e quella del brano sull’uragano offrono un pari tipo di inequivocabilità lessicale e sintattica: il «Tutto taceva, finalmente» della Cognizione (RR I 678) altro non è che il ribaltamento del «Taceva il tutto; ed ella era di pietra» della poesia (v. 76), verso che si riverbera nel romanzo anche col suo secondo emisitichio: «quel viso levato verso l’alto, impietrato». (42)
Leopardi, insomma, interviene durante e dopo la rappresentazione dell’orrore: a suggellare entrambi i momenti. E d’altro lato (ne abbiamo fatto cenno), che cos’è, questo meraviglioso tratto V, se non la messa in scena di una tempesta e della quiete dopo di essa? è stupefacente come sia densa e intensa la tessitura leopardiana in questo luogo del romanzo. Nel momento del lirismo supremo, il poeta dei Canti interviene con un’ampiezza e una puntualità assolute, tanto da avvalorare, in modo naturale, l’ipotesi di una memoria lirica gaddiana soggiogata dalla sua eccellenza di versificazione.
«Da Leopardi», secondo Donnarumma, «discende la lingua dell’autenticità, in grado se non di predicare, d’interrogare almeno l’essere» – non solo: «la lingua della tradizione letteraria […] in Leopardi trova un’autenticazione esistenziale, può essere invocata tanto da farsi originale espressione del senso delle cose» (Donnarumma 1994: 48). La tragica nota del poeta viene cioè giustamente messa in connessione con quella di Gadda, che in Leopardi autentica se stesso e autentica il mondo, sempre più cosciente del fatto che solo nella memoria letteraria è ormai possibile autenticità. Il conseguimento dell’«arido vero», infatti, gli svela le parvenze, gli dona la Cognizione della vita come dolore, e – come si è visto – gli impedisce di sperare, di partecipare alla vita della valle più giù. Non è un caso, allora, che anche queste pagine dedicate alla Signora siano costruite su una struttura a pastiche, (43) proprio per permettere con certezza l’evocazione e il conseguente allargamento di senso. Non si dimentichi quanto Gadda dice circa una tendenza di Villon:
Inevitabile come una calamita, la frase di repertorio lo attira: né lui, né noi stessi, l’avremmo potuta evitare […]. Ne germina, per noi, l’allusione inattesa: ne rampollano a grappoli i doppi sensi, i morsi repentini e continui, come d’un cane impazzato nel suo gioco. Il Lais, il Testament, sono combinati così. (SGF I 529-30) (44)
Allo stesso modo è combinata la Cognizione e anzi l’intera opera gaddiana. Quegli armonici leopardiani che avevamo detto scaturire dalla lettura dei suoi libri si spiegano in quell’«allusione inattesa». In Gadda la frase di repertorio muta nello stereotipo, per far germinare in noi grappoli di doppi sensi: per aprire le sue parole a un senso che sta oltre.
Sempre secondo Donnarumma: «la notorietà dell’ipotesto […] permette la condensazione» (Donnarumma 1994: 47). Questa condensazione, chiaramente, non è sempre presente; se così fosse, si rischierebbero saturazione e plagio. Gadda vi ricorre nei momenti dell’autenticazione letteraria e, di conseguenza, esistenziale: quando, cioè, la materia narrativa richiede il placet della tradizione, onde poter sfiorare lo stereotipo (e garantire così un’immagine più vivida e vera) senza mai toccarlo; o al limite, quando la scelta del registro stilistico alto impone il richiamo colto. Alle base delle due operazioni, comunque, permane l’aspetto proiettivo, l’affratellamento con Leopardi. È per questo che il sublime tratto V ne è pervaso sin nelle pieghe. Ed è per questo che l’ossessiva ricorrenza del quadretto idillico si fonda sugli esempi più classici dei Canti. (45)
3. Detti memorabili Don Ciccio Ingravallo
Non c’è dunque più spazio per l’idillio. Quella speranza che pareva nascere dalla contemplazione della natura si sgretola in una visione partecipe del disordine. Per questa ragione nel Pasticciaccio non si rintracciano fioriture leopardiane; così come del resto non è dato trovare, stando a quel che dice lo stesso Gadda, un solo endecasillabo. La liricità appartiene, eccome, a molte delle pagine più sublimi del libro; ma annega nell’oceano sterminato del dialetto, incessantemente contaminata dalla vicinanza di espressioni triviali, e come lacerata dall’oscillazione continua tra l’alta tradizione classica e il proprio esclusivissimo idioletto. Il caos ha invaso tutto, irrevocabilmente: anche la scrittura.
Le filosoficherie del commissario
Eppure, a nostro parere, la presenza di Leopardi presiede alla composizione anche del romanzo gaddiano senz’altro più distante dall’elemento idillico. A svolgere un ruolo fondamentale in quest’ulteriore chiamata in causa del recanatese è adesso un’altra delle sue tante peculiarità stilistiche, l’ironia. Non è certo assurdo né geniale ipotizzare un accostamento su questo piano tra i due autori: entrambi hanno fatto dell’ironia un’arma formidabile di dissacrazione e di vendetta, ed entrambi lo hanno fatto con magnificenza di stile. Che Gadda, poi, valutasse a pieno le capacità ironiche del collega è cosa su cui si potrebbe scommettere senza timori – almeno in un’occasione, ha avuto modo di affermarlo:
Oltre l’assurdo per scopo ironico (Leopardi, paradossi) o comico, oltre l’assurdo «ridendi causa» esiste un assurdo «ratiocinandi causa», per dar maggiore risalto, o «docendi causa» o anche l’assurdo simbolico «efficiendi causa», assurdo nel rappresentare. (46)
Il poeta dei Canti, o con perifrasi adeguata al caso, dei Pensieri e delle Operette morali, è portato come esempio di una delle famose cinque maniere dell’assurdo – quanto basta ad accertare la competenza in proposito dell’ingegnere. Viene da chiedersi se la virgola che separa Leopardi dal termine paradossi sia divisoria o non piuttosto specificatoria; chiedersi cioè se i paradossi costituiscano esempio a sé stante, o se invece facciano parte dell’esempio che il poeta rappresenta. Perché in quest’ultimo caso sarebbe semplice risalire al luogo specifico cui l’ingegnere voleva alludere.
Sfogliando le pagine delle Operette, infatti, ci si rende subito conto che in una soltanto si concentra questo particolare aspetto dell’ironia: nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri. Il paradosso è appunto peculiarità fondamentale di questa proiezione leopardiana, in una sorta di sarcastico épater le bourgeois diffuso un po’ in tutti i suoi notabili ragionamenti. Inutile dire che il percorso di risalita a quest’operetta deve la sua agevolezza e praticabilità anche al fatto che l’Ottonieri è opera estremamente nota al lettore gaddiano; anzi, a conti fatti, è forse l’unica composizione leopardiana che ha saputo attirare su di sé l’attenzione concorde di molti critici, grazie soprattutto alle intuizioni di Manzotti sulla Cognizione.
Ci sembra opportuno riportare, allora, l’ennesima osservazione di Roscioni, come a farci per l’ultima volta da guardasigilli: «a una siffatta visione delle cose sembra legata, non solo in Gadda, una specifica tonalità discorsiva. Penso al Socrate […], dei “Detti memorabili di Filippo Ottonieri”, e alla sua decisione di ragionare dei costumi dei suoi concittadini con “una certa ironia”, “come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver parte, per dir così, nella vita”». (47) Stupisce, nel leggere questa ed altre affermazioni in merito, l’assenza totale di un approfondimento del tema. Vogliamo dire che, una volta percepita l’attiva partecipazione di quest’opera nell’immaginario gaddiano, ci sembra incredibile che nessuno, a quanto c’è dato sapere, abbia notato la straordinaria consonanza esistente tra Filippo Ottonieri, appunto, e il «dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile».
Eppure, è evidente che don Ciccio riservi al mondo un atteggiamento distaccato, meditabondo, «tra amaro e scettico» come viene detto nel romanzo; e che partecipi, insomma, della stessa socratica «visione delle cose» riscontrata da Roscioni nell’uomo Gadda. Se poi aggiungiamo che, per quanto più ambiguo, il commissario è l’ennesimo travestimento dell’autore, le cose allora si legano con una certa logica. In ogni caso, le attinenze non si fermano al solo aspetto concettuale: il testo offre di più e lo fa in modo niente affatto mascherato.
Prima però di affondare il bisturi dell’analisi, è utile apportare prove ulteriori della predilezione gaddiana per questa specifica operetta; predilezione che deborda i limiti di un particolare romanzo e si allarga ad altre opere. A farci da guida è uno dei molti amici-critici di Gadda, Leone Piccioni, forse l’unico a parlare esplicitamente di detti memorabili gaddiani (Piccioni 1963: 94-104). La sua intuizione sorge dalla lettura delle Favole, che, in alcuni casi, ricordano lo stile dell’Ottonieri:
Un tale disse all’autore: «Lei deve essere fiero di contribuire» – «Sono fierissimo», rispose l’autore contribuendo. (SGF II 33)
Un tale, denominato la Fava, richiedé l’autore ch’elli ascoltasse un poema che ’l detto Fava avea fatto sulla libertà. «Preferisco la schiavitù», rispose l’autore. (SGF II 45)
Queste (e la n° 148) ricordano nell’incipit alcuni degli studi che Leopardi fece per la sua operetta, e che si possono rintracciare nello Zibaldone; (48) essi iniziano infatti con frasi del tipo: «Il tale rassomigliava…», «Il tale diceva…», «Il tale negava…». Un’altra spia del legame sotterraneo che unisce il Filippo Ottonieri alle Favole gaddiane è presente in una delle favole inedite ma non rifiutate da Gadda, in cui Socrate viene descritto come rincagnato, aggettivo usato già da Leopardi:
La contessa Fasulla degli Sbronzi, incontrato il filosafo Socrate gli propose che secolei si portasse a Meda, a farvi acquisto d’un toro o letto da nozze, dove potessero giacere entrambi. «Meglio una notte sotto la tenda che cinquant’anni nel vostro letto», sclamò il rincagnato, che fu contubernale ad Alcibiade, e marito a Santippe. (SGF II 954)
[…] concludeva l’Ottonieri, che l’origine di quasi tutta la filosofia greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato, e il viso da satiro, di un uomo eccellente d’ingegno e ardentissimo di cuore. (Leopardi 1995: 202)
Il debito nei confronti dell’operetta è chiaro. Ritornando alla citazione che Roscioni ha tratto dall’operetta, e ampliandone il raggio, ci si rende ulteriormente conto di quanto Gadda avesse bene a mente il testo leopardiano e di quanto i due personaggi – l’Ottonieri e don Ciccio – si somiglino:
per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dissimulato. E cercando l’origine della famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo assai gentile, e però con disposizione grandissima ad amare; ma sciagurato oltre modo nella forma del corpo; verisimilmente fino nella giovanezza disperò di potere essere amato con altro amore che quello dell’amicizia, poco atto a soddisfare un cuore delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto molto più dolce. Da altra parte, con tutto che egli abbondasse di quel coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse fornito bastantemente di quello che viene dalla natura, né delle altre qualità che in quei tempi di guerre e di sedizioni, […], erano necessarie a trattare nella sua patria i negozi pubblici. Al che la sua forma ingrata e ridicola gli sarebbe anche stata di non piccolo pregiudizio appresso a un popolo che, eziandio nella lingua, [era] deditissimo a motteggiare. Dunque in una città libera, e piena di strepito, di passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze e di altre fortune; Socrate povero, rifiutato dall’amore […] si pose per ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei costumi e delle qualità de’ suoi cittadini: nel che gli venne usata una certa ironia; come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver parte, per dir così, nella vita. Ma la mansuetudine e la magnanimità della sua natura, ed anche la celebrità che egli si venne guadagnando con questi medesimi ragionamenti, e dalla quale dovette essergli consolato in qualche parte l’amor proprio; fecero che questa ironia non fu sdegnosa ed acerba, ma riposata e dolce. (Leopardi 1995: 200-201)
A cominciare dal riferimento al parlare «dissimulato» che ben si addice alla «terminologia da medici dei matti» dei libri letti da Ingravallo, a «quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari» (RR II 17), i punti in comune sono molti. Innanzitutto, l’aspetto fisico. Sebbene plasmato a immagine e somiglianza di se stesso, Leopardi ci descrive un Socrate quasi mostruoso, sciagurato nella «forma ingrata e ridicola»: cosa che gli preclude un sentimento che vada oltre l’amicizia. Don Ciccio non è certo deforme, ma non è neanche bello («lui, no, no, non era “bello”», RR II 25); in più il testo batte sul «nero pìceo» della capigliatura-parrucca-parruccone, a voler dire una qual certa ridicolaggine nell’aspetto; ma a caratterizzarlo è l’invidia feroce verso i belli: «C’era, duole dirlo, in don Ciccio, una certa freddezza, come un’astiosa gelosia verso i giovani, specie i bei giovani, e tanto più i figli dei ricchi» (RR II 25).
L’atteggiamento torna spesso nel corso della storia, sia in presenza del giovane Valdarena («Ingravallo se mozzicò l’anima sua, nero com’er temporale», «Una smorfia atroce, una faccia di catrame», RR II 112) che alla vista della fotografia dell’uccel di bosco Diomede Lanciani («Ingravallo pure l’allumò di traverso, come di malavoglia, in realtà con una certa stizza segreta», RR II 168), e rivela una malcelata insoddisfazione del proprio corpo: chiaramente neanche al commissario la natura ha «fornito bastantemente». Ma non c’è solo questo: a sua volta Ingravallo possiede un «animo assai gentile» e una «disposizione grandissima ad amare», tanto da dedicarsi alla composizione d’un sonetto, sebbene non perfettamente riuscito:
Con lui Ingravallo dottor Francesco, a vero dire, nessuna donna aveva mai largheggiato: salvo forse, già, già, la povera signora: in bontà, in gentilezza: come una gentile… inspiratrice. In onor di lei, una volta (arrossì) aveva tentato… un sonetto. Ma non gli eran venute tutte le rime. (RR II 74)
Evidente, qui e altrove, una malinconia profonda: evidente e commovente. Con incrementi di grado, come nell’esclamazione sfuggitagli all’apprendere della bellezza del Lanciani: «“Anche lui, anche lui!” dolorò Ingravallo in suo sentire. “Nel novero de’ fortunati e felici, anche lui!” Il volto gli si fece tetro. “Anche lui! Perseguito dalle donne!”» (RR II 165). Anche lui! Don Ciccio, avrebbe voluto far parte di quel novero. Invece, anche lui, come il Socrate leopardiano, «disperò di potere essere amato con altro amore che quello dell’amicizia»: tanto che, dopo aver escluso la signora Liliana dal resto delle donne che mai, con lui, avevano «largheggiato», si affretta a precisare pudibondo che il largheggiare riguardava bontà e gentilezza.
Ma non finisce qui. Socrate viene definito «povero e rifiutato dall’amore»; di Ingravallo vengono ricordate la «saggezza» e la «povertà molisana» (RR II 16). Entrambi riscuotono successo con le loro filosoficherie, tanto da meritarsi celebrità e stima presso la gente («“Già!” riconosceva l’interessato: “il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto”»). Non si sottovaluti, poi, il riferimento leopardiano alla «città libera, e piena di strepito, di passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze e di altre fortune» e al «popolo che, eziandio nella lingua», era «deditissimo a motteggiare»: città e popolo, cioè, non diversamente dalla caotica, vitale Roma gaddiana.
Le prove più convincenti del parallelismo Ingravallo-Ottonieri sono però ancora da esporre. Quelle stesse frasi che erano intervenute nell’analisi del titolo della Cognizione ritornano all’interno stesso del Pasticciaccio: proprio all’inizio. Si ricordi cosa si dice di don Ciccio subito alla prima pagina:
Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. (49)
Si confronti ora con questi differenti sintagmi dell’operetta leopardiana:
la esperienza e la cognizione degli uomini e della vita;
la maggior conoscenza e pratica delle cose umane;
cognizione pratica degli uomini. (Leopardi 1995: 213, 222)
La vicinanza è massima. I tre sintagmi sembrano essere stati smembrati e ricuciti. Gadda dà cioè l’impressione di essersi appropriato di alcuni vocaboli leopardiani (non solo «conoscenza» e «uomini», ma anche «pratica»), per riutilizzarli a modo suo e passandoli in dotazione all’indolente investigatore-filosofo. L’ingegnere fa inoltre proprio anche lo stile del recanatese – non tanto nell’edificazione del periodo, o nell’uso della terza persona singolare (elemento proprio alla tradizione antica: Senofonte, Luciano, nonché il Foscolo del Didimo Chierico), quanto nell’uso del tempo verbale, in entrambi i casi l’imperfetto:
Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, […], nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne […]. Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare […]. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» […], e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose […]. «Quanno me chiammeno!… Già, Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…" diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano […]. E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, «ch’i femmene se retroveno addó n’i vuò truvà». Una tarda riedizione italica del vieto «cerchez la femme». E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ’e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo «quanto di erotia», si mescolava anche ai «casi d’interesse», ai delitti apparentemente più lontani dalla tempeste d’amore […]. Di [certe] obiezioni […] lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. (RR II 16-17; nostri corsivi)
Si veda, a riprova, il regolare uso leopardiano dell’imperfetto all’atto di introdurre i notabili ragionamenti della controfigura – qui basti un esempio, in forma scorciata, dalle prime pagine del capitolo primo:
Nel quale proposito diceva, che […]; soggiungeva, che oggi […]. E giudicava che […]. Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo […]. Ma condannava Epicuro; dicendo che […]; ed affermava che […]. ( Leopardi 1995: 198-200; nostri corsivi)
Va sottolineato che in questo caso, a rassomigliarsi, è soprattutto l’aspetto formale; i contenuti espressi sono diversi come diversi sono del resto i due autori. Non ci sembra, nel caso di Ingravallo, si possa parlare di paradossi; sebbene in un altro luogo del romanzo si presenti, con stile però differente, un concetto che rientra in questa categoria:
Il mondo delle cosiddette verità, filosofò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce. (RR II 119)
Il gusto dell’eccentrico e del ribaltamento del senso comune caratterizza in pieno questo breve passaggio; eppure, l’altissima perizia stilistica (al limite del manierismo) gli dona un senso di diffusa amarezza, di dolorante poesia: l’opposto, insomma, dell’ironia che ci si attenderebbe. Ingravallo è forse qui, come in non molte altre occasioni, strumento diretto del suo creatore, specchio alla sensibilità gaddiana; e la cosa lo apparenta ulteriormente a Filippo Ottonieri, perché entrambi risultano essere esplicite proiezioni dei loro autori. È questo che deve essere sottolineato: ci ritroviamo di fronte a una manifestazione del principio proiettivo, e questa volta vige una sorta di proprietà commutativa: le coppie Gadda-Ingravallo e Leopardi-Ottonieri si attraversano a vicenda, sia negli autori che nei personaggi.
Termina qui, crediamo, quello che nel Pasticciaccio può ricondursi a Leopardi. L’idillio, si è detto, risulta ormai inutilizzabile – i rarissimi sintagmi («chiarità mattutine, «verde allegrezza», «dolci notti») che si provano nell’evocazione idillica, non riescono a mantenerla: come fuochi di carta, illuminano per pochi attimi. Anche il paesaggio della campagna romana descritto alle prime pagine del capitolo VIII, nella ricognizione del Pestalozzi, viene sommerso dall’ironia pungente e dissacrante. Tuttavia, Gadda ha saputo trovare il modo di offrire un finale, segreto omaggio al suo autore prediletto: come se non potesse rinunciarvi in quella che s’è rivelata essere l’ultima sua fatica narrativa; come se lo avesse voluto vicino in questo postremo sguardo sul mondo.
Virginia
Nella redazione precedente del romanzo, quella apparsa in Letteratura nel 1946-1947, l’omaggio a Leopardi non si limitava al raro sintagma, e non era così nascosto. Nel capitolo poi espunto nell’edizione del 1957, il quarto, è difatti presente una piccola, meravigliosa scena in cui il commissario Fumi si lascia andare ad una «calda, commossa» declamazione di alcuni versi della canzone che il poeta dedicò alla sorella, Nelle nozze della sorella Paolina:
«… La Virginia!…»; e il dottor Fumi a sua volta chinò la faccia, pensoso: «… La Virginia!…». Sembrò impallidire, accasciarsi: poi, adagio, trascorse con una mano sulla fronte: parve, affisando il foglio, leggesse: non leggeva affatto. Quel che gli venne fuori non era nel verbale. «…Virginia!… a te la molle – guancia molcea con le celesti dita – beltade onnipossente: e degli alteri – disdegni tuoi si sconsolava il folle – signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri – nella stagion che ai dolci sogni invita…» Sgorgate da una laringe calda, commossa, da un animo che repentina angoscia abbuiava,… il Fumi licenziò con un corto volo della mano quelle mirabili sonorità, quasi accennando loro le vie del soffitto. Gli occhi, di già malinconici, bellissimi, gli smorirono a un tratto, spenti come da un disperato incanto… Parvero andare altre piagge, e gli anni, fino alla memoria di un volto… forse di una figliola, già viva e splendida!… Tacquero. Gli si velarono di una rimota tristezza. (50)
L’ammirazione per questi versi («mirabili sonorità»), implicita già nel semplice atto della menzione, potrebbe di per sé giustificare la lunga citazione. Senz’altro, la suggestione racchiusa nel nome del personaggio può aver da sola stimolato Gadda al richiamo, così com’è perfettamente calzante al carattere del commissario l’ennesima prova di gigioneria. Eppure, per quanto paia a noi stessi improbabile, il rimando alla poesia sembra nascondere un messaggio criptato.
Una suprema coincidenza ha forse voluto, infatti, che si stabilisse un’analogia tra la composizione leopardiana e l’ambientazione storica del romanzo, tanto da far ipotizzare un’apertura semantica alla decadenza della Roma fascista; è soprattutto il riferimento al «folle signor di Roma» che richiama irresistibilmente alla mente la figura del Duce. Se poi consideriamo l’importanza che Leopardi dava alla rievocazione dell’episodio di Virginia, esempio alle sue contemporanee di valida collaborazione all’emancipazione della patria, viene in mente Eros e Priapo (composto, del resto, proprio negli stessi anni del primo Pasticciaccio), dove Gadda si scaglia violentemente contro il comportamento ochesco delle donne, sottolineando la parte che esse ebbero nel funzionamento del regime. (51) In Leopardi, per di più, poco oltre i versi citati nel Pasticciaccio versione Letteratura, è presente un’espressione («anzi che l’empio letto | Del tiranno m’accolga», vv. 87-88) che non esita a collegare dittatura ed erotismo: le basi del libello satirico gaddiano. Tra l’altro, anche Michele Scherillo, nel volume dei Canti posseduto da Gadda, dava risalto proprio all’episodio di Virginia. (52)
Se queste sono le ragioni della performance di Fumi, perché però l’enigmaticità, e l’eliminazione? Tutto il resto del romanzo è intessuto di anatemi più o meno espliciti alla figura del Duce, ed anche ammesso che la citazione dovesse veramente significare qualcosa di profondo, non si capisce a pieno il motivo della sua esclusione; inoltre l’espunzione del capitolo non escludeva un recupero a parte dell’episodio. A meno di non ammettere una qualche strana ulteriore convergenza, che Gadda, espungendo in toto, ha voluto evitare, evitando così anche l’omaggio.
Conclusioni
La grandezza, certo, richiede singolarità: mancando quella, si sprofonda dritto nelle generose liste degli scrittori minori. Sebbene si sia fin qui tentato di dimostrare somiglianze e legami tra Gadda e Leopardi, va ora affermato con forza che singolarissimi sono in realtà questi due grandi autori. Se in questo nostro viaggio nell’opera gaddiana abbiamo prediletto alcune sponde piuttosto che altre alternando la traversata con l’escursione e il cabotaggio, e se abbiamo preferito passare oltre alcuni temi sottacendo le giuste repliche che potevano essere fatte alle nostre congetture, è perché uno studio ha da essere necessariamente selettivo, a volte forse persino fazioso, e perché spesso, col voler dire troppo, si rischia di non riuscire a dire niente. Ma è chiaro che la nostra intenzione non era di impostare e risolvere un’equazione: Leopardi = Gadda; era piuttosto di riabilitare, nelle opere gaddiane, questa grandissima personalità, mettendo in rilievo le straordinarie consonanze tra le due vicende umane e intellettuali, e fornendo una solida ratio alla continua presenza leopardiana nelle pagine del gran lombardo. La speranza è di non aver annoiato.
Università di Urbinoback to index
go to Paralipomeni
Note
1. Roscioni 1997: 210. L’osservazione si riferisce all’accostamento di pensatori e filosofi, ma è perfetta anche per autori di altre discipline.
2. Turolo 1995: 84-85. L’elenco prevede, tra gli altri, termini che derivano in via diretta dagli idilli: lucerna, garzone, fabbro.
3. Vedi le riflessioni leopardiane in merito all’argomento presenti nello Zibaldone: «Le parole irrevocabile, irremeabile e altre tali, produrranno sempre una sensazione piacevole (se l’uomo non vi si avvezza troppo), perchè destano un’idea senza limiti, e non possibile a concepirsi interamente. E però saranno sempre poeticissime: e di queste tali parole sa far uso, e giovarsi con grandissimo effetto il vero poeta. (20. Agos. 1821.)», p. 1534. Altri simili ragionamenti si trovano alle pp. 1777, 1789-790, 1798, 1825-826, 1930, 2251-252, 2263, 2350, 2629. Da notare come frequente sia l’uso gaddiano di parole quali immedicabile, innecessario, immotivato, immane, etc.
4. Il pezzo, risalente al ’30-’31, fa ora parte dei Racconti incompiuti, in RR II 1071-105.
5. «mi assordano e mi portano a mezzo, me fuori d’ogni umana brigata, come un vagabondo che si accolga alla cena del dì di festa» (RR I 236). L’intero racconto si sviluppa sulla descrizione della famigerata festività marinese, rispetto alla quale l’autore si pone come spettatore più che come attore. Nella nota 6 afferma: «la ingenua allegrezza della festa paesana riconsola il Ns., un attimo, delle ambasce e della sua desolata miseria» (RR I 242); nella nota 37, invece: «Egli [il Ns.] nulla può né sa fare, per aiutare alla ingenua festa» (RR I 244). La posizione ricorda chiaramente quella di Leopardi incapace di partecipare alla vita.
6. Per la precisione, chiaro è presente (nel significato di luminoso e tenuto conto delle derivazioni) 10 volte, valle 17 (cioè pressappoco una volta ogni due poesie). Più complicato il conteggio di opra, a causa delle varie sfumature di significato; nel significato gaddiano, e in contesti più o meno idillici, compare circa 12 volte.
7. «è, questa specie di religione del lavoro, una vena inesauribile nel messaggio gaddiano» (Carannante 1984: 157).
8. «Perfino alcuni rari “quadretti” più idillici e, se proprio vogliamo dire la parola, “leopardiani”, sono intimamente e felicemente mossi proprio da questo senso di alacrità e di allegria al lavoro» (Carannante 1984: 157).
9. Cfr. rispettivamente i personaggi di Luigi Pessina e di Franco Velaschi in La meccanica. Cfr. anche quanto Pedullà dice sul socialismo relativamente a questo romanzo (Pedullà 1997a: 142-72).
10. Altre eccezioni (valgano per tutti le descrizioni impietose dei vari Josè e Beppine della Cognizione) sono sparse nell’opera gaddiana; ma esse appaiono in ogni caso minime di fronte alla regola della simpatia. Ad esempio, in L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore, Gadda giustifica in qualche modo la sua ripetuta e divertita cattiveria verso i peones del romanzo: «la debilità de’ malati, degli sprovveduti o idioti, de’ poveri, degli umili non dà luogo […] se non forse a un attenuato e quasi pietoso grottesco di carattere per lo più idiomatico[…]: comunque scarnamente figurativo e flebilmente onomatopèico della povertà di spirito, e del riguardo che le è dovuto da esseri di maggiore facoltà» (RR I 762). È vero che lo sguardo di Gadda diventa sempre più intollerante mano mano che si avvicina al particolare, agli individui che formano il popolo; si direbbe però che la furia gaddiana abbia un bersaglio ben definito, specifico: dei volti, quasi. Quando nell’intervista del ’72 gli viene richiesta un’opinione sulla «gente di Brianza», la sua risposta è quanto mai icastica: «“Sono buona gente per lo più. Il numero dei delitti commessi in Brianza è certamente minore di quelli commessi in altri luoghi”; “Ma nel suo libro appaiono spesso un po’ primitivi, un po’ tardi”; “Tardi! Insomma non tutti sono condannati ad essere intelligenti”» (Gadda 1993b: 209). Ma anche qui, come pure nella Cognizione, ad essere presi di mira sono non gli umili in generale, quanto quelli della Brianza: anzi, si direbbe, di Longone al Segrino. Se confrontiamo il brano Umanità degli umili del ’70 con questa intervista del ’72, ci si accorge della totale estraneità dei due atteggiamenti. Insomma, sebbene si tratti appena di un’intuizione, forse la stizza gaddiana cresce man mano che il suo sguardo si avvicina a un luogo particolare: a un luogo della memoria.
11. Cfr. anche questo pensiero dello Zibaldone: «Le parole notte notturno ec. le descrizioni della notte ec. sono poeticissime, perchè la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sì di essa, che quanto ella contiene. Così oscurità, profondo. ec. ec. (28. Sett. 1821.)», p. 1798.
12. La frase, identica, appare nel Racconto italiano (SVP 401), e ricompare, scomposta e ricomposta, in molti altri luoghi gaddiani.
13. Da sottolineare che uno dei titoli provvisori del brano era Libera uscita. Idillio e pioggia di fiori.
14. Non si sottovaluti poi la presenza nel brano di un termine di sapore leopardiano come allegrezza.
15. L’ennesima citazione dallo Zibaldone risulta quanto mai precipua al discorso: «Queste voci e simili sono tutte poetiche per l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio ec.», p. 2629.
16. Muzzioli conta 125 occorrenze (Muzzioli 1987: 189-99). Sebbene confluisca in un’analisi della babelicità del linguaggio gaddiano (nel doppio significato di fallimento e complessità da attribuire all’immagine della torre di Babele), il saggio rimane fondamentale alle nostre riflessioni, specie quelle concernenti il tempo. Da aggiornare sono ad ogni modo le statistiche sulla frequenza del termine. Secondo i dati fornitici gentilmente dal CNR di Pisa, il numero dello occorrenze salirebbe a 288 – per quanto in esso vadano calcolate: a) le ripetizioni dovute al conteggio doppio dei brani della Cognizione presenti anche nell’Adalgisa e negli Accoppiamenti giudiziosi; b) la presenza del cognome dell’oste della stessa Cognizione (Manoel Torre). Vanno poi aggiunte circa 61 derivazioni della parola stessa, quali torracchio, torrione, torricella, etc.
17. Quest’ultimo, specialmente, non può che discendere direttamente dalla Sera del dì di festa: «[…] ed alla tarda notte | Un canto che s’udia per li sentieri | Lontanando morire a poco a poco, | Già similmente mi stringeva il core» (vv. 43-46).
18. Cfr. nella Cognizione: «Generazioni, stridi delle primavere, gioco della perenne vita sotto il guardare delle torri. Pensieri avevano suscitato i pensieri, anime avevano suscitato le anime» (RR I 681).
19. Cfr., ad esempio, in Cinema: «Pensavo nella pianura il popolo folto e fedele dei pioppi, la dominazione delle nobili torri» (RR I 55); ma anche la vecchia poesia del ’19, Gli amici taciturni (ovvero «ritorno»): «E rivediamo le torri | Ed i vecchi castelli; | E i mantelli | Scarlatti ed azzurri | Delle dolci donne, quando | Il vento passava sopra le torri» (SGF II 887). Da ricordare, poi, che nella fase embrionale delle Meraviglie d’Italia, la seconda parte doveva intitolarsi Le torri: mattino e tramonto, quasi a porre la giornata milanese sotto l’egida del Castello Sforzesco. Cfr. Orlando 1991b: 1239.
20. Cfr. a questo riguardo Lardo 1999. Qui si evidenzia come – invece che le solite cinque – siano undici le note dello scampanio ambrosiano, undici come le sillabe di un normale endecasillabo: parallelismo intrigante, e che ha, tra l’altro, ispirato diverse canzonette, di carattere spesso osceno.
21. «Poi, quasi un rito della stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi, eguali. E le pareva memento innecessario, crudele» (RR I 684).
22. Cfr. la descrizione minuziosa del ripetitivo lavoro del contadino di Studi imperfetti, III. Certezza: «E porta e trasporta, la giornata gli si consuma […]. È solo, sudato. Solo il suono dell’ora è rituale nel suo celebrare. Viene dalla vecchia torre, come un vecchio ed eterno pensiero» (RR I 39). Da notare il riferimento all’eternità implicita nella torre.
23. RR I 625, 636-37. Cfr. anche «Il consorzio: come lo amavano papà e mamma, dentro casa, con zoccoli dei cari peoni e peonesse; gutturavano loro variazioni indoeuropei al 100/100 dopo tripudio di arrovesciate, pazze, propaganti Fede, campane: dalla torre. Cinquecento, cinquecento anteguerra. Il batacchio-clitoride era la gloria, enorme, del paese festante. Cinquecento pesos; cinquecento. Solo cinquecento. La sua maglia, del figlio, quando aveva quattordici anni, contro il soffio della tramontana, che al ginnasio la chiamàvano Borea, aveva quattro finestre aperte; grandi così. E poco bisognava mangiare, per crescere sani, smilzi. Ma per il futuro la villa, la villa» (RR I 728-29); e, nell’Appendice: «Le campane e i loro batocchi in tempesta aumentano il sovraccarico di tensione nervosa mentr’egli [l’Autore] si raccoglie perché vuole, perché deve “tecnicamente” raccogliersi ne’ suoi studi filosofici o algebrici» (RR I 764). Lo stesso motivo ritorna, tra l’altro, nei Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus: «Uno vizio solo hanno purtuttavia questi cotali preti ch’io dico, ed è che quando li dà il farnetico, si missono in la mente che le sua campane non suonino bastante per intronare la gloria di Dio nelli orecchî de’ peccatori e delle peccatrici. Ed è in quello farneticante zelo che fatto il consiglio e persuaso della bisogna, subito imprendono a mutar campane, e sempre le mutano facendole duo volte le priori campane; e come l’onda del suono è nel peso, e il peso è nel volutine, e per duo volte la misura il volutine è otto volte, così d’otto in otto fanno cotali campane che il campanile non l’ha da reggere. E allora o rinsaldano il campanile o rifanno quello: che la prima è migliore che la seconda, che se a rifare bisogna primo tu lo levi dal sopra in giù, rinsaldare bisogna tu lo rifacci dal sotto in su. Ma perché l’appetito del doppio suonare non istia così lungo quanto dura il rifar campanile e campanile nella chiesa, ne vengono questi cotali e soavissimi preti con alcuni messeri di Fabbrica, a casa de’ marchesi per l’obolo. Ed è marchesi di duo nature, e cioè quelli che innanzi le ville hanno pan d’oro da mangiare e quelli che dietro lo ville hanno croste da ródere. E dar dinaio nelle campane, è per li uni una gloria celeste: e per gli altri è una gloria verde. E quando questi secondi Marchesi hanno figli difettivi che non si contentano a mangiar l’ugne in sopra il latino, ma vogliono pane dopo il latino, così per la gloria delle campane ci sarà l’obolo e per i figli le lacrime, senza speranza» (RR II 961-62).
24. Si intende, con questo nome, il quaderno in cui la giovane Adele redigeva dissertations scolastiche durante gli anni di collegio. Cfr. Roscioni 1997: 36-39, e le note relative alle pp. 313-15.
25. Secondo Manzotti il «numero di bronzo» va riferito al «numero dei rintocchi del battaglio bronzeo» (Gadda 1987a: 384). Per Flores, invece, in «numero» è da rivedere il riferimento al senso latino di numerus, ovvero ritmo, battuta (Flores 1973: 18).
26. Già nell’Adalgisa, in realtà, e cioè in un periodo grosso modo contemporaneo alla Cognizione, si parla di «dodici goccioloni di bronzo, fesso», per cui «le palpebre della vecchia notte assonnata si richiudevano […] nella pietà e nel silenzio» (RR I 325). Ma – è il caso di ricordarlo – tutto il discorso si fonda su una base di sostanziale sincronicità.
27. Vedi, fra tutti, Gadda 1987a: 384 («Il sintagma di ascendenza leopardiana “dalla torre” […]»).
28. «Siccome torre | In solitario campo, | Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei» (vv. 18-20).
29. Gadda 1987a: 37, 70, 159, 161, 240, 277, 385, 437.
30. Gadda 1987a: 383. Le pagine dell’Adalgisa citate nelle note corrispondono a RR I 291 e 460 rispettivamente.
31. Manzotti 1996: 286-87. Gli unici colleghi di Manzoni sarebbero il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov, e l’Amleto shakespeariano.
32. Patrizi 1975b: 173. Proprio nell’udito è possibile ricercare la motivazione ultima alla cognizione gaddiana della sua impossibilità a vivere; la possibilità di partecipazione sembra essere distrutta principalmente dall’eco del martello (segno del lavoro umile) prodotta dal monte (che invece è spesso segno della morte del fratello): «il rimando del monte precipitava sulle cose, dal tempo vuoto deduceva il nome del dolore» (RR I 714). Forse che i battiti del martello vengono tramutati dal monte nei boati della guerra, e specificatamente nell’impatto dell’aereo su cui trovò la morte di Enrico? è forse quest’eco che si trasforma in memoria atroce a impedire a Gonzalo-Gadda di porgersi al mondo e alla vita?
33. Pierangeli 1999: 79. Da sottolineare la doverosa puntualizzazione per cui «questo metodo appartiene alla stirpe numerosa dei grandi scrittori e poeti che poi, con la loro originalità, la rendono corpo letterario, stile, fatto narrativo».
34. Anche la Signora, abbiamo visto, opera una reminiscenza leopardiana nel tratto dedicatole: a lei la vita si ripresenta sotto forma dei versi cari delle Ricordanze, rivede anche lei, nella memoria, «chiarità dolci e lontane», ma a differenza del Figlio ella vi cede, cede alla parvenza implicita nell’evocazione, e proprio per questo riesce a rinfrancarsi, a sperare ancora.
35. Si vedano, tra le altre, queste considerazioni gaddiane: «rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità» (RR I 704); e nel Pasticciaccio: «Quella perorante cautela avvicinava il male per gradi […]: il male del ridestarsi a conoscere: a riconoscere e rivivere la verità d’ogni giorno» (RR II 265). Semplicemente sfacciato è poi il riferimento a Leopardi nell’intervista del ’72, dove, nel rispondere a una domanda sulla gente di Brianza, Gadda si lascia andare a una riflessione a dir poco eloquente: «“Ma nel suo libro appaiono [i brianzoli] spesso un po’ primitivi, un po’ tardi”; “Tardi. Insomma non tutti sono condannati ad essere intelligenti”» (Gadda 1993b: 209). Anche nella modalità di questa citazione implicita si può osservare ciò che caratterizza il riuso, l’appropriazione leopardiana: la discrezione.
36. G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Operette morali (Milano: Rizzoli 1995), 198.
37. Cfr. anche Il passero solitario ai vv. 24-26 e 36-44.
38. La poesia riprende (leggermente variata ma con il cambio fondamentale dalla prima alla terza persona) un componimento giovanile, del 1816, intitolato Appressamento della morte.
39. Cfr. Gadda 1987a: 277. Vedi anche Donnarumma 1994: 48, per i vari passaggi del sintagma da Virgilio a Leopardi a Gadda.
40. Cfr. la lettera del 23/02/1823, quella della tomba del Tasso; o anche i versi famosi di A Silvia: «Porgea gli orecchi al suon della tua voce, | Ed alla man veloce | Che percorrea la faticosa tela» (vv. 20-22).
41. RR I 679; Gadda 1987a: 277-79. Poco oltre: «Dall’orizzonte lontano esalavano i fumi delle ville» (RR I 680). Vedi anche «i fumi delle fabbriche» (RR I 628), e «i fumi […] delle povere cene della gente» (RR I 684), con le relative situazioni idilliche. Senza dimenticare Terra lombarda: «ogni volta che scorgiamo il fumo e poi i bruni coppi e il tetto remoto d’una cascina, ecco un sogno è suscitato nell’anima» (SGF I 212).
42. è anche di questa più famosa poesia, del resto, l’accenno all’offesa che gli elementi muovono all’uomo: «Mossi alle nostre offese | Folgori, nembi e vento» (vv. 40-41), dove va presa in considerazione anche la presenza delle folgori: «si disfrenava alle folgori» (RR I 675), e «le fulgurazioni dell’elettrico» (RR I 676). Offesa, d’altra parte, è termine che compare, in una significativa epifania, all’interno del brano: «Il suo pensiero non conosceva più perché, perché! dimentico, nella offesa estrema, che una implorazione è possibile, o l’amore, dalla carità delle genti» (RR I 676).
43. Oltre a quanto già rilevato, Donnarumma ipotizza per questo tratto V accostamenti che aumentano il debito di Gadda nei confronti del poeta e dei suoi versi. A suo parere, è certa l’incastonatura di un altro celeberrimo componimento leopardiano: il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia. Al di là di un discorso portato avanti con dovizia di particolari (per cui rimandiamo direttamente al suo saggio), è interessante qui riportare alcune delle sue intuizioni. Ad esempio, l’assonanza tra sintagmi come «stridi delle primavere» (RR I 681) e «rida la primavera» (v. 74) ; tra «molte cose aveva imparato e insegnato» (RR I 674) e «mille cose sai tu, mille discopri» (v. 77); ma anche una sostanziale equivalenza tra la donna che «Vagava, sola, nella casa» (RR I 673) e la luna che appare «solinga, eterna peregrina» (v. 61).
44. In riferimento all’uso dello stereotipo, si riporta un’osservazione di Patrizi che, sebbene non ci trovi d’accordo sulla motivazione (lo sgravio delle responsabilità affettive), è pero quanto mai inerente al discorso: «Nella organizzazione comunicativa del testo gaddiano, la presenza di “luoghi comuni” linguistici, di diversa estrazione, si viene delineando come ricorso a una possibile oggettività – o piuttosto convenzionalità – nella formalizzazione della realtà, che permetta all’autore di adempiere alle proprio mozioni d’affetti, dietro lo schermo “dato”, oggettivo, di un linguaggio istituzionale […]. Il segno dato e logoro nel consumo è una garanzia straniante: salve dalle proprie responsabilità enunciative, riconduce l’effusione del sentimento a una letterarietà obbligata, per di più, in sospetto d’ironia […]. I segni convenzionali sono adibiti a un volontario disinnescamento dell’élan affettivo, ma un disinnescamento che pur lasci trasparire la tensione che permane dietro di esso» (Patrizi 1975b: 179).
45. Negli altri casi, il rimando al poeta sembra essere dettato dall’affetto o dal lapsus: segno ulteriore di proiezione, di immedesimazione. Ecco allora che una frase come «un laghetto lungo e solingo dove il tenero canneto in una estremità gracida, a sera, di ranocchie sotto le gelide costellazioni del Polo» (RR I 719), richiama fortemente i versi delle Ricordanze: «Delle sere io solea passar gran parte | Mirando il cielo, ed ascoltando il canto | Della rana rimota alla campagna!» (vv. 11-13); dove, tra l’altro, il riferimento alle «gelide costellazioni del Polo» si rifà all’incipit della poesia Vaghe stelle dell’Orsa. Sempre lo stesso componimento è poi alla base di un’altra fugace apparizione leopardiana: «si rivolse di là dal muretto di cinta verso la montagna, e l’azzurro oltremonte: forse, di là, i cieli e gli eremi, e nulla» (RR I 629), in cui sono i versi 19-24 ad essere rievocati :
E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
(Le ricordanze, vv. 19-24)
A risaltare, è soprattutto la trasformazione dei «monti azzurri» in «azzurro oltremonte», e del «di là» nel complementare «di qua»; ma anche i contesti si rassomigliano nella loro dimensione sognante. Stesso riferimento può poi valere per le «serenità chiare ed azzurre dei lontani monti» (SGF I 53) di Ville verso l’Adda. Innumerevoli sono, comunque, le particelle leopardiane che si trovano sperse nell’organismo della Cognizione: il citarle tutte renderebbe solo più schematica e indigesta la lettura.
46. SVP 484. Cfr. la nota del 12 settembre 1924 al Racconto italiano.
47. Roscioni 1997: 52. L’osservazione prende le mosse dal discorso sulle «crisi di impersonalismo o di in elezione» di molti personaggi gaddiani.
48. Cfr. pp. 4023, 4068, 4095, 4096, 4102, 4104.
49. Vedi anche quanto si dice poco dopo: «nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne» (RR II 16). Da notare che la «praticaccia omnibus» della vita è caratteristica di un altro personaggio salvato dalla cernita gaddiana: il medico Higueróa della Cognizione. Cfr RR I 753.
50. I versi vanno dal 76 all’81.
51. Cfr. Barberi Squarotti 1980. Nell’analizzare brevemente il pamphlet gaddiano, lo studioso afferma che «alla violenza contro il fascismo e i suoi rappresentanti si aggiunge un antifemminismo ugualmente aspro e crudo, che indica nell’appoggio delle masse femminili, ripiene di brama erotica, la fonte prima del potere fascista»: 4964. Cfr. anche Bevilacqua 1985, soprattutto il discorso sulla «claque feminina».
52. Le pagine relative alla canzone vanno da 342 a 353.
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-04-3
© 2002-2025 by Alessio Ceccherelli & EJGS. First published in EJGS (EJGS 2/2002).
artwork © 2002-2025 by G. & F. Pedriali.
framed image: detail from Jean-Antoine Watteau, Gilles, c. 1716-20, Louvre, Paris.
All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.
EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.
Dynamically-generated word count for this file is 22757 words, the equivalent of 66 pages in print.


