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Le scene dell’ingegnere
Paolo Puppa
1. Rumori di scena
Possiamo partire, quale autentica Urszene, da un palcoscenico politico, simbolicamente connotato, dove il Duce arringa la folla di Piazza Venezia. È questo il contenuto ansioso di Eros e Priapo, dove si condensano e si spostano sensi di colpa rispetto ai personali silenzi collusi col fascismo e alle iniziali condivisioni, nonché si sprigionano energie euforiche per l’imminente fine del regime. Innanzitutto è la voce urlata a ferire il testimone che nel controverso pamphlet rievoca «il Vigile dei destini principe ragghiare da issù balconi ventitré anni» (SGF II 222). Tanto più che «porgeva egli alla moltitudine l’ordito della sua incontinenza buccale, ed ella vi metteva spola di clamori, e di folli gridi, secondo ritmi concitati e turpissimi, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè» (SGF II 224). Rumore orgasmatico, dunque, che – citando Machiavelli – femminilizza il pubblico al centro del rito, anzi si spinge a coglierne la simulazione teatrale tipica della creatura «nottivaga», la quale con simili ululati paludenti finge «amoroso delirio» solo per «accelerare i tempi»:
E a sbrigare il cliente: torcendosi in né sua furori e sudori di entusiasmo, mammillona singultativa per denaro. […] Indi il mimo d’una scenica evulvescenza, onde la losca razzumaglia si dava […] spengere quella foja in contenuta. Il bombetta soltanto aveva nerbo, nella convenzione del mimo, da colmare (a misura di chella frenesia finta) la tromba vaginale delle anime. […] Dalle bocche, una bava incontenuta. (SGF II 224-25)
Un altro passaggio del pamphlet puntualizza che «la voce è richiamo sessuale potente […] e gravita, per così dire, sull’ovaio delle genti […]. Talché l’Io-Fallo non può ignorare la voce» (SGF II 356-57). Circolano dappertutto immagini falliche, declinate pure in forme metonimiche come il coltello e il manganello, riprese altrove con caparbia e scrupolosa fedeltà. Non mancano puntuali citazioni da Machiavelli, ma Gadda avrebbe potuto agevolmente rifarsi al freudiano Massenpsychologie und Ich-Analyse del 1921 (dove appunto l’io collettivo si dissolve e si moltiplica grazie al carisma del Capo che esige investimento oggettuale e identificazione), e prima ancora a Gustave Le Bon. Di quest’ultimo la Psychologie des Foules, nel 1895, rappresenta il manifesto più clamoroso: i tratti tipici della massa metropolitana vengono individuati nell’inibizione collettiva delle capacità intellettive, nell’aumento contagioso dell’affettività, nella ripugnanza per il nuovo, nell’intolleranza per ogni ostacolo frapposto alla realizzazione dell’impulso, nell’esigenza di identificazioni in immagini eroiche, nella refrattarietà al ragionamento e infine nell’istinto gregario.
In ogni caso, indubitabile appare una singolare e ripetuta contiguità tra recita da parte di entrambi i partner, Duce e popolo in piazza trasformato in una femmina collettiva, ed effettiva copulazione tra di loro, così da trasformare il ruolo dell’accusatore in un voyeur turbato, incerto tra indignazione giudicante e coinvolgimento neurotico, per certi aspetti regredito all’infante che spia la camera parentale, fissato nell’Uomo dei lupi freudiano del 1918. E la lingua, qui più che mai spastica, segue i movimenti convulsi per cui «sgrondava giù chel gran verbo di balcone» (SGF II 242). Certo, il logos di chi sublima, grazie al lavoro, ogni tanto ha la sua parte e non manca di accusare le contraddizioni clamorose del Pirgopolinice che bercia «da i’ balcone “la santità della famiglia” per poi sparapanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto» (SGF II 248). Così da un lato insorge, con un’eco sinistra che imita le amplificazioni di piazza, contro la politica demografica del regime che pretende «figli, figli, figli, tanti figli, infiniti figli, da mandarli a morire nella guerra, contro i “delitti delitti delitti della Inghilterra Inghilterra Inghilterra Inghilterra”», dall’altro lancia ambiguamente un’occhiata furtiva e un po’ lasciva «alle cosce, ai calzoncini corti, a’ bei deretani mantegneschi degli òmini e de’ cavalli» (SGF II 248). Entra in gioco qui la connessione tra memoria pittorica e pulsioni omofile, dove dilagano i giovinetti, e lo vedremo tra breve a proposito delle frequentazioni caravaggesche del Cavaliere Angeloni nel Pasticciaccio. Se il «poppolo» è femmina, il Duce in compenso è diagnosticato quale soggetto narcissico, o autoerotico, insieme ai suoi gregari e seguaci, tutti «giovanissimi, giovini, e giovinastri, talora addirittura puberi; in qualche caso bambocci regrediti […] e direi esplosi in esibizioni pubero-fanfaronesche» (SGF II 320).
Il fatto è che il soggetto narrante rivela qui come dappertutto assoluto disprezzo verso lo statuto narcissico, in quanto incarnato esemplarmente nella figura del Kù-cè: il che determina una totale sfiducia nei riguardi dell’io, su cui lancia appena può i più pesanti e sarcastici strali. A smantellare una simile chimera lo sorregge d’altra parte l’intera cultura novecentesca, in tutte le sue articolazioni. L’identità individuale è di fatto priva di qualsiasi consistenza ontologica, ridotta a mera finzione, oggetto frammentato e disperso nella babele caotica del mondo. Ma dall’assenza di un forte statuto dell’io derivano la frantumazione e la moltiplicazione di voci e di registri, la babele macaronica dei dialetti e delle lingue, l’inesausta serie di liste descrittive, gli «inventari di discorsi vani», l’illimitato caleidoscopo di significati. Nascono insomma le scene del Pasticciaccio, coevo di Eros e Priapo, di cui costituisce il rovescio della medaglia, nel quotidiano assediato dalla cronaca nera, non più censurata dalle veline sulla stampa. E nel romanzo campeggia la canonica definizione di caos, rilanciata da una serie rapsodica di sinonimi come «nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo» (RR II 16). Il tutto produce claustrofobico disagio non solo per il povero Ingravallo, decretandone pertanto lo scacco nell’inchiesta poliziesca o almeno allontanandone la soluzione, ma per l’autore stesso, ad ascoltarlo nelle sue giovanili allergie.
2. «Maschietti urlanti», e altri corpi
Ora, infilato obliquamente nel Pasticciaccio, si intravede un personaggio che per tratti somatici, insicurezza comportamentale, relazioni col mondo e con se stesso rappresenta un doppio non tanto celato dell’autore, il commendator Angeloni. «Ghiottone solitario, celibe e malinconico, soggetto a crisi di ipotimia ciclica», costretto a convivere con un’aspra «epoca ove lo scapolo era schedato a spregio, fosse pure Gesù Cristo», questo il suo lapidario ritratto inciso nelle note d’autore in merito al romanzo (Il Pasticciaccio, SGF I 507). E sulla scelta di non sposarsi e di non avere figli, contravvenendo alla politica demografica del Regime, Gadda si mostra del resto perfettamente d’accordo con lui. Sor Filippo non partecipa di certo alle adunanze del regime: vive appartato, lontano dalla Piazza vociante. In compenso non ci vengono mostrate le sue scene private. Angeloni rimbalza, come visto, pure nella sceneggiatura Il Palazzo degli ori, coronata da esplicito scioglimento del mistero poliziesco. Nello script, in particolare, la sua sagoma denota qualcosa di fumettistico, tutta stereotipata nei propri gusti, incalzata da una bulimia mangereccia che lo porta davanti alle vetrine dei salumieri e delle osterie romane a guatare la merce. Per il decoro personale, è costretto a servirsi di giovani garzoni fatti salire nel suo solitario appartamento, e congedati con mance, facendo mormorare la portineria e il vicinato. Qui ancora si accenna allo «strano terrore» tradito dalla nevrotica negazione di Angeloni in merito ai suoi legami con il giovinetto in fuga, Ascanio, coinvolto nel giro malavitoso. Qui, ulteriormente, circondato «dall’ironia e dal dileggio che perseguono tutti gli outsiders della sua specie», il personaggio viene esplicitamente accusato di essere un «favoreggiatore», e congedato bruscamente nella scena 26, in cui egli cerca di giustificarsi sostenendo di aver voluto «ricondurre sulla buona strada» il ragazzo (SVP 977). Nel romanzo, a sua volta, Ingravallo ribatte alle sue affannate risposte circa le equivoche frequentazioni di ragazzini, su «quell’andirivieni, di portatori di salumi a domicilio» con impazienti allusioni: «Anche questo ha i calzoni corti! […] La donna de servizio! Una bella serva, finalmente!» (RR II 49, 47).
Nel triangolo costituito dunque dal romanzo, dalla stesura per il cinema e dal saggio-profilo del 1957, si riscontrano richiami all’impiegato ministeriale e piccolo borghese al centro di tante novelle pirandelliane: basti citare, in una dimensione ancor più crepuscolare, ma dall’analoga compressione psichica, il solitario Tullio Buti ne Il lume dell’altra casa del 1909. Ma c’è un aspetto eccentrico nell’uomo che fa della gola in apparenza il suo piacere, motivo assente nei suoi emuli. Costui infatti non manca di visitare con caparbia ossessione la cappella Contarelli a San Luigi de’ Francesi, a rimirarsi le tele del Caravaggio, specie la Vocazione di San Matteo, disorientando ed esasperando i segugi che gli vanno dietro perché lo sospettano di collusione coi ragazzacci implicati nel furto dei gioielli che apre la vicenda del romanzo. Ora, perché queste periodiche visitazioni? Rimorsi, residui di devozione, culto di immagini artistiche? Sappiamo solo che Angeloni fa salire nel suo solitario appartamento giovani garzoni in ossequio alla dignità borghese, ossia per non farsi vedere per strada colla salumeria sulle spalle. Dunque, impulsi periodici e coattivi che lo assaltano all’improvviso: «quanno che vedeva che c’era convenienza, o ch’era robba bona. Magari solo qualche pasticcetto, tante vorte. Giusto pe’ levasse na svojatura» (RR II 45). Lo scrittore non chiarisce, volutamente. Claudio Meldolesi, in un saggio sul gusto teatrale di Gadda, accenna ai cartoni sottostanti al Pasticciaccio, e li collega alla spagnola Celestina, da integrarsi ovviamente colle fonti plautine (Meldolesi 1987: 169-71). E nel romanzo dilagano soprattutto i «servi birbi» presenti nella grande tradizione della scena comica, dalla antica alla rinascimentale-barocca (si pensi al Candelaio di Giordano Bruno) sino all’immaginario pasoliniano; il tutto inondato dai profumi e dai miasmi della Roma notturna, da Belli a Rugantino. Ma nel Pasticciaccio l’autore ha modo di ripresentare in moduli apparentemente più sobri i grovigli emotivi suscitati dalla scena fallica del balcone in Eros e Priapo: furti e delitti efferati sanciscono il ritorno del rimosso, in una contiguità tra gioielli e sesso nel segno della trasgressione e della devianza morale-sociale. Il Duce stavolta si decentra e ringiovanisce nei ragazzi di vita, insomma, nobilitati però dalla loro origine pittorica, in quanto prelevati dai putti sfavillanti dai quadri caravaggeschi.
Se il binomio costituito dall’appetito sessuale e dalla fame non consente la decifrazione delle immagini celate, in compenso Angeloni ha un suo doppio ancor più represso, il Gonzalo Pirobutirro della Cognizione del dolore, sfinito dalle rinunce e tormentato dalla presenza affannata della Madre, che mancava viceversa al Commendatore, privo pertanto di freni e di controlli nel proprio appartamento. E Gonzalo, privato degli sfoghi culinari concessi al suo emulo, è in grado per le tante astinenze di partorire autentici baccanali. Basti pensare alla crapulesca, trimalcionica scena del restaurant riempito dalle novae gentes, dagli arricchiti illetterati: davanti alla frugale miseria della cena, ai poveri «tre peperoncini verdastri, vizzi, […] in un piattino slabbrato» (RR I 697), ecco questo risarcimento bilioso e invidioso. L’hidalgo, modellato sulle figure molieriane, dal Misanthrope all’Avare, diviene allora un voyeur della crapula altrui, mentre la lingua ancora una volta si impenna in un metecismo pluristilistico, sfornando a getto continuo incastri degni di un Arcimboldo, deformazioni mostruose nell’etimo latino, cioè parvenze deformi e grottesche, in cui l’umano, l’animale e il vegetale si accoppiano con lena furibonda. Ma la scena tanto accesa non può che trascinarsi dietro indizi di artefatto, di posticcio come il frac dei camerieri «pieno di padelle», oltre all’ansia sociale risorgente tra i commensali, nell’incubo della rivoluzione. Spiati dall’inedia del protagonista, costoro esibiscono una fisiologia a fatica mimetizzata dalla recita mondana, per cui vengono in primo piano, ingranditi da uno sguardo acceso di cupidigia, il triviale e il sordido dei corpi, di cui nulla viene trascurato o sottaciuto dalle impietose ipotiposi. E nondimeno la mangiata pantagruelica dei fortunati banchettanti, al di là dei commenti irriverenti dei servi dietro le quinte, esalta agli occhi del guardone impazzito le «pile di piatti in tragitto», le «bacinelle di maionese», le «cataste di asparagi in cui sbrodolava giù burro sciolto», le «trombe marine di risotti», sino alla sigaretta digestiva (RR I 700).
In generale, si può affermare che verso i giovanetti, desiderati perché capaci di copulare, e comunque connotati in termini di classe, la scrittura gaddiana ostenta sempre cedimenti nervosi, moduli umbratili tramati di attrazione e di dolorosa coscienza riguardo all’inferiorità vitale. Non mancano in effetti continui attestati di impotenza e di autoderisione di fronte alla irriverente e incontenibile esplosione dei sensi offerta da costoro, se «il rapporto tra i sessi è necessaria cosa, né può comportare lo stato ascetico, né il monastico, né la indeterminata assenza oceanica: di romito e di stilito non gocciolò prole in Tebaide, ma solo bucce e residui dello intestino e delle reni» (Eros e Priapo, SGF II 369). La presenza di costoro, di solito accompagnata da un’avvampante bellezza, viene sempre corrosa ed inficiata, ad esorcizzare sublimazioni estetiche, da abbassamenti fisiologici, anche di natura escrementizia, nel segno di una totale libertà del corpo, come dimostra l’episodio del turacciolo relativo all’infanzia di Gonzalo (RR I 732-33). Intanto, di solito, questi ragazzi producono rumore: di conseguenza, qualche protagonista gaddiano manifesta intolleranza verso i «maschietti urlanti», vedi l’ingegner Baronfo nella Madonna dei Filosofi (RR I 87), così come l’hidalgo verso i peones lerci e zoccolanti. Oppure la scrittura può covare la paura suscitata dalle potenzialità socialmente eversive degli stessi, percepiti allora in chiave di proletariato minaccioso, nel timore ossessivo di muri insufficienti a proteggere la demeure, agevoli da scavalcare nelle escursioni notturne degli assassini. Ma più di frequente emergono scorci balenanti per un attimo, a sprigionare la possanza fisica di costoro, come i muscoli del muratore diciassettenne in mutande, venuto giù dal tetto in mezzo al bailamme de L’incendio di via Keplero. Così ancora il fattorino avventizio che trasporta cioccolatini, Bruno, ombra luminosa che si conquista un suo spazio fosforescente tra enigmatiche risate, nella cucina dell’Adalgisa. E qui il giovanotto discetta da par suo in merito all’incidente subìto in via Giuseppe Mayerling: ad ascoltarlo la vecchia e sorda Carolina, uscita dall’antro dell’Innominato manzoniano o da un ritratto desolato del Giorgione. O, ulteriormente, gli scatenati ragazzetti di periferia che si mescolano ai soldati in libera uscita a cercare avventure e contatti lascivi nel buio della sala cinematografica, in Cinema. Stavolta, l’io narrante regredisce alla condizione di adolescente ammirato dalla loro disinvoltura, portato persino ad equivoche iniziative (a base di chiavi fraintese, nella loro durezza, dalla pruderie sospetta di signore sole: RR I 64). Per non parlare dell’immancabile garzone che prima di spuntare nel Pasticciaccio – moltiplicato nei teppistelli equivoci e seducenti, a soddisfare tra altre iniziative la gola del Commendatore – s’era già fatto ammirare nei panni di messo celeste nella fantasmagorica soirée operistica in Teatro: calato dal soffitto, e ben conosciuto dalla voce narrante nella novella. In cambio, le figure femminili da una parte sono demolite con un accanimento misogino degno di un futurista, dall’altra vengono idealizzate, trasformate in icone malinconiche, i cui sensi vengono sublimati o virati a inespressi languori: come la Maria Ripamonti della Madonna dei Filosofi, o la giovine Elsa, moglie trascurata nell’Adalgisa, turbata dall’accompagnamento del nipote quasi coetaneo (e ingegnere per giunta, in un ambiguo gioco di autosimulazione eterosessuale), o la sfortunata Liliana Balducci che ha continuato sia da viva che da morta a turbare le notti di Don Ciccio.
3. Il teatro e le sue lingue
Tutte scene, per adesso, contenute in racconti e romanzi. Immagini fallocentriche come in Eros e Priapo, di cui l’io testimone prova ribrezzo, vergogna e da cui è nondimeno attirato stante il surriscaldamento dei registri. E altrove garzoni solerti, infilati dappertutto a tramare delitti, oppure a esibire per scorci rapidi corpi vogliosi e desiderabili. Questo un po’ lo schema di partenza. Ma il teatro, in quanto genere ufficiale, che tipologie visive offre in Gadda? Noia, innanzitutto, quale immediata associazione di idee, in quanto lo scrittore dichiara di stancarsi, in platea: in tale contesto rientra la critica al sistema dello spettacolo, in un’esplicita strategia metateatrale, dove spesso è l’opera lirica a subire inchieste impietose. Torniamo per un attimo alla novella Teatro (1927), inserita nella Madonna dei Filosofi del 1931. Forse vi si respira un’aura tolstojana: nel 1897, in Cos’è l’arte, lo scrittore russo presenta un contadino malcapitato, entrato in sala per inciampare su di una messinscena wagneriana. Costui vede senza capire nulla, spiazzato davanti ad astruserie e gorgheggi. Stupore spaventato che si travasa nell’accidioso disagio confessato dall’io narrante gaddiano nella citata novella. Questa volta il punto di vista è quello di un ricco borghese, tendenzialmente refrattario ai rumori, come tanti suoi confratelli, privo però dei connotati evangelicamente innocenti presenti in Tolstoj. Costui subisce, è la parola giusta, l’esecuzione d’una bizzarra antologia di opere rossiniane-verdiane, un coacervo indigesto di vicende legate ai vari Sardanapalo, Agamennone e Pigmalione, tutti convocati a far parte della «più colta società babilonese» (RR I 15). E nel frattempo rumina sull’incongruenza di suoni, parole e gesti emessi da interpreti dalla poco seducente pinguedine, racchiusa nella grande macchina di sorprese e di misteri: iperbole grossolana e pretenziosa, insomma l’opéra. Ecco allora il resoconto sbalordito, l’involontaria ma feroce parodia, specie in rapporto alla lingua del libretto: «Raccontò del suo crin e ci fornì elementi circostanziati sulle principali peripezie del suo sen; non trascurò l’alma; illustrò le forme più tipiche del verbo gire» (RR I 12). Nel congedo del racconto, alla fine della fruizione disturbata, la voce del narratore sembra congiungersi idealmente alle riflessioni di Benjamin sull’ineffabilità della commozione provocata dall’opera lirica: pathos che svapora una volta usciti al freddo della strada, mentre si ritrova il mondo di fuori, identico a come lo si era lasciato per assistere allo spettacolo. Brecht, del resto, nei suoi testi sulla radio (1932), consigliava di mettersi dalla parte del produttore e non dell’ascoltatore, per non farsi travolgere dalla musica: tanto più che spesso è l’occhio annoiato l’antidoto alla droga dell’emozione, l’occhio magari del macchinista, necessariamente epicureo, difeso dagli sprechi emotivi e dagli ingorghi ricettivi, perché in grado di osservare dietro le quinte la star com’è nella sua intimità fisica. E, rovesciando proprio la metafora di Ulisse e delle Sirene, i valets de chambre assistono così, ridendo, alla misteriosa metamorfosi di un corpo in un personaggio regale: il loro candore, in tal caso, non si fa coinvolgere, in quanto hanno visto, prima, lo sciamano a casa sua. Ma, per tornare alla prospettiva della voce narrante in Teatro, si tratta di uno sguardo del tutto demotivato, non coinvolto a nessun livello di partecipazione emotiva e di condivisione culturale. Eppure, al di là dell’accumulo demenziale di accuse indirette alla miserevole finzione di cartapesta, al nonsense dello spettacolo, resta il fatto che il racconto si chiude coll’immagine del fuoco, scongiurato grazie alla presenza rassicurante dei pompieri. Quasi a sottolineare indirettamente che sempre di fuoco si tratta, alludendo forse al valore alchemico della messinscena che brucia e ricrea il mondo.
C’è però teatro e teatro. Si è detto dei tanti repertori drammaturgici sfruttati nei plot narrativi di Gadda. Tutta l’Adalgisa non si può leggere senza tenere bene a mente l’incidenza del dialetto letterario meneghino, che si esalta in Carlo Maria Maggi e in Carlo Porta ma dilaga poi nei circuiti fine Ottocento grazie ai copioni di Carlo Bertolazzi, da El nost Milan a La Gibigianna. Questo non vieta alle oscillazioni umorali dello scrittore manifestazioni fobiche contro l’uso basso del dialetto lombardo, come si evince dai fastidi manifestati nella Cognizione del dolore rispetto alle belluine «urla celtiche» degli zoccolanti «oranghi» (RR I 750-51). Si può persino azzardare che verso il dialetto e i vernacoli la prospettiva muti di continuo come verso i giovinetti, ora spiati nella loro fascinosa fisicità ora disprezzati in chiave culturale. Ma il forte ricorso a idiomi bassi inserisce queste modalità di scrittura in un versante ancora una volta teatrale, non solo per l’efficacia drammaturgica ma anche per la loro natura di pre-testi: dopo gli sproloqui rancorosi e pruriginosi della vedova Adalgisa vengono i deliri di Giovanni Testori. E ancora, dalle frenesie per cercarsi il posto al tram o alla Scala in Un «concerto» di centoventi professori, gemma dell’Adalgisa, discendono per li rami i soliloqui in grammelot del Fo della Resurrezione di Lazzaro, nel Mistero buffo del 1969.
Non solo noia, insomma. È documentata in Gadda una passione divorante per l’assise, per la cronaca dei casi giudiziari: e si sa con Gramsci come la sola drammaturgia nazional-popolare nel nostro paese, al di là del melodramma romantico, sia stata nell’Ottocento la dinamica dei grandi processi penali. Non basta, perché nella breve e discontinua attività di spettatore teatrale, Gadda ci lascia osservazioni significative, a volte fulminanti, sulla drammaturgia cui gli capita di assistere. Sulla Cena delle beffe vista nel ’45, ad esempio, analizza l’effetto dell’endecasillabo usato da Benelli in scena, e lo trova del tutto prosciugato nella recitazione. Qui l’autore esibisce non una mera preparazione letteraria, da lettore culto, come spesso capita ai recensori professionisti dell’epoca, ma si spinge a notazioni tecniche sulla materialità dello spettacolo, in primis sul fenomeno nuovo (per l’Italia) della regia.
Ebbene, ripetiamo la domanda di poco prima. Cosa rappresenta la scena materiale per l’Ingegnere? Parlando delle origini del teatro americano, ne mette in evidenza l’alone demoniaco, definito «palestra di Belzebù», per la fama conquistata dall’istrione d’essere né più né meno che «uno spargitore di velenosi fermenti, o almeno un suggeritore d’inquietudini» (Albori del teatro americano, SGF I 903). Un luogo pericoloso e temuto, allora, da cui tenersi lontano. Altrove, viceversa, come nelle note ad Amleto, si spinge ad esaltarne il ruolo, sempre delicatissimo in fondo, che lo eleva a «indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità» («Amleto» al Teatro Valle, SGF I 541). Ma, e questo vale in Gadda per ogni medium che si stacchi dalla pagina, analogamente alla radio, il genere teatro, nelle rare volte in cui viene utilizzato, detta la rinuncia dolorosa al manierismo espressivo. Una sorta di autocensura linguistica. Le Norme per la redazione di un testo radiofonico, inaugurate nel ’53, in cui sconsiglia vivamente la lunghezza del monologo, l’intrusione di gergalità tecniche e di idiomi stranieri, di vocaboli desueti e antiquari, così come l’esibizione di superiorità da parte della lingua offerta nei confronti del pubblico, oltre che il sovraccarico di clausole ipotattiche, potrebbero adattarsi, salvando le differenze dello specifico, alla sua pur scarsa produzione drammaturgica. L’esperienza radiofonica gli detta i maggiori sacrifici in tal senso.
Al massimo si nota la tendenza, in certi casi, alla formula della pièce à thèse, all’oratorio – reduce dall’Accademia platonica – in cui si alternano voci contrastanti oppure concordi. Nel primo caso abbiamo Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, nel secondo L’egoista, dove i due personaggi (Teofilo e Crisostomo) discettano appaiati nel comune intento di snidare e contestare le varie figurazioni dell’egoismo/egotismo nel reale. Siamo lontanissimi dalla frenetica contaminazione lessicale e discorsiva che il dialogo sulla pagina, destinato cioè alla stampa, si consente, scatenando un’oralità mozzafiato: come nell’alterco buffonesco e concitato, intarsiato da vernacoli multipli, della Favola 180, dove passerotti poco leopardiani si contendono il nido. Anche perché, sciolta sulla pagina, la parola si fa sprecona, mentre rivendica con fierezza il proprio diritto alla massima entropia, all’antieconomicismo, all’espansione tumorale delle parentesi, delle sinonimie, delle variazioni, delle infinite e vertiginose digressioni. Tanto più che, quando nel discorso narrativo si passa dalla relazione spesso sfrangiata e insicura tra singoli personaggi alla concertazione della folla, subito si esalta a dismisura una dialogicità coreutica vivacissima, mimetica del quotidiano, iperbolizzato però in termini irresistibili. «Zefiro parlativo», definisce l’autore questo «impetus» della «discorsa» nell’introduzione al «cartone vecchio» di Quattro figlie ebbe e ciascuna regina (RR I 374). Finalizzata alla pronuncia fisica, alla realtà della presenza o radiofonica o scenica, la parola invece si illimpidisce, si fa trasparente e transitiva, come ammonisce l’autore dei Luigi di Francia, concepiti per il microfono della radio nel ’52. Ciò non evita che i copioni nati per la scena a volte si trascinino addosso patine linguistiche complesse, maniere espressive come il fiorentino cinquecentesco in Gonnella buffone; o come le frequenti licenze di Háry János, ambientato nelle guerre napoleoniche, immerso in un brioso clima vaudevillesco, un burlesque in cui persino gli scontri militari si sdrammatizzano e ripiegano su ludi infantili con risibili spostamenti di confine. Il tutto attraversato da refoli di Molnar e Synge, col protagonista vantone e affabulatore, l’ussaro disceso forse da una costola del Liolà pirandelliano, irresistibile con tutte le donne, povere o regine non cambia (persino Maria Luisa stanca del suo «Nano», ossia il Bonaparte). E qui, in effetti, strati toscaneggianti si alternano a spolverature romanesche, napoletane e venete.
4. Altre voci virili
Prendiamo un attimo in considerazione proprio Il guerriero, dalla scarsa fortuna in palcoscenico e relegato di solito dalla critica specialistica nel novero dei «divertimenti minori». Ora, lo schema della diatriba letteraria, pro e contro un determinato autore rappresentativo della classicità, era già stato praticato in uno snodo della novella San Giorgio in casa Brocchi (1931): in quel caso si trattava di Cicerone, inserito in un Bildungsroman del giovinetto di casa, il contino Gigi, alla fine puntualmente travolto dalla prorompente fantesca Jole e del tutto dimentico del De officiis. Nel Guerriero, invece, il disegno appare più complesso. Nel gioco dei tre interlocutori che si contrastano nello spazio sonoro della Conversazione per la radio, i due maschi in conflitto sono immaginati ospiti appunto di Donna Clorinda Frenelli. Mentre il difensore del poeta greco dispone, nella didascalia introduttiva del copione, di una «voce virile in chiave di baritono, ferma asseverativa», la personalità del detrattore viene ridicolizzata da una «voce maschile a strappi acuti, crepitante, sguaiata», davanti a quella «intonata a gentilezza» della padrona di casa, fatua e superficiale giudice di una simile contesa, per lo più succube dei giudizi dell’amica Professoressa Gambini, altra entusiasta e studiosa di Foscolo (SGF II 381). Da notare dunque che questo triangolo, due maschi e una femmina, lungi dal funzionare quale conflitto erotico, secondo le regole drammaturgiche, è tutto giocato nel genere del Mocktrial, ovvero del tribunale buffonesco. In compenso, se contano le voci, l’agiografo foscoliano si colloca dalla parte dei «giovani delle più pure generazioni della Patria», tutti ardenti apologeti del Poeta (SGF II 389), e dietro di lui lo Spirito idealizzante; mentre il secondo riveste il ruolo di Marcolfo o di Bertoldo in rapporto a Salomone, col compito cioè di desublimare l’enfasi e la retorica, e scoprire – nel suo cinico esercizio di abbassamento – un «Niccolò Basetta figlio di Diamante Spazzola», raffigurato quale peloso satiro in fregola, assatanato da gentildonne specie se quattordicenni e soprattutto danarose, pronto a rilasciar loro in cambio attestati di verginità. Ebbene, il furore e l’accanimento dell’Avvocato Damaso De’ Linguagi non riescono a celare i medesimi isterismi dell’io narrante in Eros e Priapo verso la prorompente e volgare sessualità del Duce. Insomma un voyeur che rimuove il fascinus subito grazie all’etica che gli fa condannare chi scrive endecasillabi mentre intorno a lui si muore sul serio in battaglia. E proprio come l’Alì, doppio del Soggetto sempre in Eros e Priapo, anche Damaso è fortemente intrigato dal suono dischiuso dal petto dell’Aedo, oltre che dalla sua smania «di denudarselo, e di denudarsi in generale» (SGF II 392), ovvero dalla leggenda di grande amatore di Ugo.
5. Scene di romanzo
Torniamo ancora una volta alla domanda di base. Cosa significa il teatro per Gadda, e quali scene gli spalanca? O meglio dove cercarlo davvero in lui? è stato sempre Meldolesi, oltre a disporre come già detto una serie di spie sulla virtualità scenica dei suoi romanzi, ad aver ipotizzato la sua concezione dinamica del genere, del tutto svincolato dall’ambito letterario, molto vicino al caos originario del reale. Ora, sulla scia di questo importante contributo si possono inserire le note successive di Ferdinando Taviani, che colloca la passione teatrale di Gadda – incapsulata specie nel Pasticciaccio – in «quella terra di nessuno che sta fra la narrazione e la rappresentazione» (Taviani 2001: 93). Quasi ad ascoltare idealmente simili suggestioni, nel 1996 il nostro più autorevole e coraggioso regista, oltre a tutto da sempre interessato alla adialogicità delle forme teatrali, porta in scena a Roma il Pasticciaccio: Ronconi vi ribadisce il proprio metodo antipsicologistico basato sulla discontinuità sintattica, sugli scarti e sulle dissonanze dei registri, sul ritmo di accelerazioni e decelerazioni continue imposto alla recitazione. Il lato singolare dell’allestimento è che si tratta non di un adattamento, ma di un fedele trasporto, cogli inevitabili alleggerimenti, dell’intero romanzo sul palcoscenico. Quel che emerge a sorpresa è la conferma della perfetta pronunciabilità del materiale, non solo delle magmatiche esplosioni dialettali ma dell’organico tessuto narrativo, come se l’autore l’avesse scritto a voce alta, magari davanti allo specchio. Ai tanti attori-personaggi non vengono assegnate battute monologiche o dialogiche, bensì sequenze specifiche: e questo rafforza ulteriormente la continua oscillazione tra porzioni dialogiche dirette, stile indiretto libero, descrizioni in terza persona. In tal senso si giustificano paradossalmente sia l’ipotesi di chi rileva nella discorsività gaddiana una precisa strategia registica, sia quella opposta, relativa all’assenza dell’autore (che lascerebbe pertanto il mondo narrato senza un ordine e un ordito preciso, nella tensione a rendere l’ilarotragico caos del reale). Il fatto inoltre che ogni creatura sulla scena parli di sé in terza persona e usando tempi del passato sembra per certi aspetti portare alla ribalta lo straniamento brechtiano di antica data, con molta più efficacia tra l’altro rispetto ai classici allestimenti strehleriani degli anni ’60: e questo nonostante la reiterata allergia ronconiana verso quell’orizzonte. Appoggiato precariamente su inconsistenti figure dal punto di vista ontologico, questo casting usa del resto la persona quale mera e irrilevante finzione immersa nel flusso discorsivo collettivo. Grazie alla scansione disinvolta dei players, e agli incroci dei repertori e dei vari modelli celati nel romanzo, trapela il polimorfismo arcaico e regressivo dell’Ingegnere, che può in tal modo finalmente tutto celare e tutto confessare. Viene oggettivandosi insomma il caleidoscopio di assi focali sempre rovesciati in una dinamica di umori cangianti – più che pirandelliana, cubista –, là dove precipitano, si sovrappongono e trovano finalmente una loro pacificata convivenza le tante pulsioni, le donne angelicanti e i maschi rozzi, i malinconici volti femminili sullo sfondo e le virili parti anatomiche in risalto, il lei/lui/loro di continuo avvicinati e allontanati nella stordente babele dei sensi.
Ma questa scena sovraffollata, nondimeno ordinatissima, di voci e di vita, perfetto correlativo oggettivo della lingua disturbata e meravigliosa dell’Ingegnere, riesce ad esorcizzare l’altra scena: quella rovinistica e vuota dove campeggia il Muro, che di continuo si profila sinistro nella Cognizione, come già visto in precedenza. Il muro montaliano, o meglio quel che resta della Casa diroccata, causa e conseguenza del fallimento economico e relazionale della Famiglia, resa vuota soprattutto dal fratello caduto(irraggiungibile e penalizzante modello): questo muro «gobbo», che «anche le anime dei morti lo scavalcherebbero», risalta solitario nell’altra scena, simbolo di un’apocalisse annichilente (RR I 638). E sono pur sempre, e ancora una volta, i ragazzi di vita, sotto forma di barbari stralunati e dagli idiomi incomprensibili – dunque coi consueti suoni cacofonici che accompagnano altresì il ducesco palcoscenico del balcone – a entrare nel sacello sacro, là dove rantola la madre «nel grande letto nuziale», cui la penna delega tremando il gesto di Edipo. Il teatro materiale pertanto, magari grazie all’opera di un regista coraggioso e geniale come Ronconi, il teatro dalla pur incerta socializzazione, sembra sovrapporsi alla scena per eccellenza medusea, quella inguardabile e su cui viceversa si sofferma lo sguardo sadico-masochista e pentito dell’Ingegnere:
Gli occhi della signora, aperti, non lo guardarono, guardavano il nulla. Un orribile coagulo di sangue si era aggrumato, ancor vivo, sui capelli grigi, dissolti, due fili di sangue le colavano dalle narici, le scendevano sulla bocca semiaperta. Gli occhi erano dischiusi, la guancia destra tumefatta, la pelle lacerata, e anche sotto l’orbita, orribile. Le due povere mani levate, scheletrite, parevano protese verso «gli altri» come in una difesa o in una implorazione estrema. (RR I 752)
Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)
ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-19-1
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