EJGS Supplement no. 5, EJGS 5/2007
Archivio Manzotti

Levinus Detail

Descrizione per alternative e descrizione commentata. Su alcuni procedimenti caratteristici della scrittura gaddiana

Emilio Manzotti

0. Un cenno introduttivo

è stato osservato, (1) sulla scorta di un passo sovente citato de I viaggi lo morte – «cose, oggetti, eventi, non mi valgono per sé, chiusi nell’involucro di una loro pelle individua […]: mi valgono in una aspettazione, in un’attesa di ciò che seguirà, o in un richiamo di quanto li ha preceduti e determinati» (SGF I 629) –, che la rappresentazione tende in Gadda ad una sorta di diacronia, di storicizzazione del dato, sovrapponendo cioè alla contingenza del presente caratteristiche del passato ed ipotetici sviluppi futuri. Il presente dell’oggetto o evento, nella rappresentazione, appare ad un tempo pesante del suo passato e gravido del suo futuro. I frammenti del reale, più che contingenze circoscritte, sono momenti di un divenire, «pause di una deformazione in atto». (2)

Così, nel marzo romano del Pasticciaccio (RR II 264) gli alberi ai bordi d’una via sono colti, come è accaduto di dire, (3) in un loro momento climaterico, di transizione tra il passato dell’inverno, che non è più, e il futuro del risveglio della primavera, che non è ancora:

I platani e i rami della Merulana furon selva, allo svoltare, intrico, per lo sguardo, sul discendere parallelo dei fili, di cui si alimentavano i tramme: ancora scheletriti nel marzo, con di già un languore in pelle in pelle, tuttavia, na specie de prurito per entro la chiarità lieta e stradale della. lor córtica, fatta di scaglie e di pezze ecc.

I qualificativi iscrivono dunque nel presente – segnalate dagli avverbi simmetrici ancora e di già – vistose tracce del passato e sottili anticipazioni del futuro.

Qualcosa di analogo accadrà (e stavolta con diacronia microscopica, affidata all’aggettivo) in un passo di Cugino barbiere, il primo racconto degli Accoppiamenti (RR II 599), per le lattughe a cui finge di accudire la curiosità delle vicine di Zoraide: (4)

Zoraide aprì finalmente ed uscì lei sul terrazzino, decisa. Sui terrazzini da lato e di fronte, nel sole tepido, c’erano già per qualche loro occorrenza altre diciassette donne, quale appoggiata alla ringhiera e quale in sulla porta come per entrare od uscirne, e quale con un rugginoso coltello dal defunto manico a rimestare dentro vasi o cassette di probabili lattughe o di garofani: intenzionata poi a dacquarli, tanto per concludere.

Il primo polo dell’alternativa binaria lattughe/garofani (essa stessa inserita in una partizione ternaria delle diciassette donne: quale… e quale… e quale) è qualificato di probabile: sono lattughe, se Dio vuole, future, mentre lo strumento dell’orticultura domestica è un coltello dal manico defunto: dotato cioè di consistenza solo storica.

Come è noto, in una simile compresenza di momenti diacronicamente distinti si manifesta una tendenza più generale della scrittura gaddiana alla metonimia infinita, (5) a ciò che potremmo chiamare altrimenti il caleidoscopio rappresentativo: vale a dire una tendenza a rifrangere il tutto nella singola entità, ad avvolgerla di quella rete di associazioni, che in una concezione relazionale ne costituisce l’identità. Si può aggiungere che il principio ha corollari non banali anche sul piano narrativo, in particolare nell’aprospettivismo, in quell’assenza almeno apparente di una gerarchia tra le tessere del discorso narrativo che era stata acutamente osservata da Pietro Citati a proposito della ripresa in volume della Cognizione.

Qui, mi propongo ora di aggiungere ai modi del caleidoscopio gaddiano due manifestazioni che sino ad ora, a mia conoscenza almeno, sono state passate sotto silenzio. Limitandomi all’ambito della descrizione in senso stretto, individuerò due procedimenti rappresentativi ricorrenti del tutto caratteristici dell’autore: i) la descrizione per alternative e ii) la descrizione commentata. Di entrambe analizzerò in dettaglio un breve campione estratto dalla stessa opera, la Cognizione del dolore. I risultati cui si giungerà sono comunque validi più in generale entro tutta la produzione letteraria – e giornalistica – dell’autore, così come, al di là della descrizione, per la rappresentazione di azioni, di processi e di situazioni.

i) La descrizione per alternative coglie aspetti diversi del rappresentato al variare di determinati dimensioni e parametri. Se, come nel caso che discuteremo, il rappresentato è un sentiero, e se si privilegia, tra le possibili, la dimensione del percorrere, si otterranno allora di volta in volta nuove predicazioni introducendo e variando parametri come a) il mezzo di locomozione, b) il verso, c) la frequenza del percorso, d) il sesso dei viandanti, e) la loro professione o statuto sociale, e così via. Si genera così non una descrizione finita, o statica, contingente, ma una sommatoria, una pluralità di descrizioni, una sorta di descrizione potenziale, passibile di tutta una serie di concretizzazioni possibili. La descrizione, in altri termini, viene condotta per alternative, cioè mediante varianti, casi, manifestazioni tra di loro complementari. La loro stessa abbondanza e varietà, assieme alla sovrapposizione e allo scontro dei diversi parametri, apre per di più la via al gioco compositivo tipicamente gaddiano tra i poli dell’ordine e del disordine, della meticolosa elencazione per genere e differenza specifica da una parte, e della combinatoria caotica dall’altra.

ii) La descrizione commentata è dal canto suo una descrizione a fasce disomogenee quanto al tipo o livello testuale: più specificamente, e in termini elementari, una descrizione che per così dire include al suo interno il proprio commento. Essa mostra cioè salti di livello rappresentativo, alternando a notazioni contingenti inserti – apparentemente digressivi – di un livello di generalità nettamente superiore che commentano, giustificano, generalizzano, ecc. le notazioni del primo livello. Questo controcanto della descrizione induce, tra gli altri effetti, un rallentamento sensibile della velocità descrittiva, e soprattutto relativizza o addirittura smentisce la rilevanza narrativa delle notazioni singole.

Sarà comunque opportuno tenere presente, nel corso delle analisi specifiche che seguiranno, che i tipi descrittivi i) e ii) non si presentano quasi mai allo stato puro, come unico procedimento organizzativo di una descrizione: ad entrambi – spesso del resto combinati – si sovrappongono in genere, mascherandone la tipicità, le usuali tecniche gaddiane di disarmonia già individuate e più o meno estesamente descritte dalla critica, come ad esempio la deriva tematica per catene di anadiplosi, l’allentamento progressivo dei legami sintattici, la sproporzione dei membri di un parallelismo, il mutamento o la moltiplicazione dei criteri distintivi tra membri successivi di una opposizione, e così via. Su alcune di queste tecniche si tornerà brevemente, all’occasione, nei paragrafi che seguono.

1. La descrizione per alternative

Occupiamoci in primo luogo della descrizione che abbiamo definito per alternative, e facciamolo ragionando su un singolo caso, quello, cui si è alluso sopra, della descrizione di una strada o sentiero. La nostra scelta non è casuale, se si pensa al fatto che per Gadda le strade, come i palazzi (quello dell’Incendio, in particolare), sono un concentrato di vie alla Perec, sedi privilegiate del «pandemonio della vita» (SGF I 45), veri e propri generatori, attraverso le possibilità del caso, di combinatorie inedite. La scelta, poi, come tutte le scelte, presuppone tutto un paradigma di descrizioni, che non solo esiste, ma è estremamente esteso. Al lettore di Gadda, una volta che si sia indirizzata al fenomeno la sua attenzione, sembrerà di non incontrare altro, pagina dopo pagina. Qui basterà addurre un paio di campioni – ma non si trascurerà il passo degli Accoppiamenti riportato sopra, in cui l’anafora di «quale» introduceva in un insieme compatto per motivazioni (la curiosità) tre alternative di comportamento fittizio. Il primo campione è tratto da Mercato di frutta e verdura, nelle Meraviglie d’Italia (SGF I 43). Ivi, biciclette, «aggruppate a quindici a quindici come dei muli all’addiaccio», che «paiono non altro attendere se non i robusti galloni ed i glùtei saluberrimi del proprietario»:

il quale, ammantellato e baffuto, le riconduca alla nativa cassina. Fendendo col naso la nebbia, dove si sperde, al passare, ogni salice dopo il compagno. O nel sereno splendore della primavera, dimesso il mantello, avvistando dietro i filari de’ pioppi un campanile, poi l’altro, poi l’ultimo: capisaldi trigonometrici (per i redattori del catasto e dei mappali di base) sopra il rinverdire di ogni pioppo.

La seconda delle due modalità gerundive (Fendendo…, avvistando…) è collocata in periodo indipendente e prolungata dall’apposizione riassuntiva (dei vari campanili) capisaldi trigonometrici, una realizzazione particolare della progressione tematica lineare per anadiplosi. (6) Nello stesso scritto (SGF I 44), in maniera più appariscente, con elaborata gerarchia delle alternative apparentemente allineate:

… tra le infinite carrette vagano pochissime ombre, le tuniche semoventi di alcuni conduttori: sàgome allampanate d’un color piombo o marrone scuro. Tra il Goya e il Magnasco, con un[a] flanella cinerea che gli infagotta il collo e la gola tossicolosa, col naso che gócciola: o sono invece dei gobbetti membruti, e trascineranno il loro carretto ai mercatini lontani lamentando a scatti, con urli ritmati, e per quanto duri tutto il tragitto, i rinviliti prezzi dell’üga bell’üga; o dei nani, i quali, fermi a un cantone con il negozio, ti guardano: e nell’adunca mano sorreggono un pomo da poterlo lustrare di gómito: o hanno una spazzola-caravella, da spazzolare, ai primi di agosto, la prima pubertà della pesca agostana.

Vi sono anche casi, in questa tendenza ad esaurire i possibili, di alternative che male si integrano al contesto. L’aut aut sembra allora una forma a priori del pensiero, sovrimposto come stampo percettivo alla realtà descritta, a prescindere dalla sua costituzione intrinseca. È quel che accade ad esempio in uno degli scritti raccolti ne Gli anni, e cioè Terra lombarda. Si legga prestando attenzione ai segnali di alternativa – in maiuscoletto tondo – ed alle predicazioni contrapposte (sottolineate):

Ricordo che gli uomini camminavano. […] Il contadino dalle scarpe grevi e chiodate percorreva gravemente la strada campestre: taciturno […]. Tra due siepi di spino o due file di salci o d’alti pioppi, quando il fosso adacquatore lungheggiasse, col suo docile filo, il consueto andare della polvere. La chiarità dell’estate si infarinava di bianche miglia, in cima alle quali erano le cose necessarie e solenni, la compera, la vendita, la pluralità degli esseri addobbata de’ suoi scuri panni, la silente preghiera, la Messa cantata: da tutti. O, dopo lungo pensiero, il disco del sole si tuffava negli ori e nei carmini, dietro scheletri d’alberi, come in una pozzanghera di liquefatto metallo. Ma la cimasa delle pioppaie veniva celandone l’estrema dipartita: solo, qualche frustolo d’oro, o una goccia, di quel fuoco lontano, durava a persistere nell’intrico nero delle ramaglie. | D’estate, invece, il popolo dei pioppi, unanime, trascolorava nella sera: le raganelle, dai fossi, dalle risaie, sgranavano dentro il silenzio il dolce monile della sera: con un cauto singhiozzo la rana, per più lenti intervalli, salutava lo zaffiro della stella Espero, tacitamente splendida. S’era affacciata alla ringhiera dei pioppi. (SGF I 211-12)

Prescindendo dalle alternative minori, subordinate, nel primo paragrafo la differentia specifica tra i due poli dell’alternativa è ricostruibile a prima vista come quella tra due momenti di una giornata estiva: l’ora meridiana (chiarità dell’estate) contrapponendosi al tramonto. Ma gli scheletri d’alberi e l’intrico nero delle ramaglie impongono immediatamente un secondo fattore di variazione, e cioè la stagione: estate vs inverno. Senonché, immediatamente dopo, nel paragrafo che segue, un inatteso invece riintroduce quasi ex-novo la stagione estiva tenendo tuttavia costante l’ora. Lo schema oppositivo delle alternanze è insomma riassumibile come:

{GIORNO + ESTATE} «{SERA + INVERNO} «{SERA + ESTATE}

schema di circolarità almeno parziale, uno dei cui effetti è di introdurre nella descrizione una idea di completezza, di esaustione delle manifestazioni del reale.

Il passo su cui ora minutamente ci soffermeremo presenta una architettura logica complessa che, specie nel secondo paragrafo, si basa in maniera essenziale sulle possibilità combinatorie offerte dalla concatenazione di alternative. Il passo proviene da uno dei vertici lirici della Cognizione del dolore, la sezione finale del settimo «tratto» (il terzo della seconda parte, il tratto che chiudeva la prima redazione di Letteratura e la prima stampa in volume del ’63). Si tratta della minuziosa descrizione del sentiero di campagna che corre lungo un lato della proprietà dei Pirobutirro, una descrizione (il cui archetipo a ben guardare è già nel Racconto italiano) (7) sommariamente abbozzata nella prima parte della Cognizione durante il colloquio tra Gonzalo e il medico («[Il muro] Veniva in discesa dal cancelletto di ferro, secondando come poteva la cataratta esterna della stradaccia e l’abrivio interno, più dolce, del piccolo viale o sentiero che lo lungheggiava. […] La strada esterna franava, con grossi ciòttoli, ossia scheggioni aguzzi e “bocce”, perdeva quota più rapidamente» (8) e ripresa poi come vedremo più estesamente una terza volta nell’ultimo tratto (Gadda 1987a: 442-47). Si legga:

Di là dal muretto, una stradaccia. Ghiaiosa, a forte pendenza, con lùnule di piatti infranti, o d’una scodella, tra i ciòttoli, od oblio d’un rugginoso baràttolo, vuotato, beninteso, dell’antica salsa o mostarda: tratto tratto anche, sotto il livido metallo d’un paio di mosconi ebbri, l’onta estrusa dall’Adamo, l’arrotolata turpitudine: stavolta per davvero sì d’un qualche guirlache de almendras, ma di quelli!…. da pesarli in bilancia, diavolo maiale, per veder cosa pesano; parvenze, d’altronde, che la magnanimità del nostro apparato sensorio, aiutata da onorevole addobbo di circostanze, non può far altro, in verità, se non fingere di non aver percepito.
Percorsa da pedoni radi, la strada: e talora, in discesa, da qualche ciclista di campagna con bicicletta-mulo; o risalita dal procaccia impavido, arrancante sotto pioggia o stravento, o zoppicata non si sa in che verso da alcuni mendichi ebdomadari, maschi e femmine, cenciose apparizioni nella gran luce del nulla. Vaporando l’autunno, vi sfringuellàvano battute di ragazzi birbi, a piè nudi, en busca de higos y de ciruelas, che arrivano a divinare per telepatia di là d’ogni chiuso: d’orto (salvo l’orto del prete) o di signorile giardino. Vi si avventurava pure, col settembre, qualche puttanona d’automobile sfiancata dagli strapazzi, dagli anni, imbarcando magari tutta una famiglia gitante, con due litri di pipì a testa in serbo per la prima fermata, pupi e pupe, e il chioccione di dietro, sparapanzato a poppa, che soffocava con la patria potestà del deretano i due fili d’erba delle due figliolette maggiori. Pareva che una Meccanica latrice di prosciutti si avventasse contro l’assurdo, ruggendo, strombazzando, schioppando, sparando sassi da sotto le gomme, lacerando coi ruggiti del motore e con gli strilli de’ suoi sbatacchiati Argonauti-donne il tenue ragnatelo di ogni filosofia. (Gadda 1987a: 380-82)

Graficamente, la descrizione appare articolata in due momenti-paragrafi, i cui incipit esibiscono in parallelo fenomeni identici: l’ellissi del verbo (un esistenziale «v’era», prima, e l’ausiliare del passivo, poi) e soprattutto la dislocazione a destra del soggetto, una movenza stilistica, come aveva rilevato Terracini, cara – oltre che a Pirandello – alla prosa lirica dell’inizio del secolo. Dei due momenti, il primo enumera aspetti intrinseci del referente (tratteggiandone cioè una sorta di geografia fisica, nella quale la presenza dell’uomo è tuttavia già invadente), il secondo i modi di utilizzazione – la geografia umana, insomma: della strada in quanto fruita da specie diverse di passanti. Qualche parola sul primo momento, per poi concentrare la nostra attenzione sul secondo.

Dopo l’apertura su di una frase segmentata che pone il tema descrittivo (e lo colloca spazialmente, e lo valuta spregiativamente: (9) stradaccia), il primo momento si compone, schematicamente, di un elenco ternario di qualificativi: di tre predicazioni giustapposte del tema descrittivo, una aggettivale, una avverbiale e una preposizionale complessa (costituita cioè da una coordinazione di sintagmi preposizionali):

image

Siamo dunque, sembrerebbe, entro la più classica sintassi del tipo testuale descrizione: ad una frase esistenziale introduttiva tien dietro una serie di predicazioni. La usuale sintassi descrittiva, appare tuttavia a ben guardare una sorta di pretesto o, meglio, di utile punto di partenza per operazioni che ne sollecitano in modi diversi la leggibilità. In particolare ciò avviene mediante lo squilibrio indotto dalle dimensioni dell’ultima predicazione (con lunule…). Questa, di complessità e lunghezza decisamente superiore alle precedenti, e provvista di due code digressive ruvidamente dissonanti, contiene in effetti di nuovo una coordinazione ternaria a elemento finale sbilanciante, il cui primo elemento è a sua volta binario nella specificazione (di piatti infranti/d’una scodella). Lo schema disgiuntivo risultante è dunque rappresentabile come segue:

image

Particolarmente notevole, nello schema disgiuntivo, è che i suoi diversi elementi sono sottoposti ad una extra-ordinaria elaborazione sintattica e semantica, il cui preziosismo contrasta e redime l’insignificanza, la grevità del dato. Un virtuosismo, sia detto di passaggio, che le traduzioni tendono tutte più o meno, senza alcuna ragione linguistica, ad escamoter. (10) Tenendoci al «nudo referto», a prescindere cioè dalla sovraimposta elaborazione, i tre referenti nominati e localizzati «tra i ciottoli» (l’ultimo «tratto tratto», cioè: a intervalli, con presenza quindi iterata) non sono che parvenze insignificanti o sgradevoli: nell’ordine, i) schegge di piatti o scodelle; ii) un barattolo vuoto (uno o forse più, per attrazione degli altri plurali); e infine, iii) delle deiezioni. Ma, per cominciare, Gadda, come il Dio platonico, geometrizza: geometrizza la realtà umile ed informe delle schegge di piatto, rappresentate come istanze della nobile figura, delimitata da due archi di circonferenza, che risponde al nome di lùnula. Una figura geometrica, si noterà, singolarmente cara all’autore, che la recupera, dal passato remoto del Racconto italiano («quelle caratteristiche lùnule di terraglia» – cfr. n. 7), altre due volte nella Cognizione: oltre che per le occhiaie del medico (Gadda 1987a: 468, «le occhiaie gonfie, a lùnula»), proprio nella descrizione (a cui si è già accennato) della stessa strada una cinquantina di pagine dopo (Gadda 1987a: 443); in altre due occorrenze fuori della Cognizione il termine è anzi provvisto di una glossa erudita: in Crociera mediterranea (CdU RRI 216 n. 57):

Lùnula, detta di Ippocrate, è la porzione del piano definita da un arco di circonferenza e dalla semicirconferenza che curerai tracciare prendendo a diametro la corda di quello. Questa figura è quadrabile (per comparazione e diffalco) senza il sussidio del calcolo integrale. E la sua quadratura occupò anche Leonardo nel «De ludo geometrico»;

e nell’Adalgisa (RR I 319, e 340, n. 26), dove il termine è ancora associato a dei piatti («aveva ridotto in lùnule una trentacinquina di piatti»):

Lùnula è la superficie piana definita da un arco di circonferenza e dalla semicirconferenza costruita sulla corda di quello, assunta per diametro. (Teorema di Ippocrate sulle lùnule del triangolo retto).

Proseguendo nella stessa linea, pur con mutamento di registro stilistico (dal tecnico-scientifico al poetico), il «barattolo», la seconda parvenza umile della stradaccia, è presentato obliquamente attraverso l’ipostatizzazione di una sua contingenza storica e presente: l’essere stato abbandonato, o il giacere, ora, in desolato abbandono: «oblìo» (nella traduzione francese prosaicamente à l’abandon), con calligrafico accento antidittongo. Violenta macchia di letterarietà simbolista subito contraddetta dal clin d’œil del «beninteso» applicato ad una notazione idiota (ma si ponga attenzione all’alternativa di «antica salsa o mostarda»), la sostantivazione della qualità introduce per di più nella descrizione le armoniche della memoria poetica. «Oblìo» sembra, come credo, alludere con oltranza caricaturale ad un precedente impiego pascoliano già per suo conto relativamente sollecitato, nel primo verso del componimento miriceo Nella macchia:

Errai nell’oblio della valle
tra ciuffi di stipe fiorite,
tra querce rigonfie di galle.

Non diversamente, infine, la terza parvenza è (da prima) designata da una circonlocuzione estraniante imperniata sull’astratto «onta» (una cui occorrenza è già alla fine del tratto iniziale, alle pp. 102-03: «Onta, per lui, e rammarico immedicabile…»): «l’onta estrusa dall’Adamo», con sintassi simbolista omologa a quella di «oblìo» ed estesa del resto anche al circostanziale anteposto: «sotto il livido metallo d’un paio di mosconi ebbri». (11) La designazione è quindi subito dopo ripresa da un’apposizione di nuovo impressionisticamente perifrastica: «l’arrotolata turpitudine». Come per «oblìo», nell’«onta» è quasi d’obbligo leggere un’allusione letteraria, e nella fattispecie dannunziana, a quell’Elettra che Gadda si vantava di conoscere – tutta – a memoria: intendo la giuntura inarcata di A Roma, vv. 186-87: «di contro all’Onta | dell’Uomo» (dove l’Onta è contrapposta alla Potenza), specie se si pensa che nel sintagma gaddiano «l’onta estrusa dall’Adamo» l’articolo davanti ad Adamo ravviva (12) l’etimologico uomo (ebr. adham). Altre sorprese riserva ancora l’elaborazione. Dopo la ripresa apposizionale di cui s’è detto («l’arrotolata turpitudine»), i due punti introducono un sibillino e triviale sviluppo esplicativo sull’origine delle merde: dovute ad indigestione di torrone di mandorle (13) (in spagnolo «guirlache de almendras»), vero torrone questo (cfr. «stavolta sì»), e non figurato come le «schegge di bottiglia» del paragrafo precedente. Ma contemporaneamente, esse merde metaforicamente sono un torrone di mandorle, allo stesso modo di quelle – mandorlatepiantate da altri ragazzi birbi sulle milanesi rovine dei fortilizi spagnoli (rovine, si badi, «sgretolate come torroni secchi»!) in Gadda 1987a: 406; e in sorprendente analogia metonimica con certi «frantumi di tegoli» che nell’archetipo descrittivo del Racconto italiano un viandante della stradaccia rimuoveva con un suo bastoncello. (14) Segue quindi, avviata da una nuova apposizione («parvenze»), la quale generalizza a partire dalle contingenti turpitudini della stradaccia, un commento finale di tono psicologico-filosofico jamesianamente astratto: lontanissimo dal tono dello sviluppo cui è agganciato.

Costruito su di un traliccio semplice e simmetrico, il primo paragrafo diventa dunque difficilmente fruibile in quanto descrizione. Inevitabilmente, l’accumulo di ornato e di informazioni collaterali mascherano gli elementi di struttura. Il confronto con la diversa esecuzione che dell’immagine della stradaccia viene dato alla metà circa del IX e ultimo tratto (Gadda 1987a: 443-47) è significativo. Lo schema di questa descrizione B è molto prossimo allo schema della nostra descrizione (che chiameremo per comodità A): fuse le prime due qualificazioni («Ghiaiosa, a forte pendenza») nel predicato è una cateratta di pietrisco e ciottoli, la terza ricompare nel suo formato preposizionale (dall’avvio identico: «con lùnule di piatti»), acquistando anzi per via un ulteriore quarto congiunto («uno o due spazzolini ecc.»):

Un sentierino lo taglia quel campo [= «un breve campo di banzavóis»] e immette sulla civica strada, già descritta, che costeggia il già descritto muro dei susini: questo ente civico, designato nei mappali catastali come «Civica strada alla costa», dove lambisce il muriccio dei susini è una specie di cateratta di pietrisco e ciottoli grossi come bocce, e alcuni anzi come cocomeri, ma molto più duri, con lùnule di piatti rotti e fondi di bicchieri e bottiglie assai taglienti, qualche barattolo vuoto, diverse merde di colore e consistenza diversa, e uno o due spazzolini frusti da denti, abbandonati al destino delle cose fruste, beninteso.
Nessuno mai vi transitava la notte, perché la stradaccia, che in definitiva e dopo assai rigiri e sassi e guizzi di lucertoloni dai roveti, discende a Lukones, non congiunge in modo diretto dei centri abitati. Disserve solo qualche campicello di banzavóis macilento e le ville con mutria di Svizzera, occupate ecc.

Nessuno dunque passava da quella strada nelle ore mute della notte: o forse, talvolta, con la bicicletta senza fanale, il Palumbo, che doveva infilare il bigliettino in una qualche punta de’ cancelli, una villa sì e una no.

Malgrado la presenza che anche stavolta è relativamente invadente di note divaganti condotte nella tonalità del naïf umoristico (15) (intendo in particolare la comparazione e la correzione di «come cocomeri, ma molto più duri», il recupero di «beninteso» e il gioco un po’ vieto su «fruste»), la descrizione appare qui più leggibile – anche se ad un tempo nettamente più banale. La sua referenzialità non è, tutto sommato, intaccata dalla sovrapposizione di un registro divergente. Umorismo (di non alto volo) e contaminazione di ingredienti eterogenei (ad esempio lo scolastico «assai» che incrementa «taglienti», assieme alla sprezzatura di «diverse merde») non conducono il lettore molto lontano dalla tradizionale sintassi descrittiva dell’elenco. Il lettore avvertito della Cognizione ricorderà che il livello elaborativo degli ultimi due tratti è quello di una redazione anteriore semplicemente giustapposta, per comprensibili esigenze editoriali di completezza, alla redazione dei tratti che precedono. In Letteratura e nella prima edizione dei «Supercoralli» einaudiani, la Cognizione si concludeva proprio con il tratto contenente il passo che analizziamo, una pagina dopo di esso. Nella descrizione A, invece, la maggiore cura elaborativa conduce all’esplosione delle singole unità descrittive in direzioni autonome: autonome per stile e per procedimenti elaborativi. Una componente non trascurabile di tale autonomia sembra anzi essere proprio la diversa connessione delle unità, che nella versione meno elaborata B è di tipo congiuntivo, mentre nella più elaborata A è di tipo alternativo.

Si venga ora al secondo paragrafo, in cui come già si era accennato trova espressione la geografia umana. Prima «ghiaiosa, a forte pendenza», ecc., la strada è ora «percorsa», «risalita», «zoppicata», ecc.; e ciò da una molteplicità di utenti, (16) quasi in antitesi (come per certe altre coppie tutti/nessuno della Cognizione) al «Nessuno mai vi transitava […] la notte» della versione B, che patisce solo l’ipotetica, ma carica di significato, eccezione del Manganones in bicicletta: «Nessuno dunque passava da quella strada nelle ore mute della notte: o forse, talvolta, con la bicicletta senza fanale ecc.»). Ma l’isolato sentiero campestre che conduce alla villa dei Pirobutirro – vero e proprio cordone ombelicale che l’allaccia al mondo esterno – appare narrativamente animato anche prima, anche al di fuori della nostra descrizione. In breve ora il lettore vi trova da prima, in salita, il medico, pedone, ma potenziale ciclista: (17) «Tentava, il buon medico, i primi ciottoli della postrema sassonia: una stradaccia affossata nei due muri y por suerte nelle ombre delle robinie e d’alcuni olmi, per l’ultima pazienza de’ suoi piedi eroici»; (18) vi trova la «Battistina in discesa» (p. 116), che ha col medico sul sentiero una lunga conversazione; quindi la stessa madre di Gonzalo, discesa («con queste strade!») al cimitero; (19) ancora, il «nipotino del Di Pascuale» (pp. 163-64) e poco dopo il Manganones in bicicletta, che sale e ridiscende. (20) Di tutta questa agitazione il passo che analizziamo è dunque una sorta di compendio generalizzante.

Ora, la prima qualificazione della «stradaccia» nel secondo paragrafo è che essa è semplicemente – con un verbo anodino, neutro in particolare rispetto al mezzo utilizzato – «percorsa»: percorsa da non meglio individuati «pedoni» (dunque percorsa a piedi) e con ridotta frequenza: «radi». A questa prima molto generale nota descrittiva viene aggiunto per coordinazione (si badi: con la «e») un raddoppiamento del complemento d’agente [= «e […] da qualche ciclista di campagna con bicicletta-mulo»]. Esso, come spesso accade in Gadda, risulta (grazie alla morfologia di qualche e allo spostamento del quantificatore da aggettivo – radi – ad avverbio: talora) più singolarizzante, più puntuale rispetto al precedente. La sua differentia specifica consiste (oltre che nelle molte variazioni della realizzazione linguistica) nella scelta del mezzo (la bicicletta, (21) contrapposta all’assenza di mezzo) e nella specificazione, anch’essa prima assente, del verso di percorrenza: «in discesa» (converrà inoltre, di passaggio, richiamare l’attenzione del lettore sull’avverbio talora, una sorta di firma stilistica dell’autore, strumento d’elezione per inserire eventi singoli in una consuetudine, e viceversa per variarne la fissità: per descrivere insomma ciò che è contingente sullo sfondo d’un paradigma di alternative). (22)

L’inizio di paragrafo appare allora dominato dal verbo di movimento in posizione iniziale, espanso da una coppia, che chiameremo a e b, di complementi coordinati, cumulati. Con la disgiunzione «o», lo sviluppo che segue [= c] introduce una alternativa (singolare) rispetto a b e ad a: a percorrere la stradaccia è ora il «procaccia» [= postino], in luogo dei ciclisti di campagna e dei pedoni.

Ma contemporaneamente, dato che il verbo «risalita» incorpora il verso che prima era espresso avverbialmente [= «in discesa»], c vale anche come alternativa al verbo «percorsa»di a, che non è più semplicemente sottinteso come in b. c dunque si aggancia ad un tempo a b e, a livello superiore, ad a, o meglio all’unità formata da a e b. La variazione, nel passaggio da b a c è del resto plurima, e non solo binaria: oltre all’agente i) e al verso ii), mutano cardinalità iii) e definitezza iv) degli agenti; e ancora v) la loro frequenza (talora verso l’assenza di indicazioni); vi) il mezzo: la bicicletta verso un (inducibile) a piedi; e vii) la modalità: l’assenza di modalità (a meno di leggerne una in «bicicletta-mulo») verso una loro specificazione gerundiva («arrancante ecc.»). L’alternativa apparentemente semplice fondata su una opposizione binaria si rivela insomma un ircocervo di opposizioni eterogenee. Con chiusa classicamente in crescendo, lo sviluppo finale di periodo [= d] moltiplica gli elementi differenziali (di nuovo, come in b, un plurale, di nuovo la menzione della frequenza, e così via). In particolare esso integra nel verbo, da cui per compenso viene estratta la componente direzionale, la modalità che prima era esterna: «zoppicata»; e il verso così estratto è dichiarato non noto («non si sa in che verso»). Una apposizione ermeticamente simbolista riformula infine la descrizione dell’agente («cenciose apparizioni nella gran luce del nulla»).

Il complesso sistema di permanenze e variazioni della prima parte del paragrafo può essere schematicamente visualizzato nella tavola che segue:

verbo di moto frequenza verso modo agente numero mezzo
percorsa - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - da pedoni radi (a piedi – ma integrato nella designazione dell’agente)
[percorsa] talora in discesa (espresso nella giustapposizione
bicicletta – mulo)
(qualche) ciclista di campagna qualche in bicicletta
risalita
(include il verso)
- - - - - - - - - (in salita
ma integrato al verbo)
arrancante sotto pioggia ecc. il procaccia impavido uno (a piedi – ma non esplicitato)
Zoppicata (include modo e mezzo) ebdomadarî non si sa in che verso (lo zoppicarema integrato al verbo) mendichi alcuni (a piedi – ma integrato al verbo)

Un modulo sintattico semplice di participio + complemento d’agente + soggetto dislocato fornisce dunque ad inizio di paragrafo la trama di un processo iterativo a complessità crescente, entro il quale i singoli fotogrammi della stradaccia acquistano progressivamente d’autonomia. La descrizione appare cioè eseguita da prospettive diverse, costruita per giustapposizione e sommatoria di tessere indipendenti.

L’autonomia delle immagini componenti diviene anche sintattica nella seconda parte del paragrafo, in cui compaiono due elaborati tableaux (d ed e) di battute e di gite campestri, introdotti ora dai predicati «vi sfringuellavano» e «Vi si avventurava». Nel primo – una immagine di felice libertà brada (come in Gadda 1987a: 426: «Mentre molti poveri esseri vagabondavano soli, o a branchi, nei prati, laceri, allegri, con via il culo dei calzoni ecc.») – ipotizzerei più che il vociare, cicalare registrato dai lessici, e a mio avviso incongruo al contesto, il valore di muoversi a stormo, di luogo in luogo, come fringuelli, integrante cioè la modalità del movimento. Ma l’aspetto più rilevante del nuovo sviluppo non è tanto nella neologia verbale, (23) o nella macchia spagnola di «en busca de higos y de ciruelas», in cerca di fichi e di susine, quanto nel gerundio di «Vaporando l’autunno», che accresce d’un ulteriore fattore di variazione – la stagione – la serie precedente. Un fattore conservato e specificato [= «col settembre»] nello sviluppo conclusivo. Tale sviluppo è esso stesso una descrizione completa articolata in due momenti, il secondo analogico, almeno nell’avvio («Pareva») se non negli ultimi gerundi della serie, (24) e il primo referenziale, ma con una estesa modalità («imbarcando magari tutta una famiglia gitante ecc.») che isola di nuovo un ipotetico episodio alternativo. (25) La chiusa riporta l’excursus descrittivo al particulare del protagonista del romanzo, distolto nel suo rifugio dai nobili ozi che il silenzio propizia.

Il secondo paragrafo, in conclusione, come del resto in una certa misura con le sue focalizzazioni di segmenti diversi anche il primo, fornisce della strada non una descrizione nel senso usuale della parola: cioè una rappresentazione della contingenza di una entità o di una situazione. Esso, piuttosto, fornisce al lettore ciò che si potrebbe chiamare una sommatoria di contingenze possibili: la giustapposizione di alcuni o molti degli aspetti diversi, tra loro alternativi, di una realtà-caleidoscopio. Fornisce una descrizione per alternative, dunque, che condensa in uno la poliedricità usualmente disgiunta, non concomitante, del reale.

2. La descrizione commentata

Come si era anticipato, la descrizione commentata è una descrizione a fasce disomogenee, che include cioè momenti di livello superiore, di commento metareferenziale quasi, rispetto al normale piano descrittivo: sue giustificazioni, generalizzazioni, ecc. Un simile tipo di descrizione, credo, risponde ad una tendenza ampiamente attestata (e con risultati molto alti) nella scrittura gaddiana: il giustapporre osservazioni puntuali su fatti contingenti alla loro valutazione, a, cioè, una sorta di commento sul dato, o di astrazione a partire da esso. Del resto, l’aspetto speculativo, dominante in certa parte dell’opera di Gadda, non è mai del tutto assente, esplicito o implicito che sia, nella parte più dichiaratamente narrativa, e può, come nel Pasticciaccio e nella Cognizione, raggiungere dimensioni importanti. Continue escursioni, insomma, a partire dalla contingenza verso un piano rappresentativo di maggiore generalità, e successivi bruschi ritorni al precedente livello di rappresentazione. Una tale tendenza, che parrebbe connaturata ad un metodo di lavoro consistente, se si presta fede alle parole dell’autore, nel sottoporre una idea poetica a «molte iniezioni di letture classiche», (26) sembra rispondere in Gadda – per nominare alcune delle cause – ad una incapacità di principio di limitarsi al singolo filo, alla singola voce; o, positivamente, ad una esigenza profonda di polifonia, di paradigmatizzazione del dato singolo (donde la pluralità di prospettive) secondo un’ottica tacitiana di storico e di moralista (donde il tipo della pluralità). Ne risulta appunto una rappresentazione a livelli innestati, uno dei quali è spesso quello della massima, dell’apoftegma. Si pensi, per un esempio appartenente al catalogo delle crudeltà di Gonzalo, (27) al noto paragrafo del gatto cadente, del gatto precipitato per fini conoscitivi (so to speak) o per pulsioni sadiche dal secondo piano della villa – (un passo che ha attirato l’attenzione di Pasolini critico e che trova, oltre che ovviamente nei molto meditati Karamazov, un sorprendente per quanto fortuito corrispettivo nel Woyzeck di Büchner). (28) Già di per sé l’atto nelle intenzioni coscienti di Gonzalo non vale in quanto tale, ma solo come funzionalizzato ad un principio generalissimo di meccanica razionale (il teorema dell’impulso o della conservazione della quantità di moto: l’impulso della forza è eguale alla variazione della quantità di moto), di cui intende controllare una applicazione specifica. Ma, oltre a ciò, il paragrafo è suggellato da un secondo principio formulato a modo di massima («Perché ecc.»), isolato per maggior forza in un periodo indipendente: «Poiché ogni oltraggio è morte»: formula che coglie una ulteriore astrazione inducibile dal fatto concreto, relativa stavolta alla meccanica morale dei protagonisti, umani o animali, della Cognizione o della vita, e di tale evidenza intuitiva da non necessitare – essa – verifica alcuna.

Ma, per tornare al caso particolare della descrizione commentata, rivolgeremo ora minutamente la nostra attenzione all’apertura del secondo tratto della prima parte della Cognizione, un campione caratteristico di prosa gaddiana fortemente scritta, semanticamente concentrata:

Al passar della nuvola, il carpino tacque. È compagno all’olmo, e nella Néa Keltiké lo potano senza remissione fino a crescerne altrettanti pali con il turbante, lungo i sentieri e la polvere: di grezza scorza, e così denudati di ramo, han foglie misere e fruste, quasi lacere, che buttano su quei nodi d’in cima. La robinia tacque, senza nobiltà di carme, ignota al fuggitivo pavore delle Driadi, come alla fistola dell’antico bicorne: radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dell’Australasia e subito fronzuta e pungente alla tutela dei broli, al sostegno delle ripe. Fu per le cure d’un agrònomo che speculava il progresso e ne diede sicuro il presagio, vaticinando la fine alle querci, agli olmi, o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi. Dei quali non favolosi giganti, verso la fine ancora del decimottavo secolo, era oro e porpora sotto ai cieli d’autunno tutta la spalla di là della dolomite di Terepáttola, dove di qua strapiomba, irraggiando, sulla turchese livellazione del fondovalle, che conosciamo essere un lago. La calcina, manco a dirlo, per fabbricare le ville, e i muri di cinta alle ville: coi peri a spalliera. (Gadda 1987a: 111-15)

Inserito nel suo contesto, il passo si configura, malgrado la sua collocazione isolata ad inizio di un «tratto», come stazione descrittiva di una più ampia unità, (29) la promenade a piedi (ma «con bastoncello»: l’attributo, come si era visto a n. 14, che è già d’un viandante del Racconto italiano) di quel personaggio molteplice che è il «buon medico», (30) da Lukones sino alla villa del paziente. «Ripresa descrittiva del paesaggio e satirica», registrava una nota costruttiva (Gadda 1987a: 551). Il procedere del medico, alla stessa stregua di altre azioni durative in altri luoghi, viene riattualizzato ad intervalli regolari (p. 73: «E pensava, andando, quale cattiva stampa ecc.; p. 77: «Il buon dottore, camminando, sentì di dover condividere ecc.»; p. 83: «Andava, preso da queste considerazioni….»; p. 97: «Tentava, il buon medico, i primi ciottoli della postrema sassonia ecc.»; pp. 105-06: «Il buon medico, consumati i peggio dei sassi, era per arrivare al cancello: nella sua mente viva, piena di curiosità e di memoria, ecc.»), in maniera da fornire, assieme alle altrettanto ricorrenti reazioni o commenti del personaggio (come alle pp. 83: «Il medico ridacchiò: gli parve, pensandoci, che ecc.»; p. 84: «“Si mangia troppo!” sentenziò il dottore tra sé e sé ecc.»; o p. 95: «Ridacchiò, il buon dottore, nel figurarsi quella pazza avarizia ecc.»), una solida impalcatura a disordinate (per loro natura) riflessioni. La rappresentazione è dunque articolata in due fasce sovrapposte e parallele: una esterna, elementare, progressiva, ed una mentale, associativa. Questa seconda fascia presenta di nuovo al suo interno scarti regolari di omogeneità: i pensieri del medico, che pure vertono essenzialmente attorno alla figura del paziente, mostrano un andamento alternato, con incrementi ricorrenti di astrazione o generalità del tipo di quelli menzionati sopra. In essi il medico – ma la sua voce è a tratti indistinguibile da quella dell’autore – si abbandona a considerazioni di validità generale, filosofeggia, meditando aforisticamente ad esempio sulle abitudini alimentari (da precoce discepolo, in questo, del Dr. Bircher-Benner) o, con l’accento patetico del moralista, sul destino degli uomini. Trova qui posto, in particolare, il passo giustamente celebrato del «cammino delle generazioni» (Gadda 1987a: 97-98): «Oh! lungo il cammino delle generazioni, la luce!…. che recede, recede…. opaca…. dell’immutato divenire. Ma nei giorni, nelle anime, quale elaborante speranza!…. e l’astratta fede, la pertinace carità. Ogni prassi è un’immagine,…. zendado, impresa, nel vento bandiera…. ecc.».

Il passo in esame, tessera come s’è detto di una più ampia unità organizzata per fasce parallele e sovrapposte, appartiene, con uno statuto complessivo di descrizione di accadimenti naturali (e quindi con dinamismo narrativo estremamente ridotto) alla fascia narrativa bassa del referto cronologico di atti minori (o addirittura della loro riattualizzazione testuale, del loro rinominarli), di atti di rilevanza minima per l’intreccio, e comunque implicati da altri ben altrimenti centrali. Vedremo ora che anche la fascia narrativa bassa, o per lo meno il segmento di cui ci occupiamo, è organizzato, ed in maniera ancora più vistosa, secondo un schema omologo a quello delle escursioni mentali: e cioè per alternanze regolari di puntuale e generico, con andamento sinusoidale quanto alla generalità dei temi toccati e della referenza.

Si noterà, per cominciare, che il nostro passo coglie essenzialmente un silenzio improvviso della campagna, una pausa nella durata «senza termini» (a rigore senza confini spaziali, cioè disteso su tutta la campagna) del canto delle cicale. Le cicale, d’un tratto, (31) tacciono – con un verbo quasi tecnico, nella koiné letteraria, per l’intermettere una attività durativa (basterà ricordare l’adynaton ovidiano di ArsI, 271: «vere prius volucres taceant, aestate cicadae»). A tacere, nella rappresentazione, non sono tanto in realtà le cicale, che non sono nominate in tutto il paragrafo, ma, metonimicamente, gli alberi su cui le cicale sono posate, con cui esse sono tutt’uno (come suggeriva, nella nota costruttiva menzionata sopra, la giustapposizione «carpino-cicala»). Tacciono, anzi, tra tutti, due soli (tipi di) alberi: il carpino e la robinia, e lo fanno, nel testo, ad un periodo di distanza, nel primo e nel terzo, in maniera cioè discontinua malgrado l’isocronia dell’evento.

Rappresentazione cifrata del tacere delle cicale, del farsi silenziosa della campagna, il passo risulta così strettamente imbricato, all’indietro e in avanti, ad ulteriori momenti della promenade: allacciandosi ad una notazione ambientale di pagine prima: «la cicala, sull’olmo senz’ombre [si noti anche qui la coppia di singolari generici], friniva a tutto vapore (32) verso il mezzogiorno, dilatava la immensità chiara dell’estate» (Gadda 1987a: 105) e ripreso e proseguito a sua volta pagine oltre da un’analoga notazione ambientale (stavolta con un plurale):

Le cicale, risveglie, screziavano di fragore le inezie verdi sotto la dovizie di luce, tutto il cielo della estate crepitava di quello stridìo senza termini, nell’unisono d’una vacanza assordante. (Gadda 1987a: 123)

Dunque, successivamente: il canto delle cicale, il suo repentino cessare nel nostro passo, e il successivo riprendere (dove «risveglie» presuppone il doppio «tacque») e perdurare – con le usuali attualizzazioni iterate: ad es. alle pp. 128: «Il toccare delle undici e mezza […] metallo immane sullo stridere di tutte le piante»; p. 129: «Il crepitìo infinito della terra pareva consustanziale alla luce»; p. 143: «la luce della campagna; screziata di quella infinita crepidine»; p. 144: «E le cicale, popolo dell’immenso di fuori, padrone della luce».

Il tacere, o meglio, la vicenda di canto e silenzio, appare sincronizzata nel nostro passo ad un’alternanza di altro ambito percettivo: quella tra luce ed ombra sul paesaggio. (33) Le cicale, «bestie di luce» (Gadda 1987a: 151), (34) ammutoliscono ad ogni ombra che proietti sulla campagna il trascorrere delle nuvole – un trascorrere che è ricorrente (si veda ad es. a p. 146 l’inedito avverbiale di spazio-tempo: «come parlasse tra sé e sé, o tra una nuvola e l’altra»), e che appartiene agli stereotipi percettivi dell’autore, sensibile ad ogni scansione ritmica del tempo e dello spazio (da quella – nella Cognizione e altrove – del «giro breve» del tarlo-cavatappi a quella del «numero di bronzo» «dopo desolati intervalli» (Gadda 1987a: 384), e a quella, negli Anni, (35) della rana, che «per più lenti intervalli» – rispetto alla raganella – saluta con «cauto singhiozzo» lo «zaffiro della stella Espero, tacitamente splendida»). È notevole che questo schema percettivo e rappresentativo fosse già sotteso all’onomastica goliardica dell’inedita Villa in Brianza, anche se allora in maniera (parzialmente) implicita:

Nuvole strane trasvolavano nel torrido cielo, da Bergamo sopra l’Albenza, da Lecco, bel nome lombardo, come anche Menaggio e Chiavenna. I cumuli·enormi si morulavano, come a simboleggiare future tempeste. La cicala immensa, a tratti, taceva e più lontane e remote cicale dicevano malinconiose desolazioni della terra, popolata di brianzoli». [ora Gadda 2001a: 28-29, N.d.C.]

(sottolineati i tratti rilevanti – il «bel nome italico» è ovvio rimando al Carducci delle Odi Barbare, Per la morte di Napoleone Eugenio, v. 33: «Ivi Letizia bel nome italico»).

Linguisticamente, per tornare al nostro passo, la sincronizzazione viene, più che asserita, suggerita dal circostanziale «Al passar della nuvola» (sottinteso nel terzo periodo), che compatta, eliminando il termine proprio intermedio, la troppo esplicita formula della prima redazione a doppio circostanziale: «Nell’intermettere della cicala, trasvolando la nùvola, si tacitò il carpino» (una redazione che, nell’ordine b-a-c, poneva in praesentia il termine proprio b e il figurato c).

Ad ogni passare di nuvola, dunque, cessa lo stridìo delle cicale, e, figuratamente, ammutoliscono gli alberi vocali. Non sfuggirà che il contesto ha condotto ad inserire l’evento singolativo rappresentato nel nostro paragrafo in una serie di accadimenti dello stesso genere (è la tendenza gaddiana, cui si è già accennato a proposito dell’avverbio talora, a collocare costantemente il dato singolo entro la serie dei consimili). Ma importa soprattutto a questo punto rilevare come l’alternanza e sincronizzazione di luci e suoni trovi rispondenza altrove nel testo in una regolarità per così dire speculare e d’importanza capitale per la comprensione della Cognizione. Molte pagine e tratti più oltre (ed esattamente nel tratto VIII, alle pp. 420-23), entro una diversa unità scenica, ma in una simile situazione temporale e psicologica, Gonzalo, sul terrazzo della villa, contempla il passaggio delle nuvole: «Nubi transitavano, dalla montagna, in quel cielo, così sereno e ampio da parere infinito». E ad «ogni ombra» (così una precedente redazione del passo, più esplicita), (36) nel fermarsi del tempo (cfr. ancora altra redazione anteriore: «Il flusso del tempo, sotto il migrare d’ogni ombra, ristava: una interruzione, una sospensione nel persistere o nel divenire delle cose»), viene dal fondo della campagna, «ritenuto e profondo, come la cognizione del dolore», il «disperato singhiozzo» del cuculo:

Per intervalli sospesi al di là di ogni clàusola, due note venivano dai silenzi, quasi dallo spazio e dal tempo astratti, ritenute e profonde, come la cognizione del dolore: immanenti alla terra, quandoché vi migravano luci ed ombre. E, sommesso, venutogli dalla remota scaturigine della campagna, si cancellava il disperato singhiozzo.

Oltre i confini di scene del resto simili, un’identica scansione regge il fluire di giornate immobili: intervalli di luce e pause d’ombra, e corrispondentemente, sulla campagna assolata, l’unisono assordante di infinite cicale; e, nell’ombra, la voce sola, il singhiozzo rattenuto del cucùlo celato nel folto. La strutturazione della percezione naturale rispecchia così raffinatamente le opposizioni su cui è costruita la Cognizione: quella tra pluralità (gli altri, i molti, i tutti, la moltitudine indistinta dei calibani) e singolarità, e quelle tra socialità e solitudine, tra naturalità e cultura, tra clamore e silenzio, tra atto e pensiero. Ad uno dei poli, «cucúlo» solitario, (37) Gonzalo, in una sua esistenza umbratile (malgrado i momenti solari, alternati ai saturnini, degli sfoghi verbali).

Si torni ora, dopo gli excursus contestuali, alla organizzazione rappresentativa del nostro paragrafo. In esso l’accadimento minimo d’una improvvisa de-solazione sonora della campagna, successivamente rovesciata come s’è visto dall’egressivo risveglie di Gadda 1987a: 123, viene messo in scena, come già si era accennato, in maniera discontinua, in due tempi, e quel che più conta viene sommerso da un profluvio di informazioni che si collocano su di un livello nettamente superiore di generalità. Schematicamente il paragrafo si può riassumere con la formula

A B A′ B′,

o più analiticamente:

[ _____ ] [ _________ ] [ _____ ] [ _________ ]
A A B B A′ A′ B′ B′

in cui ai due momenti A = «Al passar della nuvola, il carpino tacque» e A′ = «La robinia tacque» della rappresentazione puntuale sono intercalati momenti riflessiviB e B′, di estensione superiore. Questa ulteriore alternanza si prolunga per isteresi, anche se con minore rigore, nel paragrafo successivo e nell’apertura del seguente: un momento C [= «Quella straduccia che il medico doveva risalire andò a lungo nell’ombre, non già dei carpini radi, ma delle robinie senza fine ecc.»] omologo ad A e A′ vi viene a sua volta sviluppato, dopo un ampio inserto descrittivo della robinia, da un ulteriore momento riflessivo D′ [= «La sua mediocre puzza la fece considerare utile ai molti; ecc.»] in serie con B e B′: per ridiscendere infine ad E = «Un quadrupedare tra i ciòttoli tolse il dottore ai pensieri: levò il capo ecc.»). Ne risulta un andamento per così dire sinusoidale, trasponibile illustrativamente in uno schema a due livelli che visualizzi gli scarti di generalità di una protratta alternanza tra puntuale e generale:

  B   B′   D′  
A   A′   C   E

Non è irrilevante per la genesi della scrittura gaddiana che lo schema descritto sembra essere presente nel nostro paragrafo sin dall’inizio, o almeno da uno stadio molto precoce, come attesta il frammento di redazione anteriore – l’unica conservata – che qui si riporta (con gli usuali interventi trascrittivi):

Nell’intermettere della cicala, trasvolando la nùvola, si tacitò il carpino. È una sorta d’olmi, nella Néa Keltiké potati senza remissione, fino a crescerne altrettanti pali del telegrafo lungo i sentieri o ›le strade il polverone delle strade le strade‹ la polvere. Di grezza scorza, e così diradati di ramo o di fronda, con foglia povera e frusta, quasi lacera. Si tacitò la robinia senza nobiltà di passato, né studio ‹di rustico [p. ill. cassata] veterano›, né ›canto‹ lode ›di antica buccolica bucolica‹ di faunesca fistola o ›di smarrita‹ canto [p. ill.] di ›malinconiosa‹ smarrita bucolica: radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dall’Australasia e subito fronzuta e padrona d’ogni ripa, d’ogni brolo. Fu per le cure d’un agronomo progressivo ›ch’ebbe‹ che diede sicuro il presagio: ›e‹ ‹egli› ‹su quel fondamento [?]› scontò la fine alle querci, agli olmi ›;‹ : o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi; dei quali non favolosi giganti, verso la fine ancora del ›decimosettimo‹ decimottavo secolo, era oro e porpora sotto ai cieli ›dell’‹ d’autunno tutta la spalla di là della dolomite di Terepàttola, dove di qua strapiomba, e ‹dorata› splende, ‹come ›apparizione‹ muro di regni non ›tocchi‹ valicati› sulla ›chiarità‹ livellazione turchese del lago. La calcina, manco a dirlo, per fabbricare le ville: e i muri di cinta delle ville: coi peri a spalliera.

Si venga ora ad un esame particolareggiato dell’articolazione A B A′ B′ del paragrafo, e specialmente dei due momenti cosiddetti riflessivi B e B′. In A e in A′ protagonista, grazie alle personificazione imposta dall’impiego di tacere, è il paesaggio, di cui viene presentata (fondendosi in uno narrazione e descrizione: il verbo è al passato remoto della narrazione di eventi) una alterazione puntuale. Gli interposti momenti B e B′ conducono invece con netto salto di generalità fuori dalla narrazione-descrizione, ad un piano meno puntuale, più astratto: per introdurre della informazione in un certo senso enciclopedica sui referenti, per caricare questi referenti di storia e di sapere: di cultura economica, botanica, letteraria, mitologica. I carpini che tacciono in a sono quelli, nominati preziosamente da un singolare generico («Il carpino»), piantati lungo la stradaccia percorsa da medico o su altri prossimi sentieri. Ma sùbito, in B, la referenza si estende in generale, col soggetto sottinteso del nuovo periodo («è compagno ecc.»), a tutti i carpini della Néa Keltiké (la Lombardia, la Padania) e corrispondentemente la predicazione diventa abitudinaria, con un presente di consuetudine o di validità atemporale (da «tacque» a «è compagno», a «lo potano ecc.»), e viene addirittura ad applicarsi dopo i due punti, con una terza metamorfosi della referenza, al plurale dei carpini-pali, vale a dire a ciò a cui le cure dei contadini riducono il popolo indifeso dei carpini. Sotto il virtuosismo della mutevole denotazione e del caleidoscopio tematico (evidente nella progressiva declinazione sino a «foglie» dei soggetti) stanno, a contrappasso della contingenza, salde nozioni di botanica e di economia agraria, non indegne delle pagine di un Politecnico: il carpino, «compagno», compàgn, cioè, dialettalmente, simile, come accerta la redazione anteriore riportata sopra, all’olmo, (38) e non semplicemente consociato ad esso (l’olmo che pure accompagna il cammino del medico: «una stradaccia affossata nei due muri y por su erte nelle ombre delle robinie e d’alcuni olmi», Gadda 1987a: 97), è tendenzialmente governato a ceduo (in particolare le fronde, effettivamente rade – «foglie misere e fruste, quasi lacere» (39) – erano utilizzate per l’alimentazione del bestiame: anche la Viola pascoliana «facea brocche di càrpino e d’ontano»), con taglio a sgamollo eseguito sui rami laterali, donde l’aspetto di «pali con il turbante»; la qualificazione della scorza – «grezza» – non è forse immemore del «cortice […] scabro» nella voce del Forcellini, che testimonia del resto, coi rimandi a Plinio e a Catone, di un nobile passato georgico della pianta.

La «robinia» che in A′, analogamente, tace è invece per parte sua un albero nuovo, senza tradizione, diffusosi nell’Ottocento a soppiantare per ragioni (secondo il narratore) prevalentemente economiche la flora autoctona della Padania. Albero senza qualità (negative le prime tre: senza + sn e due volte ignota + sp), la robinia catalizza la vis polemica di un narratore del tutto dimentico del personaggio. Viene recuperato in particolare l’improperio di un testo incompiuto di qualche anno prima, i Viaggi di Gulliver, in cui la sesta «generazione di felicità […] infitta nella felice Breanza» era l’«arbore pungentissimo» della robinia: «più feconda che non le mosche sopra al risotto o i pesci gobbi in Eupili. Ecc.» (si ricordi il «propagativa» del nostro passo). E ivi, come qui, è Manzoni a fare le spese di una vera o supposta propaganda della robinia (si andrà, per i dettagli, all’annotazione di Gadda 1987a: 113, r. 12 n.):

Ignota in antico ai maggiori, uno grande scrittor nostro, che fece scritture assai buone e castissime, e compiacevasi a un tempo medesimo in nell’agricoltura, dicono l’avesse fatta venir d’Oceania. Ah! quanto amerei che il detto scrittore non avesse ad aver fatto quest’opera, ch’è la pessima sua: egli propagò la robinia come nessun santo apostolo ha mai propagato la Fede di N.S. In quella terra che tutta la ricopriva il folto e sano popolo delli abeti, e la mormorante abetaia, nel vento, pareva dare agli umani il suspiro e la resina, egli vi fece venire questo arbore nuovo, ch’è a quelli nobilissimi come uno signor nuovo a uno vecchio signore. (RR II 965)

Due alberi, dunque, nei due momenti referenziali A e A′; o meglio due tipi d’alberi, accomunati dal loro ruolo pratico ma in certo modo contrapposti, vittima il primo – l’antico – della spietata necessità («lo potano senza remissione») ma essenza di suo tendenzialmente dimessa («foglie misere e fruste, quasi lacere»); e trionfante creatura, il secondo, della Utilità. Si ritrova così di nuovo una opposizione omologa a quella tra luce e ombra, tra cicale e cuculo.

* * *

Si è dunque sin qui analizzata del nostro passo l’architettura binaria, che avvicenda descrizioni e commenti, una architettura notevole per le complesse rispondenze e regolarità, e certo insolita nella prosa del Novecento italiano. Il percento di tipicità gaddiana della scrittura è tuttavia ulteriormente accresciuto dall’intervento di alcuni procedimenti che si sovrappongono all’equilibrio degli schemi logici per comprometterne dall’interno la consistenza, per introdurre la gratuità del gioco là dove sembrava regnare la razionalità. Si consideri in particolare la regolarità del dispositivo simmetrico A B / A′ B′. Essa viene attenuata almeno in due modi. Da una parte, più sottilmente, interviene la modalità sintattica della transizione da A a B e da A′ a B′: che si fa prima attraverso confini di frase («… il carpino taçque. È compagno all’olmo…»), e poi, in maniera più insidiosa, entro la stessa frase o periodo, a cavallo di confini di sintagma («La robinia tacque, senza nobiltà di carme…»). Sulla regolarità è dunque innestata l’irregolarità, la seconda si nutre della prima. E da un’altra parte, l’attenuazione si effettua mediante una più evidente dissimmetria tra B e B′. Il segmento B′ risulta in effetti di lunghezza e soprattutto di complessità nettamente superiori a quelle di B. La complessità è indotta da alcune caratteristiche tecniche di espansione (caratteristiche, beninteso, non per la loro natura ma per modo, frequenza e cumulo):

i) la progressione o deriva tematica lineare – di cui si è già parlato sopra all’inizio di § 1 –, essenzialmente digressiva; e

ii) la progressione per expolitio in parallelo di sottotemi.

La giustapposizione di qualificativi negativi («senza nobiltà […] ignota al […] come alla […]») e positivi (parte dei quali concepibili come giustificazione dei negativi: «senza nobiltà di carme ecc.» perché «dedotta ecc.») con cui B′ inizia, viene in effetti sviluppata, dopo un punto, da un nuovo periodo. Esso riprende ed elabora una delle informazioni in primo piano, nuove, rilevanti – in breve: rematiche – del periodo che precede: «dedotta in quella campagna […]. Fu per le cure di…»; in altri termini: ciò – l’essere introdotta in quella campagna – avvenne per le cure di… Dalla introduzione in Europa della robinia da terre lontane («dell’Australasia» = dall’Australasia – ma Gadda confonde qui robinia e acacia) si viene cioè a parlare del principale responsabile di una simile modificazione, carica di conseguenze, dell’ecosistema. E si continua quindi allo stesso modo, riprendendo e sviluppando in una nuova unità sintattica e semantica l’elemento, o uno degli elementi rematici dell’unità precedente. L’enumerazione rematica «alle querci, agli olmi, o […] all’antico sognare dei faggi» è ritematizzata all’inizio del nuovo periodo con «Dei quali non favolosi giganti ecc.», e il nuovo periodo riproduce al suo interno due ulteriori volte il procedimento di progressione tematica lineare, sotto forma anzi della più stretta anadiplosi a contatto, antecedente + relativo: «della dolomite di Terepáttola [= il Resegone o piuttosto, come credo, la Grigna, presso Terepáttola-Lecco] dove [= mentre essa, cioè la quale invece] di qua strapiomba […] del fondovalle, che conosciamo essere un lago».

La quadruplice tematizzazione di elementi rematici conduce il lettore molto lontano dal tema iniziale di B′, le robinie di un presente piattamente utilitaristico: lo conduce, indietro nel tempo, al «popolo senza frode» dei grandi alberi – querci olmi faggi – di paesaggi lombardi del «decimottavo secolo», non senza qualche sospetto di maniera ariostesca (si veda per la coppia olmi-faggi, Orl. Fur., I, 33: «Il mover de le frondi e di verzure, | che di cerri sentia, d’olmi e di faggi»; del resto anche la ripresa «dei quali non favolosi giganti» sembra genericamente rimandare all’Orlando); o lo conduce, come nell’apertura dei Promessi sposi, al presente affettivo di paesaggi familiari allo sguardo dell’autore, come la «turchese livellazione del fondovalle, che conosciamo essere un lago». Subentra a questo punto, a contrastare la deriva dei temi, il secondo dei procedimenti di espansione che si sono nominati, la progressione per expolitio in parallelo di sottotemi. Si decide cioè di risalire (in parte) la catena digressiva, recuperando il nuovo tema – «La calcina» – dallo stesso periodo da cui erano stati estratti i faggi e gli altri «non favolosi giganti»:

vaticinando la fine alle querci a1, agli olmi a2, o, dentro i forni della calcina b, all’antico sognare dei faggi a3. Dei quali non favolosi giganti a1-3, verso la fine ancora del decimottavo secolo, era oro e porpora sotto ai cieli d’autunno tutta la spalla di là […]. La calcina b, manco a dirlo, per fabbricare le ville, e i muri di cinta alle ville: coi peri a spalliera.

(le sottolineature semplici/doppie e gli indici illustrano lo schema con cui è costruita la ripresa, che è complessivamente del tipo a1, a2 b, a3/a1-3 b, o più semplicemente ab/ab′). L’ultimo, e più breve, membro del segmento B′ si sforza così, istituendo un parallelismo, di ristabilire l’equilibrio compromesso da una progressiva marginalizzazione del centro di gravità.

Lo stesso accadeva nel paragrafo d’apertura della Cognizione, che, destinato in linea di principio a stabilire puntigliosamente le coordinate storiche e spaziali della narrazione, declina presto in cascata inarrestabile di anadiplosi segnate a momenti da finti tentativi di ritorno a monte nella catena tematica. Esso è ad un tempo avvio narrativo e caricatura burattinesca di movenze narrative. Fenomeni analoghi di deriva tematica occorrono in molti altri luoghi, a riprova dell’importanza nello stile gaddiano delle tensioni centrifughe destinate a bilanciare, sul piano della scrittura e della cognizione, la ratio della sintassi, della logica e dei valori. Si ricordi per tutti il passo di Gadda 1987a: 245:

l’immagine del vecchio colonnello medico, che lui pure aveva avuto occasione di conoscere, se non proprio all’Ospedale Militare Centrale di Pastrufazio. Del vecchio medico, e colonnello nonostante tutto, dal mento quadrato, dal colletto insufficiente al perimetro, col piccolo gancio ogniqualvolta sganciato, sul collo: che appariva quasi bendato dalla bianca benda militare. Bende ch’egli aveva visto, egli Gonzalo, ai distesi: non mai bianche, nel monte.

Il combinarsi nella linearità del paragrafo di osservazioni puntuali della realtà e di escursioni commentative inducono, come già si era detto per l’accumulo di ornato nel passo analizzato in § 1, e come è vero oltretutto per gli elementi di ogni complessa struttura alternativa, un sensibile rallentamento del testo, svalutando complessivamente, al suo interno, la rilevanza narrativa della descrizione in sé. Temi secondari acquistano allora rilievo autonomo e si amplificano le armoniche associate ai temi principali. È quel che, come credo, accade nel nostro passo per il tema del canto delle cicale. Questo tema, che nella Cognizione torna come si è visto innumerevoli volte nella rappresentazione dell’ora meridiana – si tratta di «una tra le più ampie orchestrazioni metaforiche di Gadda», secondo Pietro Citati (40) –, viene qui ad assumere una importanza difficilmente riducibile al semplice dato descrittivo. Da una parte esso fa risuonare ricche armoniche letterarie – si ricordi quel che s’è detto sul metodo di lavoro dell’autore – in primo luogo ariostesche: (41) penseremo ai versi memorabili di Orl. Fur., VIII, 20: «sol la cicala col noioso metro | fra i densi rami del fronzuto stelo | le valli e i monti assorda, e il mare e il cielo» (42) (anche la robinia gaddiana del resto è «subito fronzuta»), che il Carducci delle «Risorse» di San Miniato al Tedesco (ben noto a Gadda, come attesta una lettera a Contini) aveva ripreso in ironica polemica entro un bellissimo elogio delle cicale:

Nelle fiere solitudini del solleone, pare che tutta la pianura canti, e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino: pare che essa la terra dalla perenne gioventù del suo seno espanda in un inno immenso il giubilo de’ suoi sempre nuovi amori co ’l sole.

Ma da un’altra parte l’onnipresenza vigile delle cicale non sembra estranea ad una certa grecità più o meno di maniera (si pensi del resto ad una pagina delle Meraviglie d’Italia, in SGF I 49, in cui è evocata la luce dell’Ellade: «quella luce che già vide Zeusi, immota ed immensa tra le foglie digitate e setose, assordata dal disteso frinire»), con in più, forse, una allusione esplicita ad uno dei più vulgati miti platonici del Fedro. In esso alle cicale è dato per sorte d’essere l’orecchio delle muse, a cui riferiscono sollecite chi più chi meno le onori: a Calliope ed a Urania svelando in particolare chi «trascorra la vita filosofando». Così, per molte ragioni, concludeva Socrate: «dobbiamo parlare e non abbandonarci al sonno meridiano». Ma proprio «Per non dormire….» è l’esclamazione con cui Gonzalo accondiscende al racconto del medico (in Gadda 1987a: 227): certo un motto dannunziano, come è stato detto, (43) ma pronunciato da un protagonista che coltiva suoi ozi filosofici: che legge il Parmenide (p. 386), il Simposio e forse Le leggi(p. 411), e che rifiuta il clamore e le parvenze circostanti perché non gli consentono di «raccogliersi ne’ suoi studi filosofici o algebrici» (p. 492). Le «bestie della luce» sono così fedeli testimoni del non-abbandonarsi al sonno meridiano di Gonzalo; testimoni, anzi, del suo dialogo filosofico col medico, in cui l’alternarsi di sezioni teoretiche e piattamente quotidiane (affidate, queste, la più parte al medico, ma non solo) sembra riprodurre l’alternarsi di canto e silenzio, e di luce e ombra, della descrizione introduttiva.

3. Qualche parola di conclusione: leggere (le descrizioni di) Gadda

Nelle pagine che precedono si sono dunque individuate nella prosa gaddiana due particolari tecniche descrittive a cui abbiamo dato i nomi di descrizione per alternative e di descrizione commentata. Si è anche detto che le due tecniche sono riconducibili ad una tendenza alla metonimia infinita, al vedere in ogni parcella di reale la rete di relazioni, il «ragnatelo di riferimenti infiniti» (44) che lo costituisce. Una identica motivazione accomuna le due tecniche descrittive a fenomeni ben noti come la pletorica (talvolta) annotazione a piè di pagina o i salti di registro o addirittura di lingua nell’allineamento delle parole di una frase. È anzi senza esagerazione lecito affermare che tutta la scrittura di Gadda è retta da un principio di associazione generalizzata, che la sottopone sistematicamente, riga per riga, parola per parola, ad una esplosione metonimica.

Ma la conseguenza naturale di questo fatto, se si vogliono seguire le escursioni molteplici dell’autore, è che la velocità media di lettura risulta necessariamente molto rallentata rispetto ad una ipotetica norma narrativa primo-novecentesca. La lettura richiesta dalla pagina gaddiana è, si direbbe, quella lenta, minuziosa, attenta al dettaglio. In effetti, molte costruzioni narrative gaddiane sono spesso, come è stato detto per la Cognizione, compagini statiche, «più saggio o trattato e confessione che narrazione». E particolarmente statiche possono risultare molte delle descrizioni, nelle quali non ha senso ricercare una delle usuali funzioni narrative (fornire il quadro all’azione, creare una Stimmung, introdurre indizi, ecc.). Questo è senz’altro vero. Ma vi sono diverse modalità di lettura rallentata, e credo sia sostanzialmente sbagliato pensare a Gadda come ad uno scrittore da avvicinare solo in piccolo, per indugi, deviazioni e ritorni, esplorando minutamente e senza itinerari prestabiliti – come la libellula «di tutto obliosa» di un passo della Cognizione (45) – i meandri associativi della frase e del lessico. Impiegando cioè una lettura sostanzialmente astrutturale, antiromanzesca nel suo atomismo. La staticità e l’associata esplosione metonimica sono in realtà nella pagina gaddiana una conseguenza calcolata di una impavida volontà strutturante: sono un aspetto dell’equilibrio instabile tra le due forze contrapposte dell’ordine e del disordine, della struttura e della dispersione.

Ne risulterà che leggere adeguatamente le descrizioni gaddiane (e in generale la scrittura di Gadda) esige, oltre ad una totale disponibilità ad abbandonarsi alle escursioni gratuite, ai salti della fantasia associativa, lo sforzo di ricostruire l’architettura rigorosa che consente e innesca il suo contrario: vale a dire l’aleatorietà centrifuga. Questa architettura si manifesta sì in piccolo, entro il paragrafo e la sua porzione, come si è visto in § 1 e in § 2, ma si manifesta anche nelle macrostrutture, e da esse una lettura attenta dovrebbe in ogni caso partire. Una descrizione del tipo di quella che apre il secondo tratto – «Al passar della nuvola, il carpino tacque» – acquista insomma significato e funzione solo se la si inserisce, come si è cercato di fare nei primi paragrafi di § 2, nel contesto narrativo che la giustifica e che essa relativizza. Leggere correttamente certe descrizioni gaddiane equivale così a rendere giustizia ad un tempo alla loro staticità e alla loro negata dinamicità, al loro carattere di frammento e di tessera indispensabile del tessuto narrativo.

Université de Genève

Note

1. In Roscioni 1995a: 4 sgg.

2. Così in un passo della Meditazione milanese (SVP 667) riprodotto nel citato Roscioni 1995a: 17.

3. Nel Profilo che apre Manzotti 1993a: 17.

4. Si veda ancora il cit. Profilo, in Manzotti 1993a: 19, cui si rimanda anche per i dettagli delle diverse redazioni nella Meccanica.

5. L’osservazione è in Roscioni 1995a: 7-8: «Ogni pietra, ogni oggetto, ogni fatto è dunque suscettibile di innumerevoli significati. Gli oggetti sono punti da cui partono […] raggi infiniti […]. Nominarli significa perciò descriverli e, più ancora, collegarli e riferirli ad altri oggetti. Il ricorso frequentissimo di Gadda alla metonimia non è il frutto di una ricerca espressiva sorta nell’ambito di una esasperata letterarietà, ma obbedisce a un’esigenza di approfondimento conoscitivo».

6. Si rimanda per una definizione di queste nozioni ad es. a A. Ferrari, La linguistica del testo, in E. Manzotti & A. Ferrari (eds), Insegnare l’italiano. Principi, metodi, esempi (Brescia: La Scuola, 1994), 54 sgg., così come allo studio ivi citato, alla n. 15.

7. In uno «studio compositivo del 6 agosto 1924», eseguito dal vero a Longone (con sott’occhio il modello descrittivo: la strada campestre che correva lungo la villa dei Gadda): «Tra i due muri, che chiudevano due possedimenti, era un viottolo un po’ disagevole: quando nei pomeriggi di luglio il tempo cambia rapidamente di opinione e pare che ci siano degli arretrati nelle forniture di alcuni torrenti, per questo viottolo s’incammina con perfetta naturalezza anche un’acqua, che non ha trovato altra via. I muli devono fare pediluvi, non senza riluttanze cavillose e rifiuti a camminare in quell’acqua, non prevista dai patti. | Gli amministratori del comune ed anche alcuni oblatori privati più fervidi di spirito civico hanno scaricato in quel viottolo a titolo di miglioramento della consistenza patrimoniale del paese, alcuni tegoli spezzettati, che avrebbero potuto utilizzare anche altrimenti ma che dopo un’intima lotta decisero di sacrificare al bene pubblico. Ciò in occasione della demolizione della parte ovest di un vecchio pollaio o di un rifacimento parziale della gronda della stalla o di una grandinata solenne ed imparziale. | Spinto da un’emulazione comprensibile, qualche altro cittadino conferì all’augumento della viabilità con quelle caratteristiche lùnule di terraglia a cui perviene tanto facilmente chi rigoverna il vasellame d’uso. I muli poi ridussero in briciole queste lùnule. | Ed infine s’incontrano in quel vicolo anche altri segni di civismo» (SVP 425-26).

8. Si cita, come nel seguito, dall’edizione einaudiana commentata degli «Struzzi» (Gadda 1987a). Il passo in questione è alle pp. 191-92.

9. Anche in quanto già un di fuori rispetto alla villa-rifugio.

10. La palma della banalizzazione spetta, credo, alla traduzione spagnola: «De la parte de allá del murete, un caminejo. Pedregoso, en pronunciada cuesta, con pedazos [= pezzi, schegge] de patos rotos, o de algún puchero, entre los guijarros, cuando no un olvidado y mohoso bote, limpio, por descontado, de su antigua salsa o mostaza; come de trecho en trecho, bajo el livido metal de un par de moscones ebrios, la vergüenza evacuada de algún adán, la enroscada vileza, esta vez certamente con su miaja de guirlache de almedras, pero de ésos que… como para ponerlos en la baldanza mecachis, y ver lo pesan ecc.» (per quanto anche la traduzione francese non scherzi: «Au-delà du muret, un mauvais chemin. Caillouteux, en forte pente, avec des lunules d’assiettes ou plats brisées, parmi le pierres: à l’abandon, une boîte rouillées, vide, bien sûr, de son ancienne sauce ou marmelade: et par endroits, sous le métal livide d’une paire de moucheron grisés, la honte par Adam expulsée, la turpitude lovée: quelque guirlache de almendras, pour de bon cette fois ecc.»).

11. Per i quali si ricorderà almeno MdI SGF I 108: «una qualche carogna di cavallo […]: le quattro zampe all’aria, un corteggio di mosche verdi ecc.».

12. Come in AG RR II 826: «la […] spada fiammeggiante, che scaccia di paradiso l’Adamo» (cfr. il citato Profilo in Manzotti 1993a: 35, n. 37).

13. Si veda anche Gadda 1987a: 431: «dei torroni, dei colpi di gomito, delle frittelle, delle arachidi brustolite che precipitano il mal di pancia alle merde».

14. Cfr. RI SVP 426-27, alla fine del passo parzialmente riportato nella n. 7 qui sopra: «Si appoggiava ad un bastoncello secco ma rubesto e nocchiuto, lucido come il manico d’un piccone, con il quale rimoveva talora i più pericolosi ciottoli o frantumi di tegolo. Molti avevano nodi nella loro pasta come un torrone o mandorlato croccante». L’immagine è ab ovo di sapore manzoniano: «e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero» (Promessi sposi, cap. I).

15. Una di quelle, come è ben noto, recensite da Gadda stesso nel Racconto italiano.

16. Analogamente a molte altre strade gaddiane. Si vedano per tutte quelle di Notte di luna nell’Adalgisa (e nel Racconto): «La sera vi passano senza rallentare altri ciclisti e pedoni ecc.» (RR I 294), e quella di Ronda al Castello (MdI SGF I 97): «Ciclisti d’ogni qualità e costume fendevano la greve consistenza dell’aria ecc.».

17. Cfr. Gadda 1987a: 73: «tolse dalla bicicletta i ferma-calzoni, ma poi mutò idea, e pensò invece d’andar a piedi».

18. Gadda 1987a: 91; cfr. anche p. 115: «Quella straduccia che il medico doveva risalire andò a lungo nell’ombre, non già dei carpini radi, ma delle robinie senza fine».

19. Gonzalo «guardava la straducola che discendeva dalle ville più alte, che la mamma avrebbe dovuto percorrere, un ciòttolo dopo l’altro, tornando dal cimitero....» (Gadda 1987a: 162-63).

20. Gadda 1987a: 222: «In quel momento, però, si udirono ciottoletti schizzare via da sotto una ruota di gomma, quasi in un raggrumato scintilammento: una bicicletta: dalla strada della costa», e (p. 225): «inforcò […] la bicicletta e divallò subito verso Lukones, con gomme pizzicottate dai sassi, che gli sparavan via da sotto le ruote, come da tante fionde rideste nella terra».

21. Si ricorderà che il medico è un altro potenziale utente-ciclista della stradaccia (cfr. n. 17).

22. Basterà qui rimandare agli esempi di L’Adalgisa (RR I 417): «Pizzi bianchi, e talora càndidi, sulle poltrone di velluto azzurro o scarlatto: ricambiabili: ove posa la testa sul rotondo colmo dello schienale: sui braccioli, ove potrebbero posare le mani», e della stessa Cognizione (rispettivamente Gadda 1987a: 258, 260, 261 e 268-69): «Vagava nella casa: e talora dischiudeva le gelosie d’una finestra, che il sole entrasse, nella grande stanza […]. Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talora delle sue cupe nuvole; che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente. Ciò accadde anche nello scorcio di quella estate, in un pomeriggio dei primi di settembre, dopo la lunga calura che tutti dicevano sarebbe durata senza fine: trascorsi una diecina di giorni da quando aveva fatto chiamare la custode, con le chiavi ecc.»; «L’uragano, e anche quel giorno, soleva percorrere con lunghi ululati le gole paurose delle montagne, e sfociava poi nell’aperto contro le case e gli opifici degli uomini»; «Dal fondo buio delle scale levava talora il volto, e anche in quell’ore, a riconoscere sul suo capo taciuti interludi della bufera, la nullità stupida dello spazio: e della sera sopraccadente, dalla gronda, fuori, gocce, come pianto, o il misericorde silenzio». Si tratta, come non era da dubitare, di modo manzoniano – cfr. nel I cap. dei Promessi Sposi: «Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra […] Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse ad una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno» –, volentieri ripreso dal d’Annunzio prosatore.

23. A cui andrebbe aggiunta la ulteriore di sparapanzato, che sembra contaminare a fini espressivi (se si esclude il semplice lapsus) un normale spaparanzato col successivo sparare di «sparando sassi».

24. Si ricorderà che la serie di gerundive strumentali contrapposte è modo gaddiano tipico, utilizzato a volte proprio per introdurre alternative. È così che nel caso minimo di un passo riportato sopra («Fendendo», «avvistando») e in quello ben altrimenti complesso di Gadda 1987a: 247-48, in cui è affiancato dal sintagma strumentale con + articolo definito + infinito: «Alcuno poi di quei vigorosi aspiranti pensionati […] tentò anche di meglio: cooperando con le più tese energie dello spirito […]. Facendosi, dico appunto il Manganones, oltre che guardia, ma anche imbonitore, procuratore ai contratti-lampo, ed esattore-lampo […]. E imparando oltre a tutto, nei casi di emergenza, a scrivere perfino la propria firma. Cooperando nel modo migliore al successo delle più svariate iniziative: vuoi con l’intruffolar foglini color di rosa, ogni notte, nei buchi delle serrature, agostone o giuseppine o teresotte: vuoi con lo spiccare più consistenti e circostanziati fogli, o biglietti, cilestri, o rosa, da un bollettario a matrici: vuoi con lo spiccarli identici di mese in mese, e pur atti a rappresentare, di mese in mese, un valsente modulatamente crescente, cioè a differenziale positivo, chi ripigliasse la parola dai matematici, cioè affetto, il valsente, da prospero (per quanto modulato) incremento e vento in poppa».

25. Si noterà il proliferare del suono |p|, che, come spesso accade nel Pasticciaccio, si fa strumento d’invenzione lessicale.

26. Cfr. Gadda 1993b: 49.

27. Un caso analogo è diffusamente analizzato in Manzotti 1984: 332-56.

28. Nel frammento cosiddetto hH: Der Hof des Professors: «meine Herren, wenn ich dieße Katze zum Fenster hinauswerfe, wie wird dieße Wesenheit sich zum centrum gravitationis gemäß ihrem eigenen Instinct verhalten».

29. Che a sua volta prepara la prima grande scena del romanzo: il dialogo filosofico tra il medico e il paziente.

30. Il qualificativo allude in ironico contrappunto a modi di narrativa ottocentesca: cfr. Gadda 1987a: 400 rr. 304-05, e n. di commento relativa.

31. Un po’ sulla scorta d’un sonetto dello Zanella sicuramente memorizzato: «Il suo stridor sospeso ha la cicala» (Astichello, XV, 1), se non di un Temporale pascoliano («è mezzodì. Rintomba. | Tacciono le cicale | nelle stridule seccie»).

32. L’avverbiale, a ben guardare, è brillante correttivo tecnologico all’insufficienza onomatopeica e lessicale che il Carducci delle «Risorse» di San Miniato al Tedesco lamentava in frinire (il sostituto strillare è ad esempio sperimentato in «Ebre di sole strillan le cicale», in Per la sospensione del «Don Chisciotte»).

33. Un’alternanza, certo non letterariamente inedita, per cui si veda ad es. il d’Annunzio del Poema Paradisiaco (Nell’estate dei morti, vv. 8 e 15-21, dove anche la coppia porpora-oro): «Guarda le nubi. […] || Dense come tangibili velari | scorrono il piano le lunghe ombre loro. | Entro splendonvi or sì or no le vigne | pampinee, le pergole, i pomarii, |e le foreste da la chioma insigne, |e tutte quelle sparse cose d’oro, | come entro laghi azzurri e solitarii».

34. E in generale simbolo della coppia complementare luce-oscurità proprio per una alternanza costitutiva, di silenzio nella notte – nell’ombra – e di canto alla luce del sole.

35. SGF I 210-12.

36. «Nuvole rotonde e bianche vaporavano dalle montagne, adombrando i campi ‹al passare› come vele fuggitive. Il cuculo dava ad ogni ombra le sue note scandite». Per un’analisi di dettaglio del passo, e in particolare della combinatoria dei diversi temi da una redazione all’altra, si veda il citato Profilo in Manzotti 1993a: 35-43.

37. Si ricorderà nel «Concerto» di centoventi professori (L’A RR I 467) il «solitario e lirico amico, una specie di clarinetto-cúculo in tanta abbondanza di mano d’opera, in simile pluralità di stabilimenti sull’Oglio, e di anonime concatenate. Costui, dal fondo di via San Pietro in Gessate – (dove stenta, dopo la morte della mamma, i suoi giorni ipocondriaci non ancora consunti) – costui ecc.».

38. Una somiglianza sovente registrata: cfr. ad es. il Mattioli s.v. «carpino» nel GDLI: «simile di foglie all’olmo è il carpino».

39. In «lacere», lacerate, sdrucite, va forse colta anche l’allusione alla seghettatura dei margini delle foglie; nel Dizionario di botanica generale di G. Bilancioni (Milano: Hoepli, 1906), foglia lacera: «divisa nel margine da intagliature poco profonde, ma disuguali».

40. Citati 1963: 37. Sul tema si vedano anche le osservazioni di De Matteis 1985: 36-37, con proposte di interpretazione simbolica: «L’incontro del dottore col figlio è preparato e accompagnato da un accordo tematico emanante dalla identificazione sinestetica della luce e del canto delle cicale, manifestazioni del mondo di fuori, posto oltre la penombra e il silenzi della villa. L’urlo [sic] delle cicale è assimilato alla cecità estiva della luce, nello sterminato contrappunto della terra, in una nozione d’infinita presenza e di certezza assoluta, la prova di una preesistenza immutata del pieno del mondo: l’“essere in sé”, avvolgente della sua densità irriducibile il vuoto della villa e la coscienza perplessa trascinata verso il nulla in essa racchiusa. La prima comparsa delle cicale prepara l’incontro col figlio, il frinire della cicala si proietta in una figurazione di simbolica dimensione spaziale ecc. ecc.».

41. E forse in parte anche dannunziane: cfr. Laus vitae, vv. 2130 sgg.: «Tutta la valle ardeva | di fiamma cerula, e il canto | delle cicale era come | il suono del foco celeste, | talor come il crèpito chiaro | degli arbusti arsi, dei fumanti | aròmati», o Primo Vere, Solleone, vv. 17 sgg.: «Su’ radi alberi | e ne’ cespugli canta la cicala | la canzone de l’uggia ecc.». Ma cfr. anche il Pascoli di Odi e inni, L’isola dei poeti, vv. 25-26: «i mezzodì d’estate | pieni d’un verso inerte di cicale».

42. Con gli associati passi virgiliani di Ecl. II, 13: «sole sub ardenti resonant arbusta cicadis» e Georg., III, 328: «quarta hora cantu querulae rumpent arbusta cicadae».

43. Nel commento ad locum: si veda ora Motti dannunziani, a cura di P. Sorge (Roma: Newton Compton, 1994), 70.

44. SGF I 638.

45. Gadda 1987a: 190-91: «sopra, azzurra, vi svolava la libellula, di tutto obliosa […]. Con quel suo fare di bella donna a spasso, priva di itinerari […,] che si lascia chiamare qua e là da mille varianti imprecise, ori, drappi, fiori, cianfrusaglie, al bazar dell’estate senza confini».

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-16-7

© 2007-2023 by Emilio Manzotti & EJGS Manzotti Archive. First archived in EJGS (EJGS 5/2007), Supplement no. 5. Previously published in M-H. Caspar (ed.), Carlo Emilio Gadda, Italies – Narrativa 7 (Paris: Université Paris X - Nanterre), 114-45, and, in the English version, in M. Bertone & R.S. Dombroski, Carlo Emilio Gadda. Contemporary Perspectives (Toronto: University of Toronto Press, 1997), 61-95.

Artwork © 2007-2023 by G. & F. Pedriali. Framed image: A Cabinet of Curiosities (Wunderkammern) – detail from an illustration in V. Levinus, Wondertooneel der natuur, tome II (1715), Strasbourg University.

The digitisation and editing of EJGS Supplement no. 5 were made possible thanks to the generous financial support of the School of Languages, Literatures and Cultures, University of Edinburgh.

All EJGS hyperlinks are the responsibility of the Chair of the Board of Editors.

EJGS is a member of CELJ, The Council of Editors of Learned Journals. EJGS may not be printed, forwarded, or otherwise distributed for any reasons other than personal use.

Dynamically-generated word count for this file is 14762 words, the equivalent of 43 pages in print.